Il dottore Angelo Comi di Roma (Sitiologia, ossia Medicina naturale studiata nelle virtù delle piante alimentari. Tesi originale del dottor Angelo Comi, Roma, Perino, 1886), dice che il sugo dell'arancio sanguigno, citrus aurantium melitense, preso in tempo, riordina il disordine mentale della clopemania, ossia la pazzia di prendere gli oggetti degli altri, senza averne bisogno. La quale pazzia l'attribuisce alle levatrici che guastano e ledono il setto pellucido degli emisferi cerebrali, ed aggiunge che non essendo contemplato nei trattati di psichiatria, nè di medicina legale, taluni poveri sofferenti devono passar la vita in case di pena, processati e condannati come ladri. E pensare che si potrebbe rimediare col sugo dell'arancio sanguigno! Il medesimo illustrissimo signor Comi insegna che il Citrus bigarradia vulgaris (melangolo forte) dà una polpa sugosa che strofinata sulla testa più volte al giorno distrugge il pediculus — leggi pidocchio — e che questo frutto candito giova alla nostralgia — è un vero surrogato alla patria.
più volte al giorno distrugge il pediculus — leggi pidocchio — e che questo frutto candito giova alla nostralgia — è un vero surrogato alla patria.
Mille sono le virtù ed i vizi che i medici assegnano agli asparagi. Sono diuretici in sommo grado, giovano nell'idrope, nelle affezioni cardiache, sono calmanti nell'orgasmo nervoso, nei dolori dei tisici, nell'insonnia, giovano contro il catarro polmonare, nella paralisi della vescica e perfino, a detta del medico ateniese Chairetes, contro l'idrofobia. In alcuni stabilimenti balnearii fa parte della cura pei reumatici. All'incontro non sono convenienti agli isterici, agli ipocondriaci, ma sopratutto a quelli che patiscono la gotta. Albert suggerisce che mettendo la sera nel pot de chambre un paio di goccie d'aceto, colui che il giorno prima s'è fatto una scorpacciata d'asparagi, si desta al mattino in un'atmosfera embaumè di violette. Altri invece assevera, che tale effetto si ottenga con un po' di essenza di trementina invece dell'aceto.
un paio di goccie d'aceto, colui che il giorno prima s'è fatto una scorpacciata d'asparagi, si desta al mattino in un'atmosfera embaumè di violette
La Cioccolata — (Mil.: Ciccolatt. — Franc.: Chocolat. — Ted.: Schokolate. — Ingl.: (Chocolate. — Spagnuolo: Chocolate), deve il suo nome a Sciocolatt, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta drogata è più saporita e sana di quella che ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, olii, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata, è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita, non si rompe senza sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fa bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte, dà un'eccellente mistura assai sostanziosa, ma non adatta a tutti gli stomachi e che da noi si chiama barbajada, dal suo inventore Barbaja, impresario alla Scala al principio del secolo (1). Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice, che Antonio Carletti fiorentino, fu uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè prò e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa, se la facevano servire perfino in chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il rev. padre Escobar, sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta, coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè
dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa, se la facevano servire perfino
Il suo nome dall'arabo Kabar, che significa capo, perchè i bottoni dei fiori ànno la figura di piccole teste. Arboscello ramosissimo perenne, originario dall'Asia e venne per primo a Marsiglia, importato da quella colonia greca che la fondò. Dà in maggio e luglio moltissimi e grandissimi fiori bianchi. Il frutto è una bacca uniloculare di forma elittica, lunga un pollice. Da noi vegeta benissimo sulle vecchie mura e tra le rupi dei colli esposte a mezzodì ed anche a settentrione, purchè riparate dai venti. Nel linguaggio dei fiori: Solitudine beata. Nei vasi riesce a stento. Meglio che coi semi, si propaga con rami radicati, mettendoli in qualche crepaccio di muro vecchio e adattandovelo alla meglio con un poco di terra. Rivegeta ogni anno, se si avrà cura di tagliarne i rami al giungere dell'inverno sin presso le radici. Sonvi circa 30 specie di capperi conosciute, molte delle quali coltivate. In Arabia avvene una che cresce fino all'altezza di un albero. In Barbería, nei contorni di Tunisi e nella Provenza, tra Marsiglia e Tolone, se ne fa la coltivazione in grande. Anzi, nelle vicinanze di quest'ultima città, al principio di questo secolo se ne vedevano dei campi interi, e queste pianticelle si chiamavano tapèniers, ed il frutto tapène. Il càpparo di Provenza è superiore a quello di Tunisi. Il càpparo piccolo è il migliore. Tutti conoscono l'uso dei capperi che sono i bottoni dei fiori, ed anche i frutti acerbi, che si lasciano appassire all'ombra per qualche giorno e si mettono nell'aceto poi o nell'acqua salata per condire alcune vivande o farne salse speciali.
. Tutti conoscono l'uso dei capperi che sono i bottoni dei fiori, ed anche i frutti acerbi, che si lasciano appassire all'ombra per qualche giorno e si
, e Brillat-Savarin, come afrodisiaco. Il sugo del carciofo, fu tenuto da Guitteau e Copermann come succedaneo all'aloe e drastico ad alta dose. Fu usato contro i reumatismi, le sciatiche, l'itterizia e come diuretico nelle idropi. Charrier, Otterbourg, Homolle ed altri lo consigliano nella cura della diarea cronica, e suggeriscono di mangiarne crudi con olio, sale e pepe quattro o sei al giorno. È nemico assoluto dei cantanti ai quali annebbia la voce. Giova la decozione del carciofo a coloro che patiscono fetore sotto le ascelle, lavandosi con essa. Le foglie del carciofo fresco allontanano le cimici. Varrone insegna che a macerare la semente in sugo di rose, gigli, alloro si à carciofi del sapore di questi. Un cronista napoletano ci tramanda che celebre per cucinare i carciofi fu Cleope da Vanafro. Vogliono che il nome di Cinara fosse quello di una bellissima ragazza che Giove, quand'era lui al potere, mutò in articiocco e cardone, nome che ancor rimase a questi.
della diarea cronica, e suggeriscono di mangiarne crudi con olio, sale e pepe quattro o sei al giorno. È nemico assoluto dei cantanti ai quali annebbia
si fa nascere su letto caldo e si trapianta in aprile in luna vecchia. Avvene molte varietà: Il bianco grosso, da insalata, il piccolo, per aceto, il giallo precoce, il tondo a pelle ruggine ricamata, che à carne fina bianchissima, il verde lungo inglese, quello d'Atene, ecc. Il citriolo à odore suo proprio, raccogliesi il frutto acerbo, o mal maturo, e ridotto in fette si mangia in insalata con olio, aceto, sale e pepe. I piccoli si mettono in conserva nell'aceto, per mangiarli colla carne a lesso. I citrioli, per molti sono indigesti, per molti altri, rinfrescanti. Se cotti amano il lardo. Si fanno farciti come le zucche e servono come guarnizione. Dei citrioli tutti ne dissero male. Fu sempre reputato un cibo difficile a digerirsi. Galeno voleva che si abolisse dai cibi dell'uomo, come la più iniqua delle vivande, e Plinio asseriva che gli restava sullo stomaco fino al giorno dopo. Nerone ne era ghiottissimo e Tiberio ne mangiava ogni giorno, ma cotti. I milanesi per dire che una cosa vai poco, ànno il proverbio: la var trii cocùmer e un peveron. E per dare dell'imbecille ad alcuno lo chiamano un cocùmer. I citrioli erano una delle dolci rimembranze egiziane degli Ebrei nel deserto. Una ricetta di Dumas:
. Galeno voleva che si abolisse dai cibi dell'uomo, come la più iniqua delle vivande, e Plinio asseriva che gli restava sullo stomaco fino al giorno dopo
NB. Per conservare il fico bisogna essicarlo al sole. Coglierlo sul meriggio in giorno soleggiato, ben maturo — ed essicarlo il più presto possibile — guardarlo dall'umido, dalla pioggia, e rimoverlo e rivoltarlo spesso. Scegliere le qualità primaticcie per godere del sole ancor forte e caldo.
NB. Per conservare il fico bisogna essicarlo al sole. Coglierlo sul meriggio in giorno soleggiato, ben maturo — ed essicarlo il più presto possibile
Il decotto di bacche e foglie di lauro dà una lavanda che fortifica e abbellisce, e, al dire del Dott. Comi, regala la virtù dell'attrazione simpatica, come la calamita che attrae il ferro. Nell'Isola Bella, sul lago Maggiore, Napoleone I, incise di suo pugno, su un lauro, qualche giorno prima della battaglia di Marengo, la parola: Vittoria.
simpatica, come la calamita che attrae il ferro. Nell'Isola Bella, sul lago Maggiore, Napoleone I, incise di suo pugno, su un lauro, qualche giorno prima
11 lino è una pianticella annua indigena venuta a noi dall'Egitto. Ve ne sono 19 varietà. Un etimologo tedesco (oh, gli etimologi!), vuole che il suo nome venga dal celtico lein, un uccello che si pasce dei semi del lino, che dev'essere il passero. Col quale sistema di etimologia, si può spiegare benissimo anche che la parola osso viene da cane, essendo i cani che mangiano le ossa. Pare invece che venga da lis linon e linteum, dall'uso più comune che si fa della pianta, o dal latino Unire, ungere, fregare, il che indurrebbe a credere l'uso antichissimo dell'olio di lino. Il tessere il lino è antichissimo. Omero riferisce che nella guerra trojana molti avevano corazze di lino. Lo filavano perfino le regine, esempio Berta. II seme di lino, riposato fino a 7 ed 8 anni, acquista in qualità arrivando a dare un prodotto comparabile a quello di Riga. I Russi ànno un processo per essiccare nel forno il grano destinato alla semente. Plinio parla di un lino incombustibile, ma evidentemente intende d'un tessuto d'amianto conosciuto già dagli Indi e dagli Egizi. Il lino si coltiva in grande nel Belgio, nell'Olanda, nella Germania, in Irlanda sulle rive del Baltico e nei dipartimenti francesi del Nord. Celebre quello di Riga in Russia, pregiato quello dell'Egitto e del Canada. Da noi si coltiva nelle provincie di Pavia, Lodi, Crema, Piacenza e nella Lomellina. Il lino ci accarezza il corpo di giorno e di notte, ci serve democraticamente in cucina e fa brillare nella sua candidezza i calici aristocratici dello Champagne e del Johannisberg. Ma qui ne parlo solo per riguardo al suo olio. Il seme del lino dà un olio, da noi chiamato di linosa, che non piace a tutti, che non à i pregi di quello di oliva (che à dato il nome all'olio, perchè olio viene da oliva, olea, ma che però, quando è fresco, e molto fresco, e fatto a freddo, è saporito e assai gustoso nella maggior parte delle insalate. Specialmente nell'alta Lombardia è molto usato ed è assai sano. Dal seme del lino se ne cava farina, ma per quanto si sia tentato anche dagli antichi di farne pane o di servirsene per nutrimento, fu sempre rifiutata, ingenerandone l'uso malattie ed anche la morte. Di essa se ne serve felicemente la medicina per cataplasmi, emollienti, ecc.
, Piacenza e nella Lomellina. Il lino ci accarezza il corpo di giorno e di notte, ci serve democraticamente in cucina e fa brillare nella sua candidezza i
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S' adatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da agosto a settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire, à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. Caio (de verborum significatione), dice, da Jovis glans, perchè la noce è la migliore delle ghiande, primo cibo degli Aborigeni e però da essi creduta cibo di Giove. Cloazio è dello stesso parere. Teofrasto crede invece che la ghianda di Giove è la nocciola. Plinio c' insegua che la noce si chiamava anticamente caryon karnon, da kara, testa, perchè à la forma d'una testa, e perchè l'odore che emana l'albero fa male alla testa. I grammatici sono del parere che la voce nux, da dove noce, tragga origine dal nuocere, perchè la sua ombra è nociva, e perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde, incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono, e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura; rotti i gusci, si torchiano subito, perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4 o 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarcele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essiccando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert.
sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene
(Deut., 24, 20): Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele, che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivia, del principio amaro, si conservano in salamoia e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di acqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'acqua, e finalmente si coprono con forte salamoia aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno dei suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa, per esser felice, che un po' di olive, di cicoria e di malva:
, si pongono in bagno di acqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'acqua, e finalmente si coprono con forte salamoia aromatizzata. Queste ulive non
Brodo d'orzo per convalescenti. — Mettete dell'orzo perlato o brillato come dicono, a macerare nell'acqua fredda la sera prima. Il giorno seguente fatelo sgocciolare, mettetelo a cuocere in buon brodo finchè sia tutto scoppiato. Da principio non vi metterete che quel tanto di brodo che basti a coprir l'orzo, aggiungendovene in seguito a poco a poco. Passatelo a traverso di una tela forte e rada, spremendo forte e servite il brodo denso che otterrete dalla spremitura e che i francesi chiamano crème d'orge.
Brodo d'orzo per convalescenti. — Mettete dell'orzo perlato o brillato come dicono, a macerare nell'acqua fredda la sera prima. Il giorno seguente
La patata, o pomo di terra, o solano (dal latino solarium, sollievo), nel linguaggio dei fiori: Beneficenza, è una radice tuberosa originaria dall'America e precisamente dal Chili e dal Perù, dove si trova ancora allo stato selvaggio. Fu importata colla Dalia, e, curioso ! questa per il tubero, la patata per il fiore. Propriamente il nome di patata appartiene ad altra pianta, la vera patata ipomea o convolvulus patata, che viene solo nei climi caldi. Vuole terreno pingue, vegeta in tutti i climi, nelle più basse pianure come a 4000 metri sopra il mare (nell'America e nella Svizzera), sotto l'Equatore (Quinto) come nella Siberia. Da noi si raccolgono i tuberi dall'agosto al settembre, à fiori bianchi e violetti. Si propaga per seme o meglio si piantano i così detti occhi, che sono le parti della patata accennanti al germoglio, cessato il gelo da metà marzo in avanti. Si conservano per tutto inverno, ma al caldo fioriscono, all'umido marciscono, al freddo gelano, e temono la luce. Fu portata in Europa dagli Spagnuoli. Pedro Cicca fu il primo a parlarne nel 1553, e nel memedesimo anno Fiorentino Fiaschi ne scriveva da Venezuela a suo fratello. Il Cardano ne fa menzione nel 1557. Nel 1565 fu portata in Irlanda da Hawkins e poi introdotta in Francia. Prima che Releigh e Drake dalla Virginia la trasportassero in Inghilterra, era coltivata in Toscana, ne fa fede il frate Magazzini, e il Redi che nel 1067 ne mangiava in Firenze alla corte di Cosimo II. Le patate in Italia dapprincipio si chiamavano tartuffoli. Nella Germania s'introdusse nel 1710 e dovunque nel 1772 era coltivato negli orti botanici e nei giardini come pianta di lusso. Ma la sua diffusione, come tubero alimentare, fu lenta e contrastata. I codini d'allora, la avversarono come pianta sospetta, venefica. Ai codini si unirono i medici più celebri, che la incolparono della degradazione fisica e morale delle popolazioni, e fomite di tutte le malattie. Ai codini ed ai medici fecero coro anche i frati ed i parroci che dai pulpiti la chiamarono radice del diavolo. Figuratevi il popolo! Anche oggi la coltura della patata è interdetta in Corea. Non fu che sulla fine del secolo passato che potè trionfare. Gli sforzi fatti da Parmantier per convincere gli ostinati sono incredibili. Il 25 agosto 1785, proprio nel giorno della sua festa, Luigi XVI lo ammise alla mensa reale e Maria Antonietta, al ballo della medesima sera, ne ornò i suoi biondi capelli.
ostinati sono incredibili. Il 25 agosto 1785, proprio nel giorno della sua festa, Luigi XVI lo ammise alla mensa reale e Maria Antonietta, al ballo della
rossa di patate. Un pasticcio, frittura, fritelline, gateau, formaggio di patate, confetti, biscottini, una crostata, una schiacciata, poi caffè di patate. Gordon, in China, à vissuto molto tempo a sole patate. Dalla sua fermentazione se ne cava un'acquavite nociva, che ubbriaca ed abbrutisce i poveri Irlandesi e gli schiavi dell'America. Colla patata si fa birra. Ridotta a fecola, assurge poi alle maggiori dignità chimiche ed industriali. Diventa siroppo zuccherino, saldo per appretto ai tessuti ed alle lingerie, dà consistenza alla carta di lusso; entra dappertutto, infine, ed ogni giorno che passa segna una nuova applicazione scientifica ed industriale del prezioso tubero.
. Diventa siroppo zuccherino, saldo per appretto ai tessuti ed alle lingerie, dà consistenza alla carta di lusso; entra dappertutto, infine, ed ogni giorno
Il pepe serve a calmare i dolori di un dente cariato, purchè tocchi il nervo dentale. Una volta il popolo chiamava il pepe: grani di paradiso. In un manoscritto del secolo V, tradotto da Sim, si trova che il pepe in quel tempo si credeva rimedio sicuro per l'idrofobia, distinta col vero suo nome di lissa. Il pepe fu, per molto tempo, il principale oggetto del commercio dell'Europa coll'India. Fino dalla più remota antichità era droga molto in uso e tenuta in conto di cosa preziosa. Al tempo di Plinio si vendeva a peso d' oro e d' argento — abbiamo ancora il proverbio: caro come il pepe, il che allude al valore che una volta aveva. Il pepe serviva di imposta ai vinti, come oggi i miliardi. Ebbe l'onore di servire di riscatto a Roma e nel medio evo ancora, col pepe si pagavano molti tributi e molte imposte. Il pepe anticamente veniva adoperato nelle febbri intermittenti, è stato abbandonato da che fu scoperta la china. Ma è pure un rimedio efficace e pronto, che offre il vantaggio d'una spesa insignificante. Vuol essere amministrato in grani interi. Se ne prendono dapprima sei grani due volte al giorno, indi si va ascendendo fino a nove grani per volta. Al secondo o terzo accesso la febbre è troncata. Rare volte nella terzana si arriva ai cento grani: nella quartana, fa duopo salire fino ai tre e quattrocento, ma si conosce la difficoltà di curare queste febbri, anche colla china. Proverbi sul pepe:
grani interi. Se ne prendono dapprima sei grani due volte al giorno, indi si va ascendendo fino a nove grani per volta. Al secondo o terzo accesso la
La duracina e le sue varietà, cotta nel vino e zuccaro, sono alimento eccellente per gli stomachi delicati e, sciroppata, il toccasana pel catarro stomacale. La pesca è matura quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla: in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fa marcire, L'Erera, botanico spagnuolo, dice che se si adacqueranno i persici con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore, vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a frutta più importante e che per la sua fioritura iemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangi. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca è frutto giocondo, che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe, è la rosa dei frutti.
raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più
. I piselli colti appena, devono essere sgusciati al momento e gettati in aqua bollente, salati leggermente e bolliti solo 15 o 20 minuti. Quanto più si lasciano bollire, tanto più perdono sapore e diventano duri, e questo si dica anche dei piselli secchi. Devono essere cotti in aqua abbondante, e, levati, farli subito scolare. Se secchi, sarà meglio gettarli in aqua fresca un'ora prima di cocerli e mettere un po' di zuccaro in quella nella quale bollono. La buccia fresca dei piselli, massime dei primaticci, facendola bollire assai e passata allo staccio, dà una sostanza che messa nel brodo fa la zuppa più saporita e gustosa. I piselli freschi e teneri sono più digeribili che i secchi, e si mangiano anche crudi. Si cucinano in diversi modi, colle minestre, colle carni, nei manicaretti. Accompagnano benissimo il capretto, il vitello, i piccioni e le anitre. In ogni caso, ripeto, non devono mai essere stracotti. I piselli si fanno seccare col medesimo metodo dei fagioli e degli altri legumi. Un modo facile e poco costoso è di distenderli su di un piatto o foglio di carta e farli essiccare in un forno abbastanza tepido da potervi tenere la mano. Si raggrinzeranno, ma saranno saporitissimi ed eccellenti per zuppa e ragoùts. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere perfettamente maturi, e si leva ai grani stessi la prima scorza. In Francia, colla buccia mista ad altre erbe aromatiche ed amare, si faceva una specie di birra, usata principalmente dai contadini. Nel Chili, è molto popolare la chicha de oloja, bevanda fermentata che si fabbrica coi piselli e col maiz. Nell'anno 1536, il cardinale Lorenzo Campeggio à dato un pranzo in Trastevere alla maestà cesarea di Carlo V, imperatore. Era giorno quadragesimale «et prima fu posta la tavola con quattro tovaglie profumate... et dopo vari serviti;» furono portati «piselli alessati con la scorza et serviti con aceto et pepe sopra, libre 8 in 4 piatti.» Poi dopo molti altri servizii «levata la tovaglia et data l'aqua alle mani si mutò salviete con forcine d' oro et d' argento con stecchi profumati in 12 tazze d' oro et mazzetti di fiori con garofoli profumati» e tra le altre cose furono ancora serviti «piselletti teneri con la scorza conditi, libre 6 in 3 piatti.» Tanto ci tramanda Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare, del quale papa Pio V dice:
maiz. Nell'anno 1536, il cardinale Lorenzo Campeggio à dato un pranzo in Trastevere alla maestà cesarea di Carlo V, imperatore. Era giorno
Ma invece pare che il primo sia stato un certo Adamo, consorte legittimo della signora Eva, che prima ancora di quell'ubbriacone di Bacco, lo volle mordere co' suoi candidi dentini. Può considerarsi maturo quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza e a cadere spontaneamente; indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi, importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'aqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco, anche
spontaneamente; indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che
. I Greci poi raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il fairepart, ma ufficiale invito d'intervenire. Una dea sola fu esclusa: la dea Discordia. E questa, per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo, dicendo: «Alla più bella di voi,» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch'erano difatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto, per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere, in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se lo mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anche essa al dito. Avvenne che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo che aveva deposto su di un sasso, e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton, mentre riposava in giardino, dobbiamo la scoperta dell'attrazione. La quale attrazione, del pomo, era già scoperta migliaia d'anni fa da Eva. Ed è per questa attrazione che il re Wadislao di Polonia fuggiva e cadeva in deliquio alla vista di un pomo. Il nostro popolo, prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm) della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessari (el pomm quand l'è madur, bisogna ch' el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fa córr a pomm). Proverbi sul pomo:
. I Greci poi raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi
Modo di conservare i poponi. — Togliete dei poponi tardivi che non sono giunti a perfetta maturità, asciugateli leggermente con un pannolino, e lasciateli stare per un giorno o due in luogo asciutto. Poi mettete della cenere stacciata in un barile ben netto. Collocatevi i poponi e copriteli con altra cenere, in modo che tutti ne rimangano perfettamente coperti. Avvertite però di non porre il barile in luogo esposto al gelo. Cosi condizionati, si conservano sino al dicembre ed al gennaio.
lasciateli stare per un giorno o due in luogo asciutto. Poi mettete della cenere stacciata in un barile ben netto. Collocatevi i poponi e copriteli con
Il ramolaccio, o armoracio, è radice annuale, indigena, originaria della China o dell'Asia Minore. Vuole terreno sciolto, pingue e buona esposizione, abborre il massimo caldo. Il seme à virtù per 5 anni. Avvene molte varietà, sì per grandezza che per forma e colore. I bianchi grossi e i ruggini dolci, d'estate si seminano da marzo a giugno, per averne in estate ed autunno. I rotondi, o lunghi, sia bianchi che neri forti, dal giugno a settembre, per averli dall'autunno a primavera. Il ravanello è bianco o rosso, rotondo o lungo, o rosa lunghissimo di Firenze. Si può seminarlo tutto l'anno ed averne tutti i mesi. Meglio seminarlo appena terminati i geli. La miglior semente è quella dell'anno antecedente. Avvi pure il ravanello serpente (raphanus caudatus) di Oiava, ancora poco conosciuto, che à lunghissimi baccelli terminali che possono prolungarsi lino a un metro, di gusto piccante, e che, verde, si pone in aceto. Il ramolaccio e il ravanello addivengono stopposi, bucherati o tarlati, e ciò dipende dalla qualità della terra (che amano terreni forti, tenaci ed asciutti), o al lasciarli troppo nella terra dopo sviluppati, o al conservarli qualche giorno dopo colti. Nel linguaggio delle piante: Dispetto. Il ramolaccio à gusto acre, piccante, si mangia crudo con sale, olio, pepe colla carne. È considerato un condimento pesante allo stomaco e diffìcile a digerirsi. Fu detto che il ramolaccio fa digerire tutto, ma egli non è digeribile:
terreni forti, tenaci ed asciutti), o al lasciarli troppo nella terra dopo sviluppati, o al conservarli qualche giorno dopo colti. Nel linguaggio
(lib 3, c. 16). Si voleva guarisse dai calcoli urinari. Oggi, raschiato ed applicato come cataplasma attorno al collo, il popolo lo usa come risolvente nelle angine, e ne fa sciroppo che trova utile nella tosse ferina e nei catarri ostinati. Il ravanello rosso (Raphanus sativus rosea) à un'azione speciale, al dire del dottor Comi, sull'idropisia del globo dell'occhio e dice sia un antidoto alla mandarosi, ossia caduta delle ciglia, stropicciandole con esse due volte al giorno. Un proverbio dice: il ravanello fa il viso bello. I cronisti ci tramandano che il ramolaccio era la passione di Carlo Magno, passione ereditata da suo figlio Pipino. Dai nostri contadini viene chiamato: Salam de proeusa, e negli educandati: Polpett de magher.
, stropicciandole con esse due volte al giorno. Un proverbio dice: il ravanello fa il viso bello. I cronisti ci tramandano che il ramolaccio era la passione di Carlo
Pianticella annuale gramignacea, aquatica, originaria della China e delle Indie Orientali, che dà il grano da tutti conosciuto. Il suo nome, riso, dal greco Oryza, derivato anch'esso dall'arabo Eruz. Dopo il frumento è l'alimento più sano e nutritivo. Il riso nasce, vegeta e matura nell'acqua, ed ama tutta la pompa del sole: non può vivere senz'acqua e senza sole. Nel linguaggio dei fiori: Ricchezza. Si coltiva dappertutto. Il riso per essere bono, dev'essere novo, ben mondato, ben netto, grosso, bianco, che non sappia di polvere nè d' altri odori. Il riso di più difficile cottura è il più saporito. Col riso si fa pane, il quale è assai bianco e di bon gusto, ma non s'inzuppa bagnandolo. Ma l'uso principale del riso è nella cucina. Nazioni intere se ne fanno il loro nutrimento quotidiano. Il Pilao dei Cinesi non è che il riso. Si coce da noi ogni giorno in minestra, al grasso, al magro, col burro, col latte, coll'olio. Si mescola con ogni sorta di legumi, erbaggi e carnami, se ne fanno torte, pasticci, frittelli, tortelli. Universalmente lo si fa cocere sino all'intero disfacimento, solo da noi si mangia, come si dice, al dente. Sarà forse per effetto di assuefazione, ma da noi lo si trova più saporito così. La cucina milanese, à dato al mondo col riso quel capolavoro che si chiama Risotto, il vero monopolio del quale, per quanto si sia fatto, non si è ancor tolto dalle mani dei veri Milanesi. Alcuni asseriscono che da noi il riso venne introdotto nel secolo XVI, ma è certo che in Italia invece era anticamente conosciuto. Plinio scrive che in Italia
intere se ne fanno il loro nutrimento quotidiano. Il Pilao dei Cinesi non è che il riso. Si coce da noi ogni giorno in minestra, al grasso, al magro
Essiccazione delle susine. — Nel mezzodì della Francia si essiccano in tre modi diversi, due per quelle che maturano d'estate, l'altro per quelle che maturano più tardi: 1.° Ad Agen si aspetta che le susine cadano da sè e non si scote che leggermente la pianta se non quando la stagione è di già avanzata. Si raccolgono ogni giorno, si lavano se non sono pulite, si espongono al sole disposte su dei graticci di vimini per due giorni, rivoltandole frequentemente, e si termina l'essiccamento al forno, introducendole in esso per tre volte, ed aumentando gradatamente la temperatura, perchè il frutto non si screpoli. Se l'operazione è ben fatta, le susine presentano una consistenza alquanto elastica e la buccia lucente e ricoperta del fioretto, che è una specie di materia cerosa. Così preparate si conservano in luogo secco e s'incassano pel commercio. 2.° A Brignolles si raccolgono alla fine di luglio od in agosto, si pelano coll'unghia, s'infilzano su sottili rametti per modo che non si tocchino e si espongono al sole ogni giorno ritirandole la sera. Quando sono essiccate si toglie loro il nocciolo, si comprimono e si rimettono al sole. In commercio vanno col nome di pistoles. 3.° L'ultimo sistema è quello di tuffare i canestri contenenti le susine, nell'aqua bollente, farle poi asciugare al coperto, indi esporle al sole.
avanzata. Si raccolgono ogni giorno, si lavano se non sono pulite, si espongono al sole disposte su dei graticci di vimini per due giorni, rivoltandole
tartufo una ballata, perchè avendone mangiato troppo gli produssero una colica. Ancora nel 780 era raro a Parigi. Nel secolo XVI l'uso del tartufo era frequente in tutta Italia. Il Mattiolo ne parla come di un piatto prelibato di grandi case. Platina, l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli, celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fins soupers de la Regence e del Direttorio, diventa ospite pressochè quotidiano alle mense dei marescialli dell'impero e trova in Brillat-Savarin il suo corifeo ed il suo poeta. Egli lo chiama il Diamante della cucina, Dumas s'inchina profondamente davanti al tartufo, lo adora, e nella sua adorazione non può che ripetere che il tartufo è il sacrum sacrorum. Invano i suoi nemici, la medicina ed i casisti, lo combattono. Avicenna dice che occasiona l'apoplessia e la paralisi — altri che genera la melancolia e la lebbra — altri, che è uno stimolante afrodisiaco. Il tartufo s'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione, quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo?» domandava un giorno Luigi XVIII al suo medico Portal. «Scommetto che voi lo proibite ai vostri malati!» — «Sire, io lo credo un poco indigesto,» mormorò Portai. — «Il tartufo, dottore, non è ciò che pensa il volgo,» soggiunge il re e ne fe' sparire un bel piatto. Talleyrand intratteneva spesso Napoleone sui modi migliori di cucinarli. Byron li adorava, li mangiava sempre coi maccheroni e il grande poeta diceva di non voler mangiare i maccheroni coi tartufi, ma i tartufi coi maccheroni. George Sand chiamò il tartufo, che stimava assai, la pomme de terre fèerique. Rossini, da quel ghiottone ch'era, ne andava pazzo; è a lui che si deve l'invenzione della salade aux truffes. Il tartufo ammuffito produce vomiti ed acute coliche con altri malori cagionati dal parassita che vi nasce. Il tartufo à solo due difetti, di essere indigesto se se ne mangia troppo, e di essere caro. Michele Savonarola raccomanda agli intemperanti in fatto di tartufi, di temer Dio se non temono la colica: consiglio che agli epicurei non à mai fruttato un corno.
'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione, quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo?» domandava un giorno
Capisco la satira. Trattandosi di zucche, ti sei rivolto ad un professore. Ebbene, non ti sei male apposto. Sappi che le zucche più vuote di questo mondo possono elevarsi alla più alta aristocrazia non solo di censo e di gradi sociali, ma altresì alla più alta aristocrazia culinaria. Tu potresti apprestare a' tuoi amici un abbondante, gustoso e variato pranzo quasi colla sola zucca, vale a dire che essa formi d'ogni piatto, se non l'unico, almeno il principale coefficiente. Sono note le minestre di zucca d'ogni specie e fresche secche. La si fa cocere nel brodo, nell'aqua e burro, ovvero nel latte. Se ne rileva il sapore con erbuccie, ova, spezie e collo zuccaro. La polpa delle zucche ed anche i fiori si mangiano fritte, ripiene, accomodate, triffolate, in fracassèe, in stufato ed in polpette. Se ne fanno torte, pasticci e perfino salami. Colle, piccole zucchette lessate o cotte alla brage, o colle tenere ci-, me delle piante bollite nell'aqua, si fa dell'insalata che si condisce coll'olio degli stessi semi della zucca. Il sugo di essa, fermentato, può fornire l'aceto. Colla zucca confettata con miele ed aromi, si provvede al dessert di saporite mostarde e confetture, che si rende ancor più vago abbellendole con piccole zucchettine imitanti le pera, le poma, gli aranci. Il pane si forma colla zucca ben cotta, impastata con la terza parte di farina. Finalmente coi semi di zucca puoi comporre orzate e simili gustose bevande. Che se questo simposio, vuoi prepararlo a' tuoi amici all'aria aperta, lo potrai gentilmente offrire sotto un pergolato coperto colle foglie di una pianta di zucca. Che ne dirò poi delle zucche vuote ? Colla scorza di esse puoi farne bottiglie, bicchieri, piatti, cucchiai, forcine, coltelli, mestole, saliere, lucerne ove arda l'olio del seme suo, recipienti d'aqua, di vino, di liquori, tabacchiere, pipe e quello che vuoi. Le zucche vuote poi servono mirabilmente a sorreggere i mal pratici o novizi nuotatori. A questo proposito, vo' narrarti un aneddoto di Bellavitis e faccio punto. Bellavitis, mio illustre e celebre collega dell'Università di Padova, ora defunto, veniva un giorno supplicato da uno studente perchè gli fosse propizio nell'esame: Veda, professore, insisteva lo studente, se io non passo questo benedetto esame, ò l'inferno in casa mia! Sarei costretto a buttarmi in Brenta. Al che Bellavitis: Oh no xe pericolo per lu, perchè el sa che le zucche ì galleggia! Insomma, io non mi perito a chiamare la zucca la più utile delle verdure ed è ingiusto adoperare il suo nome per insultare alle teste umane. Rispetta dunque le zucche e cava loro tanto di cappello. Lo cavi a tante nullità coperte coi galloni di prefetto, di senatore, di generale ! Un bacio e vale.
Padova, ora defunto, veniva un giorno supplicato da uno studente perchè gli fosse propizio nell'esame: Veda, professore, insisteva lo studente, se io
(1) Domenico Barbaja garzone e giovane di caffè a Milano, poi appaltatore del S. Carlo a Napoli, al quale s'era rivolto il Rossini nel 1815, sposava Isabella Angela Colbrand, prima donna del S. Carlo, nel 1822. Era curiosissimo tipo d'impresario. Rossini scrisse in venti giorni l'Otello pel S. Carlo nell'estate 1816. Il Barbaja aveva un palazzo a Napoli, detto dal suo nome palazzo Barbaja, ed ivi, rinchiuse il Rossini per scrivervi l'ouverture dell'Otello. Rossini dice che gli somministrava un sol piatto di maccheroni al giorno. (Notizie di Bleze de Burij).
dell'Otello. Rossini dice che gli somministrava un sol piatto di maccheroni al giorno. (Notizie di Bleze de Burij).