Il Ribes è un arboscello europeo a foglia caduca, originario dell'Arabia. Il suo nome da Ribiz, parola araba, che significa cosa acidula. Vuole clima temperato, nei paesi caldi il frutto à poco sugo, nei freddi è troppo acido. Ama terreno sciolto e fresco. Si moltiplica per semi, margotte e talee. Si educa a spalliera ed a siepe. À fiori odorosi in Aprile e matura più o men tardi a seconda delle varietà. Di queste se ne conoscono 31, ma le principali sono: il ribes ordinario, (ribes rubrum) con frutto a grappolo rosso e bianco più o men grosso. L'uva spina o d'Inghilterra (ribes uva spina, ribes grossularia): Mil. Uga spina, Fr. Gadelier. Ted. Stachelbeere. Ingl. Roug Goosberry, che cresce a grappolo ed à frutti più grossi, e carnosi e meno acidi. Finalmente il ribes nero (ribes nigrum) di sapore più aromatico, odorifero in tutti i suoi organi, a foglia variagata. La più coltivata, è la prima specie il cui frutto vien conservato allo stato fresco e serve a far sciroppi e bevande spiritose. Se ne estrae anche acido citrico. La seconda specie, che conta pure le sue varietà, è coltivata con arte raffinata dagli Inglesi, che ne preparano il loro rinomato vino d'uva spina. Del ribes nero, gli Svizzeri ne fanno pure una bevanda spiritosa, una specie di ratafià detto Cassis. Nel linguaggio dei fiori: Tu fai la mia delizia. I frutti del ribes rosso, si mangiano crudi, si conservano in aquavite, si candiscono, se ne fanno giulebbi, e serve pure a far salsa, aque, sciroppi e sorbetti. Serapione ne parla, ed è lui che ne indica l'origine africana. Le donne e le ragazze amano molto questo frutto che dà l'aspretto del limone. L'uva spina, era detta da noi anche uva crispina e marina e la si metteva nelle minestre, guazzetti ed intingoli ai quali communicava un certo bruschetto grazioso, dice il Pisanelli. In medicina è considerato un rinfrescante ed un astringente.
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spina, era detta da noi anche uva crispina e marina e la si metteva nelle minestre, guazzetti ed intingoli ai quali communicava un certo bruschetto
Il nome di Rosa dal greco rhodon, rosa, o dal celtico roag che significa rosso. La rosa è la regina dei fiori, la figlia del cielo, il sorriso della primavera, l'emblema dell'innocenza e della fugace bellezza femminile. Le sue varietà si contano a migliaja. Qui non dirò che della canina, la quale è la più semplice di tutte, il vero tipo del genere e serve per innesto a tutte le altre. Fu detta rosa canina o rosa di cane, perchè fu creduto fino dall'antichità che la sua radice fosse efficace contro la rabbia del cane. Anche i Greci la chiamavano cinorrhodon, da cion, cane e rodhon, rosa. Da noi si chiama anche Rovo. Nel linguaggio dei fiori, la rosa canina, significa: Indipendenza. È un arboscello indigeno che viene lungo le siepi di montagna, nei luoghi aprichi che dà in Maggio una rosetta pallida, semplice, di cinque foglie. Ai fiori succedono alcune frutta ovali, bislunghe rosse come il corallo nella loro maturità, la di cui scorza è carnosa, midollosa, d'un sapor dolce-aciduletto e che racchiude alcune semenze inviluppate d' un pelo consistente, che, attaccandosi alle dita penetra la pelle e vi cagiona molestie. Tali semi posti nel letto ad alcuno per celia fecero sì che questo frutto prese il nome poco castigato di grattaculo. Un mio amico ingegnere mi assicura che tal nome viene da ciò, che i sullodati semi, producono a chi li mangia un reale prurito, precisamente in una località indicata nella seconda parte di quel disgraziato vocabolo. Tale appellativo, non si vorrebbe mai pronunciare dalla gente pudibonda, ma pure è registrato presso i più seri botanici ed è costretta a ripetere, colle gote vermiglie, anche la damigella sortita di collegio, se vuol dimandare di quel delizioso sciroppo che danno i prefati grattaculi. Questa conserva era la ghiottoneria della Vallière. Giuseppe II se la faceva venire dal Lago di Ginevra.
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montagna, nei luoghi aprichi che dà in Maggio una rosetta pallida, semplice, di cinque foglie. Ai fiori succedono alcune frutta ovali, bislunghe rosse come
Il Tartufo è il tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon' ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui camelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Le conquiste, le emigrazioni ed il comercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinaro la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, ch'egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un'escremento della terra, vitium terrœ. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gênègès, ossia figli della terra e degli Dei. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di alcune radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa — chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo 2000 anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia la notizia, e Micheli pochi anni dopo ne dava il disegno. Ammessi i semi, naque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale, fu sostenuta tra gli altri dal Milanese Vittadini (Monographia tuberculorum. Milano 1831). «Se volete dei tartufi seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo dal Conte de Gasparin riassume l'esperienza di oltre 60 anni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers, il fatto allora paradossale della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta ad un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare, che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'Ilex, la Peduncolata, la Ruber (rovere).
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conquiste, le emigrazioni ed il comercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra
Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco spino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri. Non abbiamo note sul modo con cui gli antichi dessero la caccia al tartufo. Fu nel medio Evo e in Italia, che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina del secolo XVI nel suo libro De honesta Voluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato con stile poetico porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il Conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II Re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia 10 che costarono 100 talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano trüffel-hunde, e canes tuberario-venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure di fine odorato può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi e se non troverete il tubero troverete certamente... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria survolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca ed altre sue parenti prossime che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee, e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da Novembre a Marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. In Piemonte i più precoci maturano alla fine di Giugno e li chiamano fioroni, e viene quasi sempre a' piedi dei salici e dei pioppi in terreno argilloso, ma la raccolta incomincia in Agosto. In Francia ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitou. Il tartufo nero o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettata dal commercio. V'à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella. Cecilio Apicio il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De Re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
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irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo
II tartufo com'era cibo ghiotto dei Greci e dei Romani, lo divenne al tempo delle crociate nelle Corti di Spagna, Toscana e in quella Papale di Avignone e Roma. Dalla Spagna il tartufo passa alle mense francesi nel secolo XIV ma fu misconosciuto allora, ed il poeta Deschamps che viveva sotto Carlo VI compose contro il tartufo, una ballata. Ancora nel 1780 era raro a Parigi. Nel secolo XVI l'uso del tartufo era frequente in tutta Italia. Il Mattiolo ne parla, come di un piatto prelibato di grandi case. Platina l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fius soupers de la Regence e, del Direttorio, diventa ospite pressochè quotidiano alle mense dei marescialli dell'impero e trova in Brillat-Savarin il suo corifeo ed il suo poeta. Egli lo chiama il Diamante della cucina, Dumas s'inchina profondamente davanti al tartufo, lo adora, e nella sua adorazione non può che ripetere che il tartufo è il sacrum sacrorum. Invano i suoi nemici, la medicina ed i casisti, lo combattono. Avicenna dice che occasiona l'appoplessia e la paralisi — altri che genera la melancolia e la lebbra — altri, che è uno stimolante afrodisiaco. Il tartufo s'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo » domandava un giorno Luigi XVIII al suo medico Portal — Scometto che voi lo proibite ai vostri malati! — Sire, io lo credo un poco indigesto, mormorò Portal. — Il tartufo, dottore, non è ciò che pensa il volgo, soggiunse il re e ne fè sparire un bel piatto. Il tartufo à solo due difetti: 1° Di essere indigesto se se ne mangia troppo. 2° Di essere molto caro. Gian Michele Savonarola raccomanda agli intemperanti in fatto di tartufi, di temer Dio se non temono la colica: consiglio che agli epicurei non à mai fruttato un corno.
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Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fius soupers de la
Il Tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essicata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto, coltivato in China e Giappone. Nel Giappone da dove pare originario, viene seminato lungo le siepi 'e sul margine delle campagne. Dà fiori bianchi come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgano i fiori appena spuntano. Il tè potrebbe coltivarsi anche da noi. Nella China il suo nome volgare è tcha e il letterario ming. Nel Giappone tsjaa. Nel linguaggio dei fiori: Estasi. Nella China si fanno quattro raccolte. La prima da Febbrajo a Marzo e fornisce il tè migliore (tè fiore, tè imperiale) che assai di rado si trova in commercio ed è riservato per l'Imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè. Molte le varietà. I commercianti, chinesi ne ammettono fino a 150, gli europei, ne riconoscono una dozzina, che secondo il loro modo di preparazione si classificano in verdi, neri e profumati. Il verde proviene per lo più da arbusti coltivati sul versante delle montagne, il nero da arbusti coltivati ne' campi concimati, il profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero e verde, e la differenza consiste in ciò che prima di essere torrefatto, il nero subisce una leggera fermentazione, lasciando la foglia ammonticchiata in una stanza per tre o quattro giorni, al quale trattamento il verde non è sottoposto, ed in ciò che il verde è colorato quasi sempre artificialmente massime se destinato alla esportazione. Pare che la detta fermentazione decomponga nel tè nero certi principî, che in appresso gli darebbero forza e sapore, di maniera che il nero è inferiore al verde — è meno buono e forte: Al Brasile, che si vuole avere il tè migliore del chinese, il nero si fa al sole e non al forno. Il tè di bona qualità, dà un infuso di color giallo dorato, limpido, perfettamente aromatico, che preso con moderazione nè troppo forte riesce ugualmente favorevole allo stomaco ed al cervello. Questa bevanda aristocratica deve aver sempre un soavissimo profumo. Dal punto di vista igienico non bisogna abusare del tè verde per la sua maggiore e forse troppo forte energia, potendo produrre presso alcuni, disturbi nervosi e preso la sera arrecare l'insonnia. Balzac vuole che questi disturbi nervosi siano precisamente quelli che gli inglesi con nome oramai cosmopolita chiamano spleen e che poetizza certe figurette dell'Isola Britanna. Ad ottenere una bevanda molto aromatica e poco astringente, si deve mettere il tè per mezz'ora in infusione con piccolissima quantità d'aqua fredda e poi aggiungervi l'aqua bollente, versando nelle tazze l'infuso prima che divenga molto bruno. L'aqua fredda imbeve tutta la trama della foglia, e l'aqua bollente scioglie poi il tannato di caffeina, il quale precipita quando l'infuso comincia a raffreddarsi, il primo infuso è più sostanzioso ed aromatico del secondo, il quale è pure molto astringente. La proporzione è di 20 grammi di tè in un litro d'aqua bollente. Migliore l'aqua delle sorgenti e la piovana. L'aggiunta di alcune goccie di sugo di limone od altro acido vegetale rende il tè più piccante e profumato. Nella Tartaria chinese e nel Cachemire e in altri paesi dell'Asia si mangiano le foglie del tè cotte in diverso modo, con burro, farina ecc., e la loro ricchezza in albumina ne spiega il valore nutritivo. Il tè, come il caffè, è soggetto ad alterarsi sia per cattiva preparazione, che per cattiva conservazione.
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profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero
La Vaniglia, o Vainiglia, è il frutto di parecchie specie del genere vanilla, piante erbacee ed arrampicanti, originarie delle regioni calde dell'America e segnatamente del Messico, e dell'Asia. La sua fecondazione la si deve a degli insetti. À fiori bianchi screziati di rosso giallo. Se ne conoscono quattro varietà: la planifolia di cui la migliore, cresce nelle regioni calde ed umide del Messico, della Colombia e della Guajana, coltivasi nelle Antille. La gujanensis di Surinam. La palmarum di Bahia, fornisce qualità inferiori. La pompona, il vaniglione di odor forte, ma non balsamico che ricorda quello dei fiori della vaniglia dei giardini, (Heliotropium peruvianum), viene dalle Antille, à siliqua grossa e corta, è la più scadente. Queste piante, grosse come un dito s'avvolgono al tronco degli alberi come la vitalba, il convolvolo e l'edera e s'innalzano a grandi altezze. Il frutto della vaniglia, chiamato guscio, è una capsula carnosa, lunga 14-15 centim. in forma di siliqua. La sua superficie dapprima verde, poi colorata in bruno rossastro molto intenso, è dotata d'una lucentezza grassa. Contiene una quantità di semi, estremamente piccoli, globulari, lisci, duri, neri e contenenti un succo denso e bruniccio, che maturi danno una fragranza squisitissima. La miglior vaniglia è quella del Messico, le cui capsule ànno qualche volta la lunghezza di 22 centimetri. Epidendrum dal greco Epi, sopra e dondron, albero, cioè che corre sopra l'albero. Il nome di vaniglia dallo spagnolo vajnilla, piccola guaina. Nel linguaggio delle piante: Soavità. La vaniglia è uno degli aromi meno irritanti, e dei più delicati ed importanti della cucina ghiotta — dà sapore alle carni, a tutti gli intingoli nei quali è introdotta — e serve principalmente per le cose di latte col quale si marita benissimo, per dare aroma al cacao e farne cioccolatta — per sorbetti, liquori, paste. Dà profumo pure ai saponi, entra in molte aque odorifere per esempio l'aqua di Cipro. In Europa si coltiva, da tempo, la varietà planifolia, nelle serre di Liege, nel Giardino delle Piante a Parigi, e di Hillfield House, rigate dopo che Morren nel 1857 à mostrato che si poteva fecondare artificialmente. Da quest'epoca la fecondazione e la produzione delle capsule si ottengono in tutti i paesi tropicali, e i frutti della vaniglia europea non la cedono nel profumo a quelli del Messico. La vaniglia, fu introdotta in Europa dagli Spagnuoli dopo la scoperta dell'America. Gli indiani chiamano arris arack, il liquore d'anice aromatizzato colla vaniglia. Per conservare la vaniglia la si chiude in una bottiglia di vetro, o in un cannoncino di latta, cosparsa di zuccaro. In tal modo si ottiene lo zuccaro vanigliato che serve comunemente in cucina ed in pasticceria. Si falsifica la vaniglia, colle vaniglie alterate, o raccolte troppo tardi, o esaurite coll'alcool e restaurate col balsamo peruviano o del Tolù — colla mescolanza di qualità inferiori, quali il vaniglione. Un guscio sano e buono di vaniglia, deve offrire intatta l'estremità ad uncino. La vaniglia in polvere è più soggetta ancora a falsificazione.
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marita benissimo, per dare aroma al cacao e farne cioccolatta — per sorbetti, liquori, paste. Dà profumo pure ai saponi, entra in molte aque odorifere per
Nè lo zuccaro s'estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo Io zuccaro di barbabietola (1), di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di molte piante, nelle radici, nei frutti, e persino nelle carni d'animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno intenso di dolcezza, perchè da qualunque origine pervenga, quando è puro, è sempre la stessa cosa e non avvi differenza tra zuccaro e zuccaro. La scoperta dello zuccaro di barbabietola è dovuta al tedesco Margraff — il primo ad estrarlo in grande fu Achard di Berlino. Il metodo per ricavarlo, dopo ripetute esperienze, è stato perfezionato in Francia. Non si riduce che con estrema difficoltà alla bianchezza, asciuttezza, e cristallizzazione di quello di canna. Anche da noi abbiamo tali fabbriche. Quello di castagne è di una cristallizzazione assai minuta, è molle, biondo, dolcissimo con legger sapore di castagna: si può ridurlo in pani. Lo zuccaro di latte si fabbrica in grande nella Svizzera, è bianchissimo, cristallizzato in piccoli cubi, poco solubile nell'aqua fredda, solubilissimo nella calda, di sapore dolciastro, senza odore quando è ben puro. Si adopera come alimento e come medicamento. Lo zuccaro d'uva, non à forma regolare, è in piccoli tubercoletti, in bocca produce prima una sensazione di fresco indi un sapor zuccherino debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante commercio in Europa al tempo del famoso blocco di Napoleone. Oggi quello solo di barbabietola à larga parte in commercio. Lo zuccaro si adultera con spato pesante, gesso, creta, farina, destrina, ma queste frodi sono possibili solo collo zuccaro in polvere od in pezzi (pilè), e si devono in generale attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto tali materie si tradiscono facilmente perchè sono insolubili. Aquistate il vostro zuccaro in pani, o madri di famiglia, perchè in pani, la frode è quasi incompatibile colle singole e molteplici operazioni di quest'industria. Lo zuccaro si sofistica pure col glucosio. Il glucosio è altra delle varietà di zuccaro e si prepara generalmente trattando l'amido, o fecola di patate con acido solforico o cloridico. Quando è chimicamente puro, cioè affatto esente da sostanze eterogenee, non presenta altra differenza dello zuccaro di canna se non che nella sua virtù dolcificante — la quale sarebbe un terzo appena. Ma raramente il glucosio è purissimo, e spesso lo si trova nello zuccaro grasso a cui si ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole — attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col glucosio è fatta su una scala enorme in America.
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attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto tali materie si tradiscono facilmente perchè sono insolubili. Aquistate il vostro zuccaro in pani, o
La Cioccolatta. — (Mil. Ciccolatt. - Fr. Chocolat. - Ted. Schokolate. - Ingl. Chocolate). — Deve il suo nome a Sciocolatl, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta, drogata è più saporita e sana di quella che, ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, oli, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita non si rompe senza naturale sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fà bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte dà un eccellente mistura assai sostanziosa, ma non addatta a tutti gli stomachi e che da noi, si chiama barbajada. dal suo inventore Barbaja, impresario della Scala al principio del secolo. Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice che Antonio Carletti fiorentino fù uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il Padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il Gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù, (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè pro e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa se la facevano servire perfino in Chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il R. Padre Escobar sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè liquida non frangunt. Fu importata nella Spagna verso il 17° secolo e mercè le donne e i frati l'uso ne divenne popolare. Anche oggi in tutta la Penisola si offre la cioccolatta come da noi il caffè. Passa i monti con Giovanna d'Austria. I frati spagnuoli la fecero conoscere a' loro confratelli di Francia e al tempo della Reggenza anche in Francia era più in uso del caffè. Madama d'Arestrel superiora del convento delle Visitandines a Belley raccomandava al celebre gastronomo suo compatriota, Brillat-Savarin questa maniera di far la cioccolatta: «Quand vous vou» drez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès » la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le » là. Le repos de la nuit concentre et lui donne » un veloutè qui le rend meilleur. Le bon Dieu » ne peut pas s'offenser de ce petite raffinement, » car il est lui-même tout excellence. » Il medesimo Brillat-Savarin suggerisce che una tazza di cioccolatta dopo il pranzo, invece del caffè è cosa che à il suo merito — e quel gastronomo la sapeva alla lunga. Non sò darmi pace, al pensare, come il fabbricante cioccolatta da noi sia stato preso come tipo di scempiaggine, sicchè ne rimase il proverbio: Fà una figura de ciccolattee, e come la parola ciccolatt serva al nostro popolo quale sinonimo di rabbuffo. La cioccolatta da noi è considerata come bevanda esclusivamente clericale.
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, ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre
La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in Luglio ed Agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi. che sono quelli che tostiamo e che ci danno la deliziosa bevanda del caffè. Questi semi quando sono verdi e maturi sono circondati da una polpa dolcigna bona a mangiarsi. Si propaga per seme. Da noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla differenza specifica, ma dalla provenienza commerciale e geografica. Generalmente tutte queste varietà si riferiscono a tre tipi: Moka, Borbone e Martinica, che da noi è sostituito col Porto Rico. Il migliore caffè è quello che proviene dalla sua patria primitiva, ma rarissimamente giunge in Europa. Il Moka, o Levante (dal nome del suo antico porto di esportazione) è un prodotto del Yemen montuoso, il suo odore ricorda quello del tè e questo pure rarissimamente ci perviene. E consumato quasi interamente in Turchia, in Asia, in Persia ed in Egitto. Quello che perviene a noi sotto il nome di Moka, è Moka di Zanzibar, di Aden e di Giava a piccoli grani, accuratamente scelto.
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anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in Luglio ed Agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono
Allora quei burloni di medici avevano dato ad intendere che il caffè dimagrisce. Mille diverse opinioni, l'una che fà ai pugni coll'altra, furono emesse circa le proprietà più o meno sanitarie ed igieniche del caffè. Tra il sì ed il no, occupiamoci del modo di mettere insieme una buona tazza di caffè.
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Allora quei burloni di medici avevano dato ad intendere che il caffè dimagrisce. Mille diverse opinioni, l'una che fà ai pugni coll'altra, furono
C'est toi, divin cafè, dont l'aimable liqueur, Sans alterer la tête, èpanouit le cœur! ................................ Viens donc, divin nectar, viens donc, inspire-moi: Je ne veux qu'un desert, mon Antigone, et toi! A peine j'ai senti ta vapeur odorante. Soudain de ton climat la chaleur pènètrante Reveille tous nus sens; sans trouble, sans cahots, Mes pensers plus nombreux accourent a grands flots: Mon idee etait triste, et aride, depouillee; Elle rit, elle sort, richement habillee, Et je crois, du genie eprouvant le rèveil, Boir dans chaque goutte un rayon de soleil.
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, viens donc, inspire-moi: Je ne veux qu'un desert, mon Antigone, et toi! A peine j'ai senti ta vapeur odorante. Soudain de ton climat la chaleur
Avvi un'altra castagna, detta aquatica, frutto d'una pianta annua, che cresce negli stagni e che richiede almeno 20 pollici d'aqua. Si avvicina alla castagna usuale, è però acre ed astringente. Gli abitanti della Carinzia e del Limosino (Francia) ne fanno anche pane. Dall'Asia ci pervenne portata da Clusio verso la metà del secolo decimosesto, un'altra castagna detta d'India, o Ippocastano, cioè castagna cavallina. È la pianta dei pubblici passeggi, e dà frutti che somigliano le castagne, ma più grosse ed amarissime — vengono mangiate da alcuni animali: — nell'Annover si dà ai cavalli per cibo e nella Turchia a quelli affetti di bolsaggine e per rimedio. I chimici ne traggono un succedaneo della china. La sua corteccia gode virtù tonica febbrifuga. Se ne fà infuso vinoso, tintura ed amido. Raspate nell'aqua, servono assai bene ad imbiancare pannilini e nettare tessuti di lana. Se ne cava eccellente colla, che per la sua amarezza à la proprietà d'allontanare gli insetti. Ridotte in farina se ne può fare pasta cosmetica da toilette — rende la pelle netta e liscia. Il chimico Mousaint à trovato modo mercè una serie di bagni in aqua purissima, di spogliare questa castagna del suo principio amaro, e dissecata al forno, la sua farina è assai nutritiva e si presta a molti usi alimentari. L'Ippocastano fu portato a Vienna nel 1588 e a Parigi fu conosciuto solamente nel 1615.
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passeggi, e dà frutti che somigliano le castagne, ma più grosse ed amarissime — vengono mangiate da alcuni animali: — nell'Annover si dà ai cavalli per
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color giallo-verdognolo, à scorza spessa aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello scharlotte, e al confetturiere per regolarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica antispasmodica e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a far emulsioni amare. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio, che serviva a preservare dalla carie e dalle tignuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: «Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur, (Trist. 1).» Del resto la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò
Si conservano essicate per l'inverno, si fanno cocere e fresche ed essicate, se ne fà giulebbe e la così detta marennata, o zuppa di amarasche, che cotte nel vino con zuccaro e droghe, si versano sul pane. Facendole fermentare, se ne ottiene una specie di vino, non forte, ma gradevole. Distillandone il succo già fermentato misto a noccioli contusi e a qualche porzione di foglie ammaccate abbiamo il così detto Kirchen-wasser (aqua di ciliege). Il migliore è quello della Selva Nera e del Voralberg, dei quali luoghi se ne può dire il principale prodotto. Se ne fabbrica pure nella Savoja francese e nelle nostre Alpi. Unito a spirito di lamponi, alcool, zuccaro e ad una certa quantità d'aqua, si ottiene il maraschino specialità della Dalmazia e propriamente di Zara. Macerando le marasche e distillandole con vino aleatico, aromi e zuccaro, si fà pure dell'eccellente ratafià, celebre quello d'Andorno. I gambi o peduncoli, costituiscono un volgare rimedio diuretico. Se ne fà decotto in proporzione di 30 grammi in un litro d'aqua. Plinio asserisce che il primo che introdusse in Italia il ciliegio fu Lucullo l'anno 680 dalla fondazione di Roma, e ve lo portò da Ceresunto, città sulla spiaggia del Mar Nero: Cerasi ante victoriam Mithridaticam L. Luculli non fuere in Italia. Può essere che da Ceresunto, dove a detta degli scrittori il ciliegio era superlativo, avesse il suo nome. Ma che il ciliegio ce l'abbia portato Lucullo è una delle tante bale romane. Un certo Difilo Sifnio, ricordato da Ateneo, che viveva molto prima di Lucullo, sotto il regno di Lisimaco, uno dei generali di Alessandro il Macedone, parlava già delle ciliege della Campania coll'aquolina in bocca. Nelle torbiere di Dax, nelle Lande, si riconosce perfettamente il tronco del ciliegio. Chi ne volesse sapere di più, legga la Cersalogia medica (Basilea 1717), monografia scritta dal celebre Dollfuss. Ad indicare un individuo che si posa a uomo serio e d'importanza, il popolo milanese dice: el par quel che à taccaa el pìccol ai scires. E dalle ciliege abbiamo pure il proverbio:
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'importanza, il popolo milanese dice: el par quel che à taccaa el pìccol ai scires. E dalle ciliege abbiamo pure il proverbio:
Il Coriandolo, o Coriandro, o Cimina, è pianta annua, originaria dell'Oriente e della Grecia, che passò in Italia e nella Francia Meridionale, ove si è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in Aprile, si raccoglie in Settembre, cresce dai 30 ai 90 centim. à foglie verdi chiare, fiori bianchi e porporini in Maggio e Giugno. Nel linguaggio dei fiori significa: Merito nascosto. Il suo nome Coriandolo dal greco coris, cimice, e da ambluno rintuzzare, perchè rintuzza la vista. I suoi grani freschi e le foglie verdi ànno un odore disgustoso di cimice, massime quando fà nuvolo e piove, per cui è anche chiamata: erba cimicina. Essicati sono gradevolissimi, aromatici, stimolanti. Entra il coriandolo nella composizione di molti liquori in ispecie del Gin; serve come droga di cucina ed è condimento aromatico presso i popoli del Nord. L'adoperano per aromatizzare la birra, lo mescolano al pane, lo masticano dopo il pasto, per facilitare la digestione, espellere le flattulenze e rendere gradevole l'alito della bocca. Gli Spagnoli mettono le foglie del coriandolo nella zuppa, alla quale danno un sapore molto forte, e le mangiano pure in insalata. I medici gli assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'aqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti. Pestati e fatti cocere nell'aqua a densa decozione, servono contro le pulci spruzzandone le lettiere ed il suolo. I coriandoli ànno dato il nome a' quei projettili di farina e gesso che negli ultimi giorni del Carnevalone, insudiciano le vie, le case e gli abiti dei Milanesi. Gli antichi consideravano il coriandolo allo stato verde come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo trito e misto ad aceto serviva per conservare le carni nell'estate presso i Romani. La manna degli Ebrei somigliava al seme bianco del coriandolo del quale ne aveva pure il gusto (Ex. 16. 31) il che è confermato anche nel libro dei numeri (11. 7) tranne che ivi si aggiunge che la manna aveva anche il sapore del Bdellio, albero Babilonese, trasudante una specie di gomma aromatica ricordato pure da Plauto (Curc. Sc. 2. a. 1). Tu crocum, tu casia, tu bdellium.
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è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in Aprile, si raccoglie in Settembre, cresce dai 30 ai 90 centim. à foglie
Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne colla fermentazione un liquore inebriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. II calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma lavorati si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica, chiamata perciò delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d'allora si candivano perchè i freschi eran fin d'allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca.
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o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della Palma orientale, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America Meridionale e di molte parti dell'Africa. E diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 kilog. di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche o frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale.
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parti dell'Africa. E diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 kilog. di frutto. Il suo legno
Il Fico è albero a foglie caduche, che cresce spontaneo nel mezzodì d' Europa. Viene in tutti i terreni, desidera posizioni calde, soleggiate, asciutte, difese dai venti, teme sopratutto i balzi di temperatura. Si propaga per margotte, polloni, tallee. Non ama essere tagliato, perchè avendo tessuto a fibre rade, facilmente ne soffre per l'aqua che vi può penetrare, e quando è necessario bisogna ricoprire il taglio con mastice, catrame, ecc. Comincia a dar frutto il 3° anno. Se ne conoscono 62 varietà — tra le quali alcune non mangiabili e velenose. Il nome di Fico dal greco phyo, produrre; a cagione della sua fecondità e nei linguaggio delle piante significa pure: Fecondità. I fichi primaticci sono chiamati fioroni, e sono i frutti, il cui germe era già sul ramo nell'autunno precedente. Maturano in Luglio e sono meno saporiti dei tardivi ed autunnali. Tranne un gran gelo, il fico dà un prodotto quasi sicuro. In Italia e negli altri paesi meridionali dà un frutto che è un vero sciroppo fisso e profumato. Per farlo essicare, scegliere le varietà precoci. L'essicamento al forno lo rende meno bello e meno saporito. Il fico frutto, contiene il 65 % d'aqua. Nell'Africa e nel Levante vi sono piante che danno fino a 300 kilog. di fichi. In China è chiamato cheu-dze, fresco à il colore dell'arancio, secco prende la forma rotonda e s'infila come da noi il rosario, si conserva dolcissimo e prezioso per i viaggi. I rami teneri del fico e le sue foglie staccate dalla pianta, come pure il gambo del frutto immaturo al luogo della rottura tramandano un sugo bianco lattiginoso che è alquanto corrosivo, e serve a cagliare il latte, e come rimedio volgare a guarire i porri sulla pelle. Il legno del fico è assai leggero e s'adopera per certe particolari industrie. Le foglie rigide e di un verde carico, sono adatte a pulire i vetri ed i cristalli. La decozione di dette foglie ridona il colore alle stoffe di lana, scolorate per lavature. Il Sicomoro sul quale è salito il piccolo Zaccheo, per vedere Gesù, è la varietà, fico moro, o fico d'Egitto e di Faraone. È altissimo, cresce a Rodi, nella Siria ed in Egitto dove è indigeno. Dà frutti dolciastri tre o quattro volte l'anno. Il Fico si mangia fresco ed essicato ed è sempre cibo nutriente, sano e pettorale. Sono celebri quelli di Calabria, Sicilia e Smirne. Si usa mangiarlo col prosciutto, col salame. Se ne fa ghiotta frittura, imboraggiandoli sbucciati, con ova e pane. Se ne fa perfino salame. La buccia è indigesta onde il proverbio: All'amico pela il fico e la persica al nemico. Frate Ambrogio da Cremona asseriva che perchè il fico sia meritevole da portarsi in tavola dev'essere perfetto, cioè deve avere il collo torto, l'abito stracciato e l'occhio lagrimoso. Per la colazione sceglieva quelli che la mattina per tempo trovava bucati dagli uccelli. Forse da lui quel proverbio: Il fico vuol avere collo da impiccato e camicia di furfante, che nel nostro dialetto suona così: El figh per vess bell el dev vess lung de coli e rott de pell. L'abuso anticamente si credeva non solo regalasse coliche, ma provocasse sudori e generasse pidocchi, rogna ed altre sordidezze. La Scuola Salernitana ne canta le lodi così: Scropha, tumor, glandes ficus cataplasmate cedunt, Iunge papaver ei, confracta foris trahit ossa. Tutti gli scrittori greci ebbero pure lodi per il fico. Era tradizione che fosse la passione di Ercole. Platone era sopranominato l'amante delle uve e dei fichi. Galeno che non mangiava frutto alcuno aveva delle tenerezze pel fico per l'uva, che chiamava meno inutili, e ne proclama le virtù tra le quali vocis splendorem facere, però soggiunge che fa venire la pancia obesa e cita ad esempio i custodi delle vigne, gli ortolani — onde forse l'altro proverbio: salvare la pancia per i fichi. Gli Ateniesi ne tenevano sacra la pianta che fu loro portata da Naxio Dionisio. Filippo, padre di Perseo in Asia cibò il suo esercito coi fichi e Plinio difatti racconta che in molti luoghi il fico teneva luogo di pane. In Sicilia fu portato da Titano Oxilon figlio di Osio. Dai Greci si mangiavano pure in insalata e il volgo li faceva essicare salati al sole. I Persiani ed i Greci erano ghiottissimi del fico secco. Lo cocevano colla maggiorana, l'issapo ed il pepe, e lo davano anche ai malati. Gli atleti si rinvigorivano coi fichi a prepararsi alla lotta. Si vuole che Mitridate a sicurezza del veleno che prendeva, mangiasse fichi secchi con ruta e sale quale antidoto. Se ne faceva pure un liquore vinoso che chiamavano Sycites o catorchites. Fu sotto il fico che furono trovati i due fondatori di Roma mentre erano allattati dalla lupa - che dal nome del fico, Ruminal, presero il nome di Romolo e Remo.
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. Lo cocevano colla maggiorana, l'issapo ed il pepe, e lo davano anche ai malati. Gli atleti si rinvigorivano coi fichi a prepararsi alla lotta. Si
Fico d'India (cactus opuntia vulgaris, Ficus Indica). — È originario dall'India e dall'Africa, da noi cresce in Sicilia e nelle Provincie Meridionali in luoghi asciutti ed aridi. È un alberetto dai 2 ai 3 metri, che vive fino ai 50 anni, dà fiori giallastri, frutti rosei da Agosto a Dicembre, della forma del fico. Contengono una polpa refrigerante, salubre, mangiabile, purchè se ne sputino i semi, e rende l'orina color rosso sangue. Sono alquanto scipiti. Le sue foglie tagliate a metà ed applicate sulle parti dolenti per artrite e pleurisia, danno spesso ottimo risultato. Sono adoperati per fabbricare alcool e forniscono una salsa che per il povero sostituisce quella del pomodoro. Se ne fà pure mostarda, e se ne estrae una materia colorante color cremisino
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in luoghi asciutti ed aridi. È un alberetto dai 2 ai 3 metri, che vive fino ai 50 anni, dà fiori giallastri, frutti rosei da Agosto a Dicembre, della
Il nome di Fungo — dal greco Sphongos, sponga, a cagione della loro sostanza spongiosa, d'onde il Fongus dei latini — è dato a certe vegetazioni che si allontanano dalla comune, per natura, sostanza, forma, mancanza di foglie, di fiori. Ve ne sono d'ogni grandezza, d'ogni forma, filamentosi, membranosi, schiumosi, tuberosi, a carne consistente, spongiosa, coriacea, sugherosa, compatta. Alcuni danno seme, altri no. Infinito il numero delle specie: se ne conoscono più di 3000 varietà, ve ne sono in famiglia, a gruppi, solitari. Aderiscono al suolo o sul corpo sul quale vengono, per mezzo di fibrille, che non sono radici. Esalano un odore particolare ed umido, che è comune a tutti, con alcune gradazioni fra le diverse specie. Il sapore non è meno variabile — ordinariamente è sapido, acre, bruciante, stittico acido nauseante, aromatico a seconda del sugo del quale sono imbevuti. Amano luoghi boschivi umidi e grassi, vengono sulle sostanze vegetali ed animali in decomposizione. L'umidità calda ne genera lo sviluppo e la moltiplicazione principalmente in Autunno e Primavera. Vogliono i climi delle zone temperate. Le stesse specie di funghi non compariscono indifferentemente in tutte le stagioni. L'Asia boreale, la Cina, l'America settentrionale abbondano di funghi. Ànno sviluppo rapido, istantaneo compariscono da prima come piccoli filamenti o fibre che poi si tumefanno e s'ingrossano e crescono tosto a vista d'occhio a formare il fungo perfetto. Questo primo stato si chiama carcite o bianco di fungo. Una sola notte vede apparire migliaja di funghi, alcune ore, alcuni minuti bastano, a diverse specie per pervenire al loro ultimo sviluppo. L'assenza della luce e un'atmosfera tranquilla accelerano singolarmente la loro moltiplicazione. Pervenuti alla maturità emettono de' piccoli corpuscoli tondi, chiamati seminoli, è l'ultimo loro prodotto, come i semi nei vegetali. Sono finissimi, quasi polvere e situati sia nell'intera superficie, sia nella superficie superiore, sia internamente e vengono alla luce per laceramento o morte del fungo. La pioggia li fà deperire facilmente. Sono preda degli insetti e di alcuni animali erbivori, e i più avanzati in età, sono preferiti dagli insetti. E annesso dai chimici che sono potentissimi agenti d'ossidazione, e d'azotazione. I commestibili contengono secondo le varietà da 84 a 94 parti d'acqua, il resto è un composto di sali e sostanze organiche, vale a dire olii essenziali, materie resinose, grasse, coloranti, zuccherine, acidi organici diversi, materie gelatinose, gommose, raramente fecula-cellulosa, di composti azotati albumine ecc. Altri sono eduli, altri velenosi. Teoreticamente è impossibile dare una ragione, un indizio che distingua sicuramente gli eduli dai velenosi. Bisogna affidarsi, più che al medico alla conoscenza pratica locale delle specie, della forma, taglio, colore, aspetto, odore e sapore. A migliaja sono gli scienziati che ne parlarono, e tra questi il milanese Vittadini (1), ma fin ora la scienza non à detto l'ultima sua parola. S'è bensì trovata la maniera di coltivarli, ma su tante specie di funghi saporiti, appena s'è riescito di coltivarne le meno pregiate. Il progresso verrà non dubitiamone. Ma frattanto occhio alla padella! In generale rifiutare tutti i funghi non sani, o che cominciano a decomporsi, quelli che rotti tramandano un'umore lattiginoso, che crudi sono acri, che tingono in rosso la carta azzurra, che presentano una superficie viscosa, od umida, o macchiata, o brinata, che cambiano di colore rompendosi. Non vi affidate mai ai volgari esperimenti, che i funghi velenosi anneriscono il cucchiale d'argento, la cipolla, ed il prezzemolo ecc. Non acquistate mai funghi secchi sulla piazza, nè dal droghiere. Non mangiate funghi alle osterie, alberghi, principalmente di campagna. Se la vostra golaccia vi à pigliato nel trabocchetto e avete mangiato funghi velenosi — eccovi la ricetta del Mantegazza. Prima di tutto sappiate che il più delle volte i sintomi dell'avvelenamento compajono molto tardi, magari sette od otto ore dopo il delitto. Appena v'accorgete vomitate, cercate liberarvi subito delle materie velenose col vomito e col secesso. Cacciatevi due dita in bocca, la barba di una penna, aqua tepida molta — e se non vi riesce: solfato di rame o di zinco: mezzo grammo in cento grammi di aqua comune, — a cucchiaj ogni 5 minuti: purganti forti. Calmate i dolori con cataplasmi sul ventre — e se vi coglie stupefazione, cognac, rhum e frizioni secche ed aromatiche. Non prendete mai latte, compireste l'opera del veleno.
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superficie viscosa, od umida, o macchiata, o brinata, che cambiano di colore rompendosi. Non vi affidate mai ai volgari esperimenti, che i funghi velenosi
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
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, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le
Piccolo arbusto perenne a foglia caduca, che cresce spontaneo in molti paesi d'Europa, e singolarmente nei climi temperati e freddi. Viene in piena terra, vuol terreno fresco, sabbioso, sostanzioso, esposizione di tramontana, ombreggiata alquanto. Dopo 8-10 anni comincia a deperire. Da Maggio a Giugno à fiori rossi o bianchi, pelosi, in piccoli corimbi, ai quali succedono frutti rossi, vellosi. Si moltiplica dividendo le radici in autunno. È detto Rubus idœus dal monte Ida dove i Greci, teste Dioscoride, asseriscono d'averlo scoperto i primi. Nel linguaggio dei fiori: Dolcezza di linguaggio. Deve essere colto appena sia maturo, perchè facilmente si guasta e cade. Il lampone è uno dei frutti più salubri e profumati — è succoso rinfrescante, di sapore gratissimo. Èsuscettibile di fermentazione vinosa, acida alcoolica. Contiene un olio essenziale solubile nell'alcool e nel vino, ma non nell'aqua. Se ne fa sciroppo col succo solo — unendovi l'aceto se ne à l'acetosa: che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori diaforetici. I frutti si mangiano crudi col vino e la panna, collo zuccaro se ne compongono conserve, sorbetti, gelatine, ecc. Si candiscono, danno profumo ad aquavite e liquori — se ne fà aceto e si adoperano per aggiunger forza e fragranza a quello di vino. Il nome di Fambros viene da Ambrosia per il grato sapore che lascia in bocca. Dai Romani era chiamata Mora Vaticana, Sorella del Fambros è,
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Giugno à fiori rossi o bianchi, pelosi, in piccoli corimbi, ai quali succedono frutti rossi, vellosi. Si moltiplica dividendo le radici in autunno. È
La Mora (Rubus fructicosus vulgaris). Mil. Môra. - Fr. Mure de ronce.-Ted. Brombeere.-Ingl. Blackberry) prugnola del rovo il cui arbusto, ovunque diffuso, dà fiori bianchi o rossicci da Maggio avanti, e frutti neri. Nel linguaggio dei fiori: Gelosia, Rimorsi, Invidia. La mora à sapore dolce quando è matura. Una volta serviva a comporre elettuario per le tossi e male di gola, detto sciroppo diamorum. È suscettibile di fermentazione vinosa ed alcoolica e più che ad uso medico, servono a colorare vini e paste zuccherine. I giovani germogli e le foglie sono leggermente stittiche e se ne può usare per gargarismo. Varietà a fiori doppi, frutto bianco, senza spine, foglie screziate, frastagliate, ecc. È della mora che si occupavano gli antichi mentre chiamavano sylvestris il lampone. È tradizione greca che prima questo frutto era bianco, ma che divenne nero del sangue di Piramo e di Tisbe, due amanti della Siria, che non potendo sposarsi si uccisero l'un dopo l'altro sulle more. Galeno raccomanda di mangiare la mora ai viaggiatori assetati e affaticati dal caldo e della strada. Plinio dice che sono rinfrescanti. I Romani la mangiavano dopo il pranzo.
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amanti della Siria, che non potendo sposarsi si uccisero l'un dopo l'altro sulle more. Galeno raccomanda di mangiare la mora ai viaggiatori assetati
Il Lauro, o Alloro è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica — e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie ànno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d' animale. Sopra le foglie d' alloro si pone la cotognata, ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali si stramezza. Il decotto d'alloro sparso in terra scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, ànno odore forte, piacevole, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara, sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmenagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flattulenze intestinali, i catarri cronici, la paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche, grossolanamente se ne fà un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che ànno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafne, una crestaina di quei tempi essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi non potendo far altro la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro — se abbruciando strepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno! Per cui Tibullo (lib. 2. Eleg. V) dice: «Laurus ubi bona signa dedit, gaudete coloni. » E Properzio (lib. 2, c. 23) «Et jacet extincto laurus adusta foco.» — Plinio asserisce che il Lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. 15, c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi se ne cinsero i Sommi Poeti ed ahimè! se tornassero tutti quei Sommi, e facessero una capatina alle feste di Natale ed in carnevale da noi, che direbbero vedendo il loro lauro intrecciato alle casseruole di cucina e posto sulle teste dei vitelli, dei majali o steso sopra i loro opulenti jambons?
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unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d' animale. Sopra le foglie d' alloro si pone la
Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno argilloso-calcareo-siliceo, clima dolce. Soffre il freddo e il troppo caldo rende il suo frutto stopposo. Cresce sollecitamente. A 20 anni in Sicilia produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono sempre presente. Il limone vuolsi originario della Persia. Si narra che un re di quel paese ne facesse dono agli Ateniesi, d'onde si sparse poi in Europa. Plinio parla d'un frutto detto Pomo di Media che i greci chiamavano Kitrion. Si vorrebbe che ai tempi di Plinio il limone non fosse ancor portato in Italia, scrivendo egli stesso: Sed nisi apud Medos et in Perside nasci noluit. Abbiamo però Virgilio che ne celebrò le lodi nella 2a Georgica:
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produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui
Del limone si usa quasi esclusivamente il frutto e principalmente il succo. Il limone è ingrediente necessario in mille salse — e tra esse alla mayonaise, dà aroma a tanti manicaretti, sapore alle carni, ai pesci, entra nelle confetture, nei liquori, se ne fà sciroppo. Nella limonata abbiamo una bevanda delle più rinfrescanti e più grate agli assetati, ai febbricitanti, agli ammalati di gastrite, tifo, itterizia, dissenteria, scorbuto, difterite. Al limone fu sempre assegnata virtù antipestifera, antivelenosa, antisettica. Onde il detto: Medica mala quidem nec mala nec medica. Il che vuol dire: il limone tiene lontano il medico e le malattie. Esternamente, il limone si adopera come astringente, rubefaciente, antigangrenoso, nella cefalalgia. Poche goccie nell'aqua costituiscono un collirio semplice ed utilissimo nelle oftalmie. Coi semi fanno emulsioni per affezioni isteriche e nervose. Ammaccati e bolliti nell'aqua e nel brodo costituiscono un apiretico infallibile e sicuro nelle febbri intermittenti. Dal limone si cava l'acido citrico scoperto da Scheele nel 1784, che riscaldato coll'alcool ed acido solforico dà l'etere citrico. L'acido citrico si prepara in grande specialmente in Inghilterra per le arti tintorie. Serve agli stessi usi del succo, in modo da farne una limonata estemporanea alla dose di 1 gram. o 2 con 30 di zuccaro in 500 d'aqua, aggiungendo qualche goccia di essenza di cedro od arancio. L'acido citrico serve pure alla fabbricazione delle polveri di Selz, ecc. L'acido del sugo di limone rode la carie dei denti. Ricchissima di aroma è la sua pellicola gialla detta Zeft, che pure si adopera in cucina raschiandola e levandola leggermente, perchè la parte bianca, oltre non avere aroma, à sapore molto amaro. I Milanesi danno del limon a chi è furbo senza darsene per inteso.
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mayonaise, dà aroma a tanti manicaretti, sapore alle carni, ai pesci, entra nelle confetture, nei liquori, se ne fà sciroppo. Nella limonata abbiamo una
Il Màndorlo è pianta indigena a foglia caduca, originaria dall'Asia e precisamente dalla Siria e Barberia. Climatologicamente occupa il posto tra la vite e l'ulivo. Ama il caldo, terre leggere e calcaree — languisce e more nelle forti. — Si propaga per seme, ed innesto su sè stesso. Nasce spontaneamente nella Sicilia, Spagna, Provenza, a Tripoli e Marocco, vegeta con prosperità sulle riviere di Genova. Fiorisce in Marzo ed Aprile, teme le brine ed il freddo. Se ne contano 9 varietà. La migliore è il màndorlo fino o princesse, il cui guscio si rompe colle dita. Alcune di queste varietà ànno frutto dolce, altre amaro, ma dall'albero mal si distingue il sapore del frutto. La maturanza si riconosce dall'aprirsi del pericarpo carnoso, il quale serve pel bestiame. Il suo nome dall'ebraico suo appellativo che significa vigilante, perchè è il primo albero che si risveglia, e perciò in linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui scopo la più ricercata è la qualità detta saccarelle. Si confettano, se ne fanno varie paste dolci, fra cui l'orzata, o semata di màndorle dolci che serve alla preparazione di una notissima bevanda. In Provenza si fanno essicare al forno e sono di un sapore gustoso. Entrano nel torrone, nei biscotti, marzapani, crocanti, ecc., dove si mischiano pure le amare. La màndorla si pela sempre, e se secca, lo si fà facilmente immergendola nell'aqua bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essicati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a lungo la màndorla irrancidisce e per conservarla nella state vuol essere di quando in quando esposta all'aria. Colle màndorle amare si fà una pasta che tiene morbida la pelle delle mani e del viso delle donnine, cosmetici e saponi. Le amare schiacciate o pestate, uccidono il pollame ed i volatili, una volta si credeva fossero antidoto all'ubbriachezza. Plutarco riferisce che il medico di Druso, fratello di Tiberio, tremendo bevitore, gli faceva inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso, le mangiasse per eccitare la sete, dicendo Eupoli, che fanno venir voglia di bere: Da quas manducem Naxias amygdalas, da vinum, quod bibam e vilœ Naxia. Le màndorle migliori sono quelle di Spagna. Le dolci contengono molto olio fisso, 54 %, ed un principio di emulsina molto carico di azoto. La medicina ne prepara un'emulsione, bevanda gradevole sedativa nelle malattie flogistiche. Anche dalle amare si estrae un olio medicinale, che gela difficilmente, ma facilmente irrancidisce, lassativo, temperante nelle tossi, flogosi intestinali, stitichezza, nefrite, renella, serve pure alla confezione di diversi looch kermatizzati, balsamici, anodini. Esternamente l'olio di màndorle giova nelle dermatosi pruriginose, rigidità muscolari e tumori glandulosi. La sede principale del sapore amaro nelle màndorle amare, è nella loro pellicola gialla, che è micidiale alle bestie e possiede anche qualità deleterie per l'uomo, ingesta in dosi maggiori, perchè contiene acido idrocianico, che distrugge rapidamente l'irritabilità e la facoltà sensitiva. Nondimeno, pochissime màndorle amare, corroborano lo stomaco, provocano l'appetito e sono credute vermifughe e febbrifughe. Antidoto contro il loro avvelenamento è l'amoniaca e l'alcool — gli stimoli interni ed esterni. La polpa o pasta e la farina delle amare ridotta a cataplasma giova esternamente nelle nevralgie, coliche, nefrite, ecc. Con tale pasta si toglie pure qualunque ribelle ed inveterato odore ai vasi, sfregandoli internamente. Col guscio secco e sminuzzato delle dolci si confeziona un'emulsione teiforme che oltre al grato sapore, à una fragranza balsamica di violette e di vaniglia. Sull'origine del màndorlo, la tradizione greca racconta che Fillide, figlia di Licurgo, re di Tracia, era promessa a Demofoonte figlio di Teseo. Ma essendo già state fatte le pubblicazioni e vedendo come il suo promesso sposo non compariva, s'impiccò e fu da quei bonissimi Dei cambiata in màndorlo. Demofoonte, che aveva perduta la corsa, venne e versò amare lagrime su quell'albero, e fu sotto la pioggia di quel pianto che il màndorlo cominciò a mettere foglie e frutti — amari dapprima, dolci poi essendosi Demofoonte finalmente consolato. La màndorla da Plinio venne chiamata noce greca. Ma in Italia prima di Catone nessuno ne à parlato, ed ancora lo confusero colle noci. Fu dopo le crociate che la màndorla incominciò ad avere fama e che si trovò di comporne ghiottonerie culinarie. Palladio ci tramanda che i Greci divinando le macchine a vapore del Sonzogno, si servivano della màndorla come mezzo di pubblicazione. Ecco cosa dice: Greci asserunt nasci amygdala scripta, si, aperta testa, nucleum sanum tollas ed in eo quodlibet scribas et iterum luto et porcino stercore involutum reponas. Il che vuol dire, che essi aperta una màndorla vi scrivevano alcun che, e rinchiusala di novo così la seminavano, e le màndorle che faceva quell'albero erano altrettante edizioni di quella scritta. Se non ci credete pigliatevela con Palladio.
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, nefrite, ecc. Con tale pasta si toglie pure qualunque ribelle ed inveterato odore ai vasi, sfregandoli internamente. Col guscio secco e sminuzzato delle
Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in Giugno e Luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di Settembre, perchè aspettando più tardi la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata e à dato pure il nome al rosso-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato aquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre. Punica sub lento cortice grana rubent, dice Ovidio (Egl. 15). È frutto cercato ghiottamente, dalle signorine e dei ragazzi. Serve al dessert. I grani somigliante ai rubini, nettano i denti e movono l'appetito. Dal succo, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e conserve deliziose, confetture delicatissime, ghiotti giulebbi e gelati. I fiori del melagrano si usavano come astringenti in polvere e decotto — oggi macerati con allume nell'aqua danno un bell'inchiostro rosso, come la buccia, macerata con allume pure lo dà nero. La buccia o pericarpio detta malicorion, ricca di principio amaro, contiene moltissimo tannino e viene utilmente impiegata nella concia delle pelli. A Tunisi serve a tingere in giallo i così detti marocchini. In medicina viene somministrata per uso sì interno che esterno, come astringente e dei più energici. Arago, nella sua Promenade autour du monde, dice, che a Timor si usa nella dissenteria. In Persia al Thibet, nella China, fra gli Arabi ed anche in Russia al dire del Rehmann viene adoperata come succedaneo al chinino. Il seme risulta d'una buccia cartilaginea e di un mandorlo bianco, dolce da cui si può spremere olio. La radice, e precisamente la corteccia della radice, gialla all'interno, bigio-cenericcia all'esterno, à sempre goduto dall'antichità fino a' giorni nostri fama di tenifuga quando è fresca e caccia pure le ascaridi.
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Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama
Il Nocciolo è arbusto a foglie caduche, che cresce spontaneo nei nostri boschi. Viene in tutti i climi, ama posizione non troppo soleggiata. Teme l'aridità e la tenacità del suolo. Si moltiplica per barbatelle e polloni. Se ne conoscono 7 varietà, le principali; l'avellana propriamente detta, a frutto oblungo accuminato, di sapor dolce, gradevole e ricca d'olio, l'altra la colurna, a frutto più grosso e tondeggiante, di sapore meno marcato e meno ricca d'olio. Nel linguaggio delle piante: Pace, riconciliazione. La maturanza della nocciola è riconoscibile quando l'involucro di essa prende un color giallo. Per conservarla sana per molto tempo si mette nella crusca, o segatura di legno. Per estrarne l'olio non si deve aspettar molto tempo, perchè si guasta presto. Se ne mangia il frutto fresco e secco, che è gustoso, ma indigesto, disturba la digestione, e in quantità ingombra i visceri. E ghiottoneria dei ragazzi, bisogna masticarla bene, e secco è meno digeribile. I confetturieri lo coprono di zuccaro, l'abbrustoliscono. L'olio che se ne estrae è dei migliori — ed è utile per tossi, linimenti, reumi, purghe ecc., ed il tortello residuo serve a fare una pasta preferibile a quella delle mandorle comuni. Il legno pieghevole del nocciolo, somministra ai bottai ottimi cerchi per tinozze e barili, ai canestrai verghette flessibili per mille industriosi ripieghi — abbrucciato dà un foco dolce, carbone per disegno, ed eccellente per fabbricare polvere pirica. In S. Pietro di Roma, i Penitenzieri nelle grandi circostanze di feste, giubilei, indulgenze ecc., danno l'assoluzione ai penitenti inginocchiati davanti al confessionale, toccando loro le spalle con bacchette di nocciolo. La bacchetta di nocciolo, era indispensabile nelle arti divinatorie, era la bacchetta dei maghi — come dopo fu quella dei maestri della dottrina cristiana nelle Chiese, degli elementari nelle scuole, e dei professori di Seminario, tanto che la niscieula è pei milanesi sinonimo di bacchetta. Nè voglio dimenticare i caporali austriaci che prima del 48 la portavano al fianco colla sciabola, e l'adoperavano per il bankheraus, onde: mollaj giò secch comè i niscieur.
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delle mandorle comuni. Il legno pieghevole del nocciolo, somministra ai bottai ottimi cerchi per tinozze e barili, ai canestrai verghette flessibili per
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S'addatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire — à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. La parola nux, da dove noce, viene da nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura, rotti i gusci, si torchiano subito perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4, 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarvele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca, che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essicando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert. Pan e nôs, mangia de spôs dice un proverbio. Immatura ed intera, vien confettata collo zuccaro ed il miele e forma uno dei più grati componenti la mostarda. Brillat-Savarin ci racconta che le monache Visitandines di Bellay avaient pour les confire, une recette qui en faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di wermouth, e dietro infusione alcoolica se ne fabbrica un rosolio, o ratafià, che gode meritata fama di stomatico e roborante. Nella Virginia e nella Luigiana coi frutti di quelle noci si confeziona del pane. I Greci Mainotti, le fanno bollire col mosto del vino e ne compongono l'halvez che è uno dei più delicati loro manicaretti. In Francia ne fanno il nouga, espèce de conserve brulèe, avec les noix sèches et pelèe. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina, per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essicativo è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato facilmente annerisce e tinge in nero giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola, in una gentil pelle brunetta » dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare ecc. L'ombra del noce è dannoso alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impregnato di tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse — e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalalgia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza, e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco principalmente presso i nostri fratelli del Cantone Ticino. Dal tronco se ne può cavare con opportune incisioni sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. L'olio è usato come antielmitico, e purgativo internamente, (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidœ. Dioscoride le chiamava biliosœ, tussientibus inimicœ, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est . Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario, della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei Re, e le migliori qualità, le chiama persica, ma secondo una memoria del Dott. Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinœ. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 6.). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25
L'Olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il 150 anno di vita, e aumenta fino ai 50 — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'Olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel Maggio seguente alla fioritura, quando ànno aquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in Novembre e Dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Così si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini così soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (1), di arachide e d'altri semi.
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anno di vita, e aumenta fino ai 50 — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda
L'Alchechingero o Fisalide, è una radice serpeggiante, perenne dei boschi d'Italia e di Germania. Da Maggio ad Agosto, fiori bianchi, viene in piena terra, in esposizione ombrosa. Se ne conoscono 14 varietà. La specie coltivava anche da noi, che proviene dal Perù, si chiama physalis-purbescens o peruviana a caule più alto e ramoso, è pianta erbacea perenne, da serra perchè non resiste sempre ai geli. Ama terra sostanziosa e leggera, dà bacche giallognole dolci-acidule, della grossezza d'un lazzeruolo, ravvolte in un calice vescicolare, pure gialliccio che si mangia come frutta da tavola. L'infelice Carlotta, imperatrice del Messico ne era ghiottissima. — In medicina sono diuretiche, rinfrescative, eccellenti nella nefrite, idropisia, ritenzione d'orina. Vogliono concilii il sonno. Nel linguaggio dei fiori: Errore I Romani la chiamavano herba vescicatoria. La Phiralis-Alkikingi-vescicaria, a palloncini, produce - bacche ritenute narcotiche, ma che pure, coltivata, sono bonissime a mangiarsi. E pianta erbacea perenne dei luoghi sassosi. Più veramente narcotica è la corteccia della sua varietà Physalis somnifera, volgarmente: Solatro sonnifero.
Il frutteto a tavola ed in dispensa
peruviana a caule più alto e ramoso, è pianta erbacea perenne, da serra perchè non resiste sempre ai geli. Ama terra sostanziosa e leggera, dà bacche
Il pepe lungo (piper lungum, macro piper) nasce nel Bengala e nelle Isole Molucche, à gettini lunghi un pollice circa, grossi come una piccola penna da scrivere di color cenere. Il loro sapore è più acre e meno grato del pepe nero e di un odore perfettamente simile. Entra nella composizione di alcuni elettuarj, ma il consumo maggiore si fa dagli acetai, i quali lo infondono nell'aceto debole per renderlo acre. Gli Indiani poveri lo macerano nell'aqua e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoja e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne pure chiamato pepe lungo il nostro peperone. Il pepe della Giammaica, o pimento degli inglesi, o pepe garofanato, è della grossezza d'un pisello, d'un color grigio rossastro, rugoso. À odore aromatico analogo a quello della canella e del garofano, sapore piccante quanto il pepe. Questa droga è di gran uso nei paesi caldi in Germania ed in Inghilterra per condire le vivande ed è uno dei principali ingredienti per la composizione delle spezie. Quello che si usa sotto il nome di pepe di Cajenna (1), non è altro che il seme e la capsula seminale di una pianta selvaggia del Sud dell'America, che è coltivata nelle Indie e che si chiama Capsicum baccatum, annuum et fructescens. Poche sostanze fino dai tempi remotissimi furono oggetto di tante falsificazioni quanto il pepe. Una buona regola è quella di comperar sempre pepe in grana, e di polverizzarlo da voi a norma del bisogno, valendosi di quei piccoli macinatoi di pepe, oggi molto diffusi. Per falsificare il pepe nero servono farine d'ogni genere, segatura di legno, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo si falsifica in polvere ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma Chevallier, v'à una fabbrica che produce annualmente 1500 chilogrammi di una miscela che si vende unicamente per adulterare il pepe. Riesce facile riconoscere il falso pepe in grana, mettendolo nell'aqua, che allora i falsi grani vanno prontamente al fondo e si sciolgono in poltiglia. Il pepe è un'aroma potente e popolare che condisce la minestra del povero e rende pizzicanti gli intingoli del ricco. Eccita la salivazione, favorisce la digestione, ma irrita preso, smodatamente, gli intestini delicati. È veleno per gli emorroidarj, gli erpetici, conviene ai flemmatici. Da Aristotile, Egineta, Dioscoride, Serapione, era tenuto avente benefici effetti sulla vista e nei giramenti di capo. Se non rinfresca, scioglie ed abbassa molti umori e non è del tutto stramba la lezione della scuola Salernitana:
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irrita preso, smodatamente, gli intestini delicati. È veleno per gli emorroidarj, gli erpetici, conviene ai flemmatici. Da Aristotile, Egineta
Il pepe fu per molto tempo il principale oggetto del commercio dell'Europa coll'India. Fino dalla più remota antichità era droga molto in uso e tenuta in conto di cosa preziosa. Al tempo di Plinio si vendeva a peso d'oro e d'argento — abbiamo ancora il proverbio: caro come il pepe, il che allude al valore che una volta aveva. Il pepe serviva di imposta ai vinti come oggi i miliardi. Ebbe l'onore di servire di riscatto a Roma e nel medio evo ancora, col pepe si pagavano molti tributi e molte imposte. Il nostro popolo à sul pepe i proverbi: Var pussee una grana depever che una zucca — Metteg sù el pever, veg sù el pever, rincarire — essere caro. Vess una grana de pever, piccino di corpo, ma d'intelletto acutissimo.
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valore che una volta aveva. Il pepe serviva di imposta ai vinti come oggi i miliardi. Ebbe l'onore di servire di riscatto a Roma e nel medio evo
Albero dell'Europa Meridionale, che erge la sua cima fino a 30 metri a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centim., di un bel verde. Fiorisce in Maggio e produce coni grossi durissimi contenenti mandorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità. Quei coni si rompono, o si mettono al fuoco e allora s'aprono e lasciano la mandorla, aromatica e di grato sapore. Tale mandorla è molto in uso fra noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla Pineta di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle signore che se le lasciavano venire. Sono nutrienti, stimolanti, indigesti. È pasto graditissimo dei canarini che li fà cantare. Molti devono ricordarsi dei maestri che facevano fare i pigneu cioè unire insieme la punta delle cinque dita per batterle colla bacchetta — e pensare che si stava là mogi ad aspettare quel regalo.
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noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla Pineta