La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o tre anni si ànno piante più fruttifere. Nel linguaggio dei fiori: Sei insipido. À frutto a carne zuccherata ed alquanto acidula, rinfrescante, frigida, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia più sottile e trasparente, ha sapore più squisito, quanto più rossa ne è la polpa. V'è pure la specie moscatella, l'ovale, la gialla, ecc. L'anguria, o più propriamente cocumero, (da Cucumis derivante pure dal celtico cucce, vaso, desunto dalla sua forma) non confà a tutti gli stomachi, è indigesta e produce moltissime volte quei casi di colera, che viene denominato sporadico. Alcuni medici vogliono che sia lassativo, rinfrescante, ma è certo che è frutto insipido, che mangiandone bisogna unirvi del rhum o qualche liquore, che bisogna mangiarne poco, e che le sue buccie spolpate servono meravigliosamente a far rompere le gambe al prossimo. Negli Stati Uniti l'anguria è coltivata su vasta scala.
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, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia
Modo di conservare i poponi. Togliete dei poponi tardivi che non sono giunti a perfetta maturità, asciugateli leggermente con un pannolino, e lasciarteli stare per un giorno o due in luogo asciutto. Poi mettete della cenere stacciata in un barile ben netto. Collocatevi i poponi e copriteli con altra cenere in modo che tutti ne rimangono perfettamente coperti. Avvertite però di non porre il barile in luogo esposto al gelo. Così condizionati si conservano sino al Dicembre ed al Gennajo.
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altra cenere in modo che tutti ne rimangono perfettamente coperti. Avvertite però di non porre il barile in luogo esposto al gelo. Così condizionati si
Il Ribes è un arboscello europeo a foglia caduca, originario dell'Arabia. Il suo nome da Ribiz, parola araba, che significa cosa acidula. Vuole clima temperato, nei paesi caldi il frutto à poco sugo, nei freddi è troppo acido. Ama terreno sciolto e fresco. Si moltiplica per semi, margotte e talee. Si educa a spalliera ed a siepe. À fiori odorosi in Aprile e matura più o men tardi a seconda delle varietà. Di queste se ne conoscono 31, ma le principali sono: il ribes ordinario, (ribes rubrum) con frutto a grappolo rosso e bianco più o men grosso. L'uva spina o d'Inghilterra (ribes uva spina, ribes grossularia): Mil. Uga spina, Fr. Gadelier. Ted. Stachelbeere. Ingl. Roug Goosberry, che cresce a grappolo ed à frutti più grossi, e carnosi e meno acidi. Finalmente il ribes nero (ribes nigrum) di sapore più aromatico, odorifero in tutti i suoi organi, a foglia variagata. La più coltivata, è la prima specie il cui frutto vien conservato allo stato fresco e serve a far sciroppi e bevande spiritose. Se ne estrae anche acido citrico. La seconda specie, che conta pure le sue varietà, è coltivata con arte raffinata dagli Inglesi, che ne preparano il loro rinomato vino d'uva spina. Del ribes nero, gli Svizzeri ne fanno pure una bevanda spiritosa, una specie di ratafià detto Cassis. Nel linguaggio dei fiori: Tu fai la mia delizia. I frutti del ribes rosso, si mangiano crudi, si conservano in aquavite, si candiscono, se ne fanno giulebbi, e serve pure a far salsa, aque, sciroppi e sorbetti. Serapione ne parla, ed è lui che ne indica l'origine africana. Le donne e le ragazze amano molto questo frutto che dà l'aspretto del limone. L'uva spina, era detta da noi anche uva crispina e marina e la si metteva nelle minestre, guazzetti ed intingoli ai quali communicava un certo bruschetto grazioso, dice il Pisanelli. In medicina è considerato un rinfrescante ed un astringente.
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. Si educa a spalliera ed a siepe. À fiori odorosi in Aprile e matura più o men tardi a seconda delle varietà. Di queste se ne conoscono 31, ma le
Il Susino o Pruno è una pianta indigena a foglie caduche, originaria dell'Asia. Le qualità migliori seguono il clima della vite. Da noi resiste ovunque all'aperto e sui monti fino a 400 m. Fiorisce a metà Aprile e matura, a seconda delle varietà e posizioni, dal Luglio a tutto Ottobre. Soffre l'ombra, ama terreno fresco, non umido. Si propaga per polloni, ma meglio per nocciolo e per innesto. Infinite le sue varietà, alcune delle quali si consumano verdi ed altre meglio si prestano ad essere essicate. Noto la Mirabella (brugna gialda) che matura alla fine di Luglio. La Damascena, originaria di Damasco portata dal duca d'Anjou al tempo delle Crociate, nome che si corruppe poi in d'amoscina, moscina e volgarmente massina, e da noi per eccellenza la nera (Prunus domestica ungarica). — La Regina Claudia, (brugna Sanclò) grossa e piccola, che matura in Agosto, e la Settembrina ecc. Nel linguaggio delle piante significa: Promessa. Il raccolto delle susine da conservarsi deve farsi delicatamente, a mano, quando sono asciutte dalla rugiada e dalla pioggia. La susina è nutriente quanto il fico, è di facile digestione e costituisce un cibo grato, sì fresca la state, che essicata nel verno. Sotto questa forma ne fanno attivo e proficuo commercio diversi paesi meridionali d'Italia e di Francia. Quelle di Palermo e di Provenza sono le più stimate. Si conciano al giulebbe, servono nei ragouts e nei ripieni delle pollerie, massime del pollo d'India, al quale levano quella certa ruvidezza e selvatichezza di sapore che possiede la sua carne. Si conservano nello spirito, aromatizzato e confettate. In Germania, nella Lorena e nella Svizzera se ne fabbrica alcool, i tedeschi lo chiamano Zwetschker-wasser. Gli Ungheresi Sligowitz e in Transilvania Raki. In farmacia, massime della qualità damascena, se ne fa conserva e polpa, che viene spesso a surrogare, con innocente falsificazione quella dei tamarindi e cassia e che non è meno rinfrescante e lassativa. Serve pure a preparare come ingrediente principale l'elettuario lenitivo, giova agli stitici. Ario morì d'una scorpacciata di susine. Il legno è durissimo e serve agli intarsiatori. La scuola Salernitana, dice: Frigida sunt, laxant, multumque prosunt tibi pruna. Virgilio nell'Egl. 2 le decanta così: Addam cerea pruna et honos erit huic quoque pomo. Dioscoride e Galeno ne magnificano le virtù. Si facevano essicare anche dagli antichi. Fu sempre celebre presso tutti la Damascena.
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. Sotto questa forma ne fanno attivo e proficuo commercio diversi paesi meridionali d'Italia e di Francia. Quelle di Palermo e di Provenza sono le più
Il Susino di macchia o Pruno selvatico; (Prunus selvatica, spinosa, Druparia spinosa) comune nelle selve, macchie e siepi dà fiori odorosi in Marzo ed Aprile, frutto nero violaceo in maturanza verso il Settembre, di sapore acido aspro. La scorza del suo tronco e della radice contiene tannino e viene usata nelle arti alla concia delle pelli e a farne inchiostro, è astringente febbrifuga. Le foglie pure sono astringenti. La sua aqua distillata à virtù deprimente quasi come il Lauro cereso, i bottoni e i fiori sono lassativi. Le drupe essendo aspre, danno bon aceto. Mature servono a colorire il sidro ed il vino, anzi a fabbricarne una specie che chiamasi piquette in Francia, Scheleckenwein in Germania, seccate al sole ed infuse in vero vino gli danno sapore austero. Colla distillazione soministrano un'aquavite abbastanza spiritosa, ed acconciandole con alcool zuccaro ed aromi se ne ottiene un grato rosolio.
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gli danno sapore austero. Colla distillazione soministrano un'aquavite abbastanza spiritosa, ed acconciandole con alcool zuccaro ed aromi se ne ottiene
Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco spino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri. Non abbiamo note sul modo con cui gli antichi dessero la caccia al tartufo. Fu nel medio Evo e in Italia, che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina del secolo XVI nel suo libro De honesta Voluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato con stile poetico porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il Conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II Re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia 10 che costarono 100 talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano trüffel-hunde, e canes tuberario-venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure di fine odorato può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi e se non troverete il tubero troverete certamente... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria survolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca ed altre sue parenti prossime che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee, e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da Novembre a Marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. In Piemonte i più precoci maturano alla fine di Giugno e li chiamano fioroni, e viene quasi sempre a' piedi dei salici e dei pioppi in terreno argilloso, ma la raccolta incomincia in Agosto. In Francia ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitou. Il tartufo nero o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettata dal commercio. V'à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella. Cecilio Apicio il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De Re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
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Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco
Nel linguaggio dei fiori: Generosità, Castità. È meno sensibile del limone, resiste a 4 gradi ma ne soffre sempre. Ama terra buona, argillosa, fresca, esposizione di meriggio, riparata dal settentrione.
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Nel linguaggio dei fiori: Generosità, Castità. È meno sensibile del limone, resiste a 4 gradi ma ne soffre sempre. Ama terra buona, argillosa, fresca
Si riproduce per margotte, propagini, innesto e semina. Se ne contano 18 varietà dell'arancio dolce e 7 di quello amaro o selvatico. — Dà frutto il 5° anno nei climi favorevoli — si raccoglie in varie epoche. La pianta dell'arancio à vita secolare. Qui è pianta da serra, ma è coltivata in tutta Italia, da Malta e dalla Sicilia al lago di Garda. A Salò dicesi Portogallo l'arancio a frutto dolce, e arancio quello a frutti amari, coi quali si fà l'acqua distillata. Il così detto napolino, che viene adoperato esclusivamente dal confetturiere, è detto Citrus bigaradia sinensis e chinotto in italiano, chinois o chinettier in francese. In China ve ne sono infinite varietà. Sono chiamati Kiu-Kù ossia frutti d'oro. Il Mandarino è detto Kan, cioè profumo. Anche là si condisce e se ne fà confettura. In Oceania e nelle Isole Fiji, l'arancio raggiunge un'enorme grossezza. La bellezza, il profumo e la dolcezza degli aranci ricordano i pomi dei mitologici orti esperidi, per cui alla specie di questa famiglia alcuni diedero il nome di esperidee e il frutto chiamarono espiridio. Eccettuate le radici, tutte le parti dell'arancio sono corroboranti, stomatiche, cordiali, antisettiche. I fiori e le foglie servono al distillatore, al credenziere. I fiori si colgono in Maggio e Giugno, nè subito dopo la pioggia, nè prima che sia scomparsa la rugiada. Dalle prime anche la farmacia ne estrae un decotto antispasmodico, antiepilettico. Dai fiori, l'acqua distillata chiamata aqua nanfa, calmante, e un olio essenziale detto: essenza di neroli. I fiori servono a coronare le spose. I frutti si confettano con zuccaro, si candiscono, si compongono in mostarda. Mitigano la sete dei febbricitanti, principalmente quando la bocca è affetta da afte, da difterite, da stomacace, malattie contro le quali è particolarmente indicato il sugo d'arancio. La corteccia è tonica, stomatica. Anche colla radice si fanno pallottole di cauteri, le quali hanno il pregio di facilmente rammolirsi e gonfiarsi. A mascherare il cattivo odore e spiacevole sapore di certe medicine fà ottimo effetto il masticare la scorza od una foglia d'arancio. L'arancio entra nella ricetta della famosa Acqua di Colonia. Fra i lodatori dell'arancio è da ricordarsi il milanese Lodovico Settala, professore di medicina a Pavia, poi di filosofia morale a Milano, citato nei Promessi Sposi e del quale il Ripamonti, suo contemporaneo, dice che curava gratuitamente i poveri ed i letterati — pauperes et litteratos. Gli antichi scrittori confusero sempre l'arancio col limone e col cedro. In Roma nel 1500 si chiamavano Melangoli. L'Ariosto nel Furioso C. XVIII, p. 138, adopera la parola Narancio, sulla prima vera provenienza dell'arancio ebbero molto seriamente a questionare i filosofi antichi. — Alcuni, stando col Re Giuba, che lasciò dei commentarj sulle cose di Libia, dicono che l'arancio, chiamato Pomo delle Esperidi, fosse portato in Grecia nientemeno che da Ercole. Difatti abbiamo statue di Ercole presso piante d'arancio e con aranci in mano. Ateneo col filosofo Teofrasto, lo fanno, venire dalla Persia; il poeta Marrone, dalle Indie. Il fatto è, che fu conosciuto in Europa prima del limone, e che la sua venuta rimonta a data antichissima. A coloro che dicono essere stato portato in Italia alla fine del secolo 13° da viaggiatori Veneziani e Genovesi, farò notare che Virgilio dice: Aurea mala decem misi eras altera mittam. Che nel 1200 ve n'era nel convento di Santa Sabina a Roma, che quasi nello stesso tempo si diffuse nel Napoletano e nell'Isola di Sardegna, e che precisamente verso il 1300 cominciò ad essere coltivato in grande. I Genovesi furono i primi che presero a moltiplicarlo e a farne commercio. Nel 1500 esisteva in Francia un solo arancio stato seminato a Pamplona nel 1421 e che vive ancora nell'agrumiera di Versailles.
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Si riproduce per margotte, propagini, innesto e semina. Se ne contano 18 varietà dell'arancio dolce e 7 di quello amaro o selvatico. — Dà frutto il 5
II tartufo com'era cibo ghiotto dei Greci e dei Romani, lo divenne al tempo delle crociate nelle Corti di Spagna, Toscana e in quella Papale di Avignone e Roma. Dalla Spagna il tartufo passa alle mense francesi nel secolo XIV ma fu misconosciuto allora, ed il poeta Deschamps che viveva sotto Carlo VI compose contro il tartufo, una ballata. Ancora nel 1780 era raro a Parigi. Nel secolo XVI l'uso del tartufo era frequente in tutta Italia. Il Mattiolo ne parla, come di un piatto prelibato di grandi case. Platina l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fius soupers de la Regence e, del Direttorio, diventa ospite pressochè quotidiano alle mense dei marescialli dell'impero e trova in Brillat-Savarin il suo corifeo ed il suo poeta. Egli lo chiama il Diamante della cucina, Dumas s'inchina profondamente davanti al tartufo, lo adora, e nella sua adorazione non può che ripetere che il tartufo è il sacrum sacrorum. Invano i suoi nemici, la medicina ed i casisti, lo combattono. Avicenna dice che occasiona l'appoplessia e la paralisi — altri che genera la melancolia e la lebbra — altri, che è uno stimolante afrodisiaco. Il tartufo s'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo » domandava un giorno Luigi XVIII al suo medico Portal — Scometto che voi lo proibite ai vostri malati! — Sire, io lo credo un poco indigesto, mormorò Portal. — Il tartufo, dottore, non è ciò che pensa il volgo, soggiunse il re e ne fè sparire un bel piatto. Il tartufo à solo due difetti: 1° Di essere indigesto se se ne mangia troppo. 2° Di essere molto caro. Gian Michele Savonarola raccomanda agli intemperanti in fatto di tartufi, di temer Dio se non temono la colica: consiglio che agli epicurei non à mai fruttato un corno.
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Mattiolo ne parla, come di un piatto prelibato di grandi case. Platina l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina
Il Tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essicata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto, coltivato in China e Giappone. Nel Giappone da dove pare originario, viene seminato lungo le siepi 'e sul margine delle campagne. Dà fiori bianchi come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgano i fiori appena spuntano. Il tè potrebbe coltivarsi anche da noi. Nella China il suo nome volgare è tcha e il letterario ming. Nel Giappone tsjaa. Nel linguaggio dei fiori: Estasi. Nella China si fanno quattro raccolte. La prima da Febbrajo a Marzo e fornisce il tè migliore (tè fiore, tè imperiale) che assai di rado si trova in commercio ed è riservato per l'Imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè. Molte le varietà. I commercianti, chinesi ne ammettono fino a 150, gli europei, ne riconoscono una dozzina, che secondo il loro modo di preparazione si classificano in verdi, neri e profumati. Il verde proviene per lo più da arbusti coltivati sul versante delle montagne, il nero da arbusti coltivati ne' campi concimati, il profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero e verde, e la differenza consiste in ciò che prima di essere torrefatto, il nero subisce una leggera fermentazione, lasciando la foglia ammonticchiata in una stanza per tre o quattro giorni, al quale trattamento il verde non è sottoposto, ed in ciò che il verde è colorato quasi sempre artificialmente massime se destinato alla esportazione. Pare che la detta fermentazione decomponga nel tè nero certi principî, che in appresso gli darebbero forza e sapore, di maniera che il nero è inferiore al verde — è meno buono e forte: Al Brasile, che si vuole avere il tè migliore del chinese, il nero si fa al sole e non al forno. Il tè di bona qualità, dà un infuso di color giallo dorato, limpido, perfettamente aromatico, che preso con moderazione nè troppo forte riesce ugualmente favorevole allo stomaco ed al cervello. Questa bevanda aristocratica deve aver sempre un soavissimo profumo. Dal punto di vista igienico non bisogna abusare del tè verde per la sua maggiore e forse troppo forte energia, potendo produrre presso alcuni, disturbi nervosi e preso la sera arrecare l'insonnia. Balzac vuole che questi disturbi nervosi siano precisamente quelli che gli inglesi con nome oramai cosmopolita chiamano spleen e che poetizza certe figurette dell'Isola Britanna. Ad ottenere una bevanda molto aromatica e poco astringente, si deve mettere il tè per mezz'ora in infusione con piccolissima quantità d'aqua fredda e poi aggiungervi l'aqua bollente, versando nelle tazze l'infuso prima che divenga molto bruno. L'aqua fredda imbeve tutta la trama della foglia, e l'aqua bollente scioglie poi il tannato di caffeina, il quale precipita quando l'infuso comincia a raffreddarsi, il primo infuso è più sostanzioso ed aromatico del secondo, il quale è pure molto astringente. La proporzione è di 20 grammi di tè in un litro d'aqua bollente. Migliore l'aqua delle sorgenti e la piovana. L'aggiunta di alcune goccie di sugo di limone od altro acido vegetale rende il tè più piccante e profumato. Nella Tartaria chinese e nel Cachemire e in altri paesi dell'Asia si mangiano le foglie del tè cotte in diverso modo, con burro, farina ecc., e la loro ricchezza in albumina ne spiega il valore nutritivo. Il tè, come il caffè, è soggetto ad alterarsi sia per cattiva preparazione, che per cattiva conservazione.
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commercio ed è riservato per l'Imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè. Molte le varietà. I
In generale però le secche di Spagna sono male preparate. Le uve di Damasco ànno un profumo delizioso ed i grani molto zuccherini, e senza vinaccioli. Le uve passe finalmente da noi dette Zibette e dai Francesi uve di Corinto provengono dall'Isola di Zante e di Lipari, sono senza craspi, in piccoli granelli rossi, molto compressi, grossi come le nostre uve spine (Vedi Ribes). Il loro gusto acidulo, la loro delicatezza, le rendono molto utili per certe vivande, per uso medico, e finalmente per farne alcuni vini. Queste si fanno soltanto seccare al sole, senz'altra cura stendendole per terra. Quel sole là, basta da sè ad essicarle senz'altro metodo più complicato. A Marsiglia s'adopera uva moscata, a sofisticare quella di Malaga e la preparano con un processo simile a quello che si usa in Provenza. Trecento chilogrammi d'uva fresca ne danno circa cento di quella secca.
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preparano con un processo simile a quello che si usa in Provenza. Trecento chilogrammi d'uva fresca ne danno circa cento di quella secca.
Ma pare servisse solo in medicina (Galeno. De Simpl. Med. Fac. cap. 120). L'epoca vera della prima introduzione dello zuccaro in Europa è oscura. Era ramo di commercio fra l'Indostan, la Persia e l'Arabia. Dalla Mecca per Bassora e Bagdad discese al basso Egitto, poi in Grecia e nell'Asia Minore, di là in Europa. Vogliono alcuni che gli Spagnoli e i Portoghesi lo scoprissero per la prima volta nelle Isole Canarie ed a Madera. Ma la cosa pare invece all'incontrario. L'arundo saccarifera, nel 996 fu portata la prima volta dall'Oriente a Venezia e prosperava dopo il mille in Sicilia, tanto che nel 1419 l'Università di Palermo assegnava aque per la sua coltivazione. Secondo Merini prima ancora nel 1319 se ne spedì da Venezia in Inghilterra per 100,000 libbre e 10,000 di candito. I Portoghesi prendendo possesso di Madera vi piantarono la canna dello zuccaro, facendola venire dalla Sicilia, da dove penetrò pure in Spagna. Nel 1449 Pietro Speciale, lo piantò nella campagna di Ficarazzi su quel di Palermo. Nel 1550 un viaggiatore descrive i trappeti (aje) dello zuccaro a Carini, Trabia, Casalbianco, Modica ecc. Ciò riferisce Albert Aqueus lib. V. 37. Dopo quell'epoca in Sicilia ne fu trascurata la coltivazione e fiorì invece grandemente nelle Indie che fornivano lo zuccaro a tutta Europa. In America fu portato dagli Spagnoli. Pier d'Atienza lo piantò nel 1520 presso Concezion della Vega, e già nel 1553 il Messico ne produceva tanto da fornirne il Perù e la Spagna. Gonzalo di Velosa vi costruì i primi cilindri. Il consumo si estese mano mano in Europa finchè propagatosi l'uso del caffè, del tè e della cioccolatta, lo zuccaro divenne indispensabile quanto il sale. Ciò rovinò il commercio del miele, fino allora vivissimo. Il raffinamento dello zuccaro fu inventato da un veneziano nel secolo XVII. Ed ora lo zuccaro è articolo di prima necessità anche pel povero. Entra padrone assoluto nella pasticcieria, nella Cucina, nella cantina, nella farmacia. È sano, facilita la digestione, riscalda ed ingrassa, è utile alla salute dei bambini. I dolci fanno loro male, non per lo zuccaro, ma per la farina e gli altri ingredienti. Lo zuccaro è la più dolce, innocente e proficua delle produzioni vegetali, fù ed è molto calunniato, ed è una viltà abusare della sua bontà, perchè non avendo fiele, non può far vendetta.
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nel 1419 l'Università di Palermo assegnava aque per la sua coltivazione. Secondo Merini prima ancora nel 1319 se ne spedì da Venezia in Inghilterra per
La Cioccolatta. — (Mil. Ciccolatt. - Fr. Chocolat. - Ted. Schokolate. - Ingl. Chocolate). — Deve il suo nome a Sciocolatl, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta, drogata è più saporita e sana di quella che, ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, oli, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita non si rompe senza naturale sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fà bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte dà un eccellente mistura assai sostanziosa, ma non addatta a tutti gli stomachi e che da noi, si chiama barbajada. dal suo inventore Barbaja, impresario della Scala al principio del secolo. Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice che Antonio Carletti fiorentino fù uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il Padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il Gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù, (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè pro e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa se la facevano servire perfino in Chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il R. Padre Escobar sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè liquida non frangunt. Fu importata nella Spagna verso il 17° secolo e mercè le donne e i frati l'uso ne divenne popolare. Anche oggi in tutta la Penisola si offre la cioccolatta come da noi il caffè. Passa i monti con Giovanna d'Austria. I frati spagnuoli la fecero conoscere a' loro confratelli di Francia e al tempo della Reggenza anche in Francia era più in uso del caffè. Madama d'Arestrel superiora del convento delle Visitandines a Belley raccomandava al celebre gastronomo suo compatriota, Brillat-Savarin questa maniera di far la cioccolatta: «Quand vous vou» drez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès » la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le » là. Le repos de la nuit concentre et lui donne » un veloutè qui le rend meilleur. Le bon Dieu » ne peut pas s'offenser de ce petite raffinement, » car il est lui-même tout excellence. » Il medesimo Brillat-Savarin suggerisce che una tazza di cioccolatta dopo il pranzo, invece del caffè è cosa che à il suo merito — e quel gastronomo la sapeva alla lunga. Non sò darmi pace, al pensare, come il fabbricante cioccolatta da noi sia stato preso come tipo di scempiaggine, sicchè ne rimase il proverbio: Fà una figura de ciccolattee, e come la parola ciccolatt serva al nostro popolo quale sinonimo di rabbuffo. La cioccolatta da noi è considerata come bevanda esclusivamente clericale.
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cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il Padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il Gesuita Tommaso
L'Olanda tiene il principale mercato del caffè di Giava, come la Germania di quello di Manilla, Londra e Liverpool di quello del Ceylan. Il Borbone à molta somiglianza col Moka dal quale ebbe origine, è una delle qualità più ricercate del mercato francese. Fra le mille varietà di caffè che ci manda l'America, la quale fornisce la metà del caffè che si consuma in tutto il mondo, quelle di Campinas, Jungas e Santos sono le migliori, le più scadenti quelle di Baja, Para, S.t Domingo. Il Caffè di Martinica gode riputazione universale, viene immediatamente dopo i migliori Moka. Il vero Martinica è raro però in commercio. Nel 1872 se ne esportarono, soltanto 6000 chilog. Sotto il nome di caffè di Martinica, oggi si vendono le qualità scelte ed accuratamente mondate di Guadalupa e Porto Rico. Questo è delle qualità più ricercate, ma si altera rapidamente se conservato in luogo non perfettamente asciutto. È impossibile dare una descrizione anche approssimativa del caffè buono: in generale dev'essere a grani uniformi. Il suo peso dipende dal grado di secchezza. Il caffè ci giunge tante volte, cattivo per vizio proprio, alterato per fermentazione, avariato dall'aqua marina. Oltre a ciò l'industria della sua falsificazione è delle più fiorenti: arriva a darci il caffè.... che non è caffè. Lo si bagna per accrescerne il peso, se ne sostituisce una qualità all'altra, lo si mischia, lo si colorisce, lo si sofistica in grana e crudo — in grana e torrefatto — torrefatto e macinato. Tutti i semi; tutte le radici, tutti i frutti, tutte le corteccie furono esperite a trovar materie da surrogare, mescolare al caffè. Abbiamo il caffè di cicoria, di carote, di tarassaco, caffè di fichi e di ghiande fabbricato in Germania, di lupini, di fecole, leguminose, caffè di dattoli, caffè di Mogdad (cassia occidentalis) altra particolarità tedesca, caffè d'orzo e di malto. Ne volete ancora? S'è arrivato fino alla lirica della falsificazione, a falsificare la falsificazione. Si falsifica anche quella porcheria di caffè di cicoria. Ma dove la falsificazione domina sovrana è nel caffè torrefatto e macinato. La più generale ed innocua è quella che si fà coi fondi di caffè, caffè già esaurito raccolto nei Caffè, Restaurants, negli Alberghi e particolare provento dei cuochi delle case signorili. In Francia abbiamo un'infinita serie di caffè, fabbricati con tutto quel che si vuole, meno il caffè. Fino dal 1718 Giorgio I, in Inghilterra multava i falsificatori del caffè da 20 a 100 sterline. Ora l'industria è libera.
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raro però in commercio. Nel 1872 se ne esportarono, soltanto 6000 chilog. Sotto il nome di caffè di Martinica, oggi si vendono le qualità scelte ed
Il caffè agisce sul cervello, eccita piacevolmente i nervi, rende più attiva la mente, più squisita la sensibilità, feconda la fantasia, e combatte il sonno. Il caffè non favorisce la digestione se non per questo che è caldo. Il caffè non fa mai male, anche il suo abuso non arreca gravi danni. Voltaire e Buffon ne bevevano molto. L'insonnia prodotta dal caffè non è penosa — percezioni luminose, e nessuna voglia di dormire, ecco tutto. Il caffè oltre il regalare del suo squisito aroma, liquori, confetture, paste, dà una bevanda allegra, deliziosa, ghiotta. Napoleone, che era quel che era, à detto del caffè: «Le cafè fort et beaucoup me ressuscite. Il me cause une cuisson, un rongement singulier, une douleur qui n'est pas sans plaisir. J'aime mieux souffrir que de ne pas sentir.» Parini lo cantò nel Mattino:
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. Voltaire e Buffon ne bevevano molto. L'insonnia prodotta dal caffè non è penosa — percezioni luminose, e nessuna voglia di dormire, ecco tutto. Il caffè
Procope, nel 1770, fu il primo che diede a quella bottega il nome e l'aria dei nostri Caffè. Voltaire, Piron, Fontanelle ne furono i primi quotidiani frequentatori. Da Venezia venne a Padova, Milano, Roma. A Roma il più antico Caffè era il così detto Caffè Veneziano, chiuso nel 1861, di fronte al Palazzo Sciarra, dove è ora la Cassa di Risparmio. Anche il Caffè Greco e quello delle Case Bruciate, sono antichissimi e datano dalla prima epoca del caffè.
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Procope, nel 1770, fu il primo che diede a quella bottega il nome e l'aria dei nostri Caffè. Voltaire, Piron, Fontanelle ne furono i primi quotidiani
C'est toi, divin cafè, dont l'aimable liqueur, Sans alterer la tête, èpanouit le cœur! ................................ Viens donc, divin nectar, viens donc, inspire-moi: Je ne veux qu'un desert, mon Antigone, et toi! A peine j'ai senti ta vapeur odorante. Soudain de ton climat la chaleur pènètrante Reveille tous nus sens; sans trouble, sans cahots, Mes pensers plus nombreux accourent a grands flots: Mon idee etait triste, et aride, depouillee; Elle rit, elle sort, richement habillee, Et je crois, du genie eprouvant le rèveil, Boir dans chaque goutte un rayon de soleil.
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, viens donc, inspire-moi: Je ne veux qu'un desert, mon Antigone, et toi! A peine j'ai senti ta vapeur odorante. Soudain de ton climat la chaleur
Avvi un'altra castagna, detta aquatica, frutto d'una pianta annua, che cresce negli stagni e che richiede almeno 20 pollici d'aqua. Si avvicina alla castagna usuale, è però acre ed astringente. Gli abitanti della Carinzia e del Limosino (Francia) ne fanno anche pane. Dall'Asia ci pervenne portata da Clusio verso la metà del secolo decimosesto, un'altra castagna detta d'India, o Ippocastano, cioè castagna cavallina. È la pianta dei pubblici passeggi, e dà frutti che somigliano le castagne, ma più grosse ed amarissime — vengono mangiate da alcuni animali: — nell'Annover si dà ai cavalli per cibo e nella Turchia a quelli affetti di bolsaggine e per rimedio. I chimici ne traggono un succedaneo della china. La sua corteccia gode virtù tonica febbrifuga. Se ne fà infuso vinoso, tintura ed amido. Raspate nell'aqua, servono assai bene ad imbiancare pannilini e nettare tessuti di lana. Se ne cava eccellente colla, che per la sua amarezza à la proprietà d'allontanare gli insetti. Ridotte in farina se ne può fare pasta cosmetica da toilette — rende la pelle netta e liscia. Il chimico Mousaint à trovato modo mercè una serie di bagni in aqua purissima, di spogliare questa castagna del suo principio amaro, e dissecata al forno, la sua farina è assai nutritiva e si presta a molti usi alimentari. L'Ippocastano fu portato a Vienna nel 1588 e a Parigi fu conosciuto solamente nel 1615.
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castagna usuale, è però acre ed astringente. Gli abitanti della Carinzia e del Limosino (Francia) ne fanno anche pane. Dall'Asia ci pervenne portata
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color giallo-verdognolo, à scorza spessa aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello scharlotte, e al confetturiere per regolarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica antispasmodica e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a far emulsioni amare. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio, che serviva a preservare dalla carie e dalle tignuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: «Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur, (Trist. 1).» Del resto la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in
Si conservano essicate per l'inverno, si fanno cocere e fresche ed essicate, se ne fà giulebbe e la così detta marennata, o zuppa di amarasche, che cotte nel vino con zuccaro e droghe, si versano sul pane. Facendole fermentare, se ne ottiene una specie di vino, non forte, ma gradevole. Distillandone il succo già fermentato misto a noccioli contusi e a qualche porzione di foglie ammaccate abbiamo il così detto Kirchen-wasser (aqua di ciliege). Il migliore è quello della Selva Nera e del Voralberg, dei quali luoghi se ne può dire il principale prodotto. Se ne fabbrica pure nella Savoja francese e nelle nostre Alpi. Unito a spirito di lamponi, alcool, zuccaro e ad una certa quantità d'aqua, si ottiene il maraschino specialità della Dalmazia e propriamente di Zara. Macerando le marasche e distillandole con vino aleatico, aromi e zuccaro, si fà pure dell'eccellente ratafià, celebre quello d'Andorno. I gambi o peduncoli, costituiscono un volgare rimedio diuretico. Se ne fà decotto in proporzione di 30 grammi in un litro d'aqua. Plinio asserisce che il primo che introdusse in Italia il ciliegio fu Lucullo l'anno 680 dalla fondazione di Roma, e ve lo portò da Ceresunto, città sulla spiaggia del Mar Nero: Cerasi ante victoriam Mithridaticam L. Luculli non fuere in Italia. Può essere che da Ceresunto, dove a detta degli scrittori il ciliegio era superlativo, avesse il suo nome. Ma che il ciliegio ce l'abbia portato Lucullo è una delle tante bale romane. Un certo Difilo Sifnio, ricordato da Ateneo, che viveva molto prima di Lucullo, sotto il regno di Lisimaco, uno dei generali di Alessandro il Macedone, parlava già delle ciliege della Campania coll'aquolina in bocca. Nelle torbiere di Dax, nelle Lande, si riconosce perfettamente il tronco del ciliegio. Chi ne volesse sapere di più, legga la Cersalogia medica (Basilea 1717), monografia scritta dal celebre Dollfuss. Ad indicare un individuo che si posa a uomo serio e d'importanza, il popolo milanese dice: el par quel che à taccaa el pìccol ai scires. E dalle ciliege abbiamo pure il proverbio:
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Si conservano essicate per l'inverno, si fanno cocere e fresche ed essicate, se ne fà giulebbe e la così detta marennata, o zuppa di amarasche, che
Il Fico è albero a foglie caduche, che cresce spontaneo nel mezzodì d' Europa. Viene in tutti i terreni, desidera posizioni calde, soleggiate, asciutte, difese dai venti, teme sopratutto i balzi di temperatura. Si propaga per margotte, polloni, tallee. Non ama essere tagliato, perchè avendo tessuto a fibre rade, facilmente ne soffre per l'aqua che vi può penetrare, e quando è necessario bisogna ricoprire il taglio con mastice, catrame, ecc. Comincia a dar frutto il 3° anno. Se ne conoscono 62 varietà — tra le quali alcune non mangiabili e velenose. Il nome di Fico dal greco phyo, produrre; a cagione della sua fecondità e nei linguaggio delle piante significa pure: Fecondità. I fichi primaticci sono chiamati fioroni, e sono i frutti, il cui germe era già sul ramo nell'autunno precedente. Maturano in Luglio e sono meno saporiti dei tardivi ed autunnali. Tranne un gran gelo, il fico dà un prodotto quasi sicuro. In Italia e negli altri paesi meridionali dà un frutto che è un vero sciroppo fisso e profumato. Per farlo essicare, scegliere le varietà precoci. L'essicamento al forno lo rende meno bello e meno saporito. Il fico frutto, contiene il 65 % d'aqua. Nell'Africa e nel Levante vi sono piante che danno fino a 300 kilog. di fichi. In China è chiamato cheu-dze, fresco à il colore dell'arancio, secco prende la forma rotonda e s'infila come da noi il rosario, si conserva dolcissimo e prezioso per i viaggi. I rami teneri del fico e le sue foglie staccate dalla pianta, come pure il gambo del frutto immaturo al luogo della rottura tramandano un sugo bianco lattiginoso che è alquanto corrosivo, e serve a cagliare il latte, e come rimedio volgare a guarire i porri sulla pelle. Il legno del fico è assai leggero e s'adopera per certe particolari industrie. Le foglie rigide e di un verde carico, sono adatte a pulire i vetri ed i cristalli. La decozione di dette foglie ridona il colore alle stoffe di lana, scolorate per lavature. Il Sicomoro sul quale è salito il piccolo Zaccheo, per vedere Gesù, è la varietà, fico moro, o fico d'Egitto e di Faraone. È altissimo, cresce a Rodi, nella Siria ed in Egitto dove è indigeno. Dà frutti dolciastri tre o quattro volte l'anno. Il Fico si mangia fresco ed essicato ed è sempre cibo nutriente, sano e pettorale. Sono celebri quelli di Calabria, Sicilia e Smirne. Si usa mangiarlo col prosciutto, col salame. Se ne fa ghiotta frittura, imboraggiandoli sbucciati, con ova e pane. Se ne fa perfino salame. La buccia è indigesta onde il proverbio: All'amico pela il fico e la persica al nemico. Frate Ambrogio da Cremona asseriva che perchè il fico sia meritevole da portarsi in tavola dev'essere perfetto, cioè deve avere il collo torto, l'abito stracciato e l'occhio lagrimoso. Per la colazione sceglieva quelli che la mattina per tempo trovava bucati dagli uccelli. Forse da lui quel proverbio: Il fico vuol avere collo da impiccato e camicia di furfante, che nel nostro dialetto suona così: El figh per vess bell el dev vess lung de coli e rott de pell. L'abuso anticamente si credeva non solo regalasse coliche, ma provocasse sudori e generasse pidocchi, rogna ed altre sordidezze. La Scuola Salernitana ne canta le lodi così: Scropha, tumor, glandes ficus cataplasmate cedunt, Iunge papaver ei, confracta foris trahit ossa. Tutti gli scrittori greci ebbero pure lodi per il fico. Era tradizione che fosse la passione di Ercole. Platone era sopranominato l'amante delle uve e dei fichi. Galeno che non mangiava frutto alcuno aveva delle tenerezze pel fico per l'uva, che chiamava meno inutili, e ne proclama le virtù tra le quali vocis splendorem facere, però soggiunge che fa venire la pancia obesa e cita ad esempio i custodi delle vigne, gli ortolani — onde forse l'altro proverbio: salvare la pancia per i fichi. Gli Ateniesi ne tenevano sacra la pianta che fu loro portata da Naxio Dionisio. Filippo, padre di Perseo in Asia cibò il suo esercito coi fichi e Plinio difatti racconta che in molti luoghi il fico teneva luogo di pane. In Sicilia fu portato da Titano Oxilon figlio di Osio. Dai Greci si mangiavano pure in insalata e il volgo li faceva essicare salati al sole. I Persiani ed i Greci erano ghiottissimi del fico secco. Lo cocevano colla maggiorana, l'issapo ed il pepe, e lo davano anche ai malati. Gli atleti si rinvigorivano coi fichi a prepararsi alla lotta. Si vuole che Mitridate a sicurezza del veleno che prendeva, mangiasse fichi secchi con ruta e sale quale antidoto. Se ne faceva pure un liquore vinoso che chiamavano Sycites o catorchites. Fu sotto il fico che furono trovati i due fondatori di Roma mentre erano allattati dalla lupa - che dal nome del fico, Ruminal, presero il nome di Romolo e Remo.
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a fibre rade, facilmente ne soffre per l'aqua che vi può penetrare, e quando è necessario bisogna ricoprire il taglio con mastice, catrame, ecc
Fico d'India (cactus opuntia vulgaris, Ficus Indica). — È originario dall'India e dall'Africa, da noi cresce in Sicilia e nelle Provincie Meridionali in luoghi asciutti ed aridi. È un alberetto dai 2 ai 3 metri, che vive fino ai 50 anni, dà fiori giallastri, frutti rosei da Agosto a Dicembre, della forma del fico. Contengono una polpa refrigerante, salubre, mangiabile, purchè se ne sputino i semi, e rende l'orina color rosso sangue. Sono alquanto scipiti. Le sue foglie tagliate a metà ed applicate sulle parti dolenti per artrite e pleurisia, danno spesso ottimo risultato. Sono adoperati per fabbricare alcool e forniscono una salsa che per il povero sostituisce quella del pomodoro. Se ne fà pure mostarda, e se ne estrae una materia colorante color cremisino
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forma del fico. Contengono una polpa refrigerante, salubre, mangiabile, purchè se ne sputino i semi, e rende l'orina color rosso sangue. Sono
Pianticella erbacea perenne, indigena, originaria delle Indie. Vuole terreno sciolto, fresco, concimato con materie vegetali, preferisce esposizione non molto soleggiata. Si moltiplica per rampolli. Se ne conoscono 9 varietà. Quella coltivata da noi è la bifera, spontanea dei nostri boschi e monti. Il suo nome dal secchio verbo latino fragare, (odorem emitio fragando) olezzare, d'onde la parola fragrantia e la nostra fragrante. Nel linguaggio dei fiori: Bontà perfetta, Delizia. Tutti conoscono, la bellezza graziosa, la bontà salubre, il delicato profumo di questo primo bacio del sole alla terra. È uno dei frutti più preziosi, che abbondanti e spontanei, somministrano i nostri monti. L'artificiale coltura ben riescì a produrne di più appariscenti e grossi e ad acclimatarne di esotici, come la Grandiflora del Surinam e la Chiloensis od Ananas (introdotta in Italia nel 1774 dal maresciallo conte Della Torre, di Rezzonico, castellano di Parma, ecc.) dell'America — ma non ad eguagliare le modeste, non meno, che soavissime fragole che apporta alla città la graziosa montanina. Si mangiano sole, con zuccaro, rhum, vino e latte, il quale è da sconsigliare perchè gli acidi del frutto facilmente lo coagulano. È molto digeribile la fragola, ma poco nutriente. Con opportuni processi se ne fabbricano conserve, sciroppi, per gelati, ecc un liquore vinoso ed un'aqua distillata usata come cosmetico e come aromatizzante. La radice, i gambi e le foglie ànno virtù astringente e può usarsene il decotto, nelle diarree e nell'ernaturia. Il dott. Klekzinsky di Vienna insegna che colle foglie della Fragaria sylvestris raccolte tosto dopo la maturanza del frutto, ed essicate al sole, o leggermente torrefatte, se ne ottiene un infuso verdastro di odore gradevole, di sapore astringente, che ricorda il tè e che fornisce una piacevole bevanda dietetica (W. Med. Wochenscrift, 1885) È da fuggirsi la fragola dai paralitici e da quelli che soffrono disturbi cardiaci, erutazioni, pirosi. L'uso smodato provoca eruzioni diverse alla pelle. Lobb osservò che diminuisce i calcoli e Linneo che scioglie il tartaro dei denti, che egli stesso guarì dalla gotta col suo uso e ne scrisse una dissertazione De fragaria vesca. Ma lo svedese Cullen non gliela mena buona nel suo trattato di Materia medica. Geoffroy compendia in queste parole le virtù della fragola: «Fraga refrigerant, sitim sedant, œstum ventriculi compescunt, alvum emolliunt, urinam provocant, arenulas expellunt, parum nutriunt, fugacemque alimoniam corpori exibent.» La fragola venne in ogni tempo tenuta in conto di frutto miracoloso. Non vanno d'accordo i Greci nel suo nome e cognome, ma ne parlano Dioscoride e Teofrasto con ammirazione. Myrepsi Alessandrino ne scrisse le glorie in 48 capitoli, tradotto ed illustrato da Leonardo Fuchsio e stampato a Basilea nel 1549. Virgilio nell'Egl. 3 non la dimentica: Qui legistis flores et umi nascentia fraga. Nè la dimentica quel sibarita d'Ovidio: Mollia fraga leges. Murat, il brillante delle battaglie napoleoniche, amava le fragole col sugo d'arancio.
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non molto soleggiata. Si moltiplica per rampolli. Se ne conoscono 9 varietà. Quella coltivata da noi è la bifera, spontanea dei nostri boschi e monti
Il nome di Fungo — dal greco Sphongos, sponga, a cagione della loro sostanza spongiosa, d'onde il Fongus dei latini — è dato a certe vegetazioni che si allontanano dalla comune, per natura, sostanza, forma, mancanza di foglie, di fiori. Ve ne sono d'ogni grandezza, d'ogni forma, filamentosi, membranosi, schiumosi, tuberosi, a carne consistente, spongiosa, coriacea, sugherosa, compatta. Alcuni danno seme, altri no. Infinito il numero delle specie: se ne conoscono più di 3000 varietà, ve ne sono in famiglia, a gruppi, solitari. Aderiscono al suolo o sul corpo sul quale vengono, per mezzo di fibrille, che non sono radici. Esalano un odore particolare ed umido, che è comune a tutti, con alcune gradazioni fra le diverse specie. Il sapore non è meno variabile — ordinariamente è sapido, acre, bruciante, stittico acido nauseante, aromatico a seconda del sugo del quale sono imbevuti. Amano luoghi boschivi umidi e grassi, vengono sulle sostanze vegetali ed animali in decomposizione. L'umidità calda ne genera lo sviluppo e la moltiplicazione principalmente in Autunno e Primavera. Vogliono i climi delle zone temperate. Le stesse specie di funghi non compariscono indifferentemente in tutte le stagioni. L'Asia boreale, la Cina, l'America settentrionale abbondano di funghi. Ànno sviluppo rapido, istantaneo compariscono da prima come piccoli filamenti o fibre che poi si tumefanno e s'ingrossano e crescono tosto a vista d'occhio a formare il fungo perfetto. Questo primo stato si chiama carcite o bianco di fungo. Una sola notte vede apparire migliaja di funghi, alcune ore, alcuni minuti bastano, a diverse specie per pervenire al loro ultimo sviluppo. L'assenza della luce e un'atmosfera tranquilla accelerano singolarmente la loro moltiplicazione. Pervenuti alla maturità emettono de' piccoli corpuscoli tondi, chiamati seminoli, è l'ultimo loro prodotto, come i semi nei vegetali. Sono finissimi, quasi polvere e situati sia nell'intera superficie, sia nella superficie superiore, sia internamente e vengono alla luce per laceramento o morte del fungo. La pioggia li fà deperire facilmente. Sono preda degli insetti e di alcuni animali erbivori, e i più avanzati in età, sono preferiti dagli insetti. E annesso dai chimici che sono potentissimi agenti d'ossidazione, e d'azotazione. I commestibili contengono secondo le varietà da 84 a 94 parti d'acqua, il resto è un composto di sali e sostanze organiche, vale a dire olii essenziali, materie resinose, grasse, coloranti, zuccherine, acidi organici diversi, materie gelatinose, gommose, raramente fecula-cellulosa, di composti azotati albumine ecc. Altri sono eduli, altri velenosi. Teoreticamente è impossibile dare una ragione, un indizio che distingua sicuramente gli eduli dai velenosi. Bisogna affidarsi, più che al medico alla conoscenza pratica locale delle specie, della forma, taglio, colore, aspetto, odore e sapore. A migliaja sono gli scienziati che ne parlarono, e tra questi il milanese Vittadini (1), ma fin ora la scienza non à detto l'ultima sua parola. S'è bensì trovata la maniera di coltivarli, ma su tante specie di funghi saporiti, appena s'è riescito di coltivarne le meno pregiate. Il progresso verrà non dubitiamone. Ma frattanto occhio alla padella! In generale rifiutare tutti i funghi non sani, o che cominciano a decomporsi, quelli che rotti tramandano un'umore lattiginoso, che crudi sono acri, che tingono in rosso la carta azzurra, che presentano una superficie viscosa, od umida, o macchiata, o brinata, che cambiano di colore rompendosi. Non vi affidate mai ai volgari esperimenti, che i funghi velenosi anneriscono il cucchiale d'argento, la cipolla, ed il prezzemolo ecc. Non acquistate mai funghi secchi sulla piazza, nè dal droghiere. Non mangiate funghi alle osterie, alberghi, principalmente di campagna. Se la vostra golaccia vi à pigliato nel trabocchetto e avete mangiato funghi velenosi — eccovi la ricetta del Mantegazza. Prima di tutto sappiate che il più delle volte i sintomi dell'avvelenamento compajono molto tardi, magari sette od otto ore dopo il delitto. Appena v'accorgete vomitate, cercate liberarvi subito delle materie velenose col vomito e col secesso. Cacciatevi due dita in bocca, la barba di una penna, aqua tepida molta — e se non vi riesce: solfato di rame o di zinco: mezzo grammo in cento grammi di aqua comune, — a cucchiaj ogni 5 minuti: purganti forti. Calmate i dolori con cataplasmi sul ventre — e se vi coglie stupefazione, cognac, rhum e frizioni secche ed aromatiche. Non prendete mai latte, compireste l'opera del veleno.
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si allontanano dalla comune, per natura, sostanza, forma, mancanza di foglie, di fiori. Ve ne sono d'ogni grandezza, d'ogni forma, filamentosi
Che che ne sia il fungo dà un piatto molto saporito e ghiotto. Si frigge, si trifola, si unisce a mille intingoli, copre delle sue ali il risotto, regna sovrano nella polenta. È indigesto mangiandone in quantità, ma à virtù stomatiche e corroboranti, dovuto agli aromi dei quali è ricco. Si conserva pure per l'inverno in speciale salamoja o concia, e secco. Gli antichi credevano fosse il prodotto del tuono e del fulmine, per cui lo addimandavano calabates. Anche loro furono sempre ghiotti dei funghi — e chi à potuto far capolino nel tablinum dei Romani, vi avrebbe veduto i loro senatori mondare, essi medesimi, i funghi con un coltellino a manico d'ambra, perchè, i ghiottoni, ne volevano sentire anticipatamente col loro naso senatoriale gli effluvj del primo profumo. È ben vero che anche allora la razza dei funghi assassini faceva la pelle a molti, per cui avevano il proverbio: Tanquam fungus strangulat. Anzi alcuni filologi pretendono che fungus, venga da funere per la sua parentela antichissima coi necrofori. Orazio, quel dell'aurea mediocrità, decantava i pratajuoli: pratensibus optima fungis Natura, cœteris male creditur. Plinio li chiama: gulœ novissima irritamenta. Difilo filosofo li commenda, e Clemente VII ne morì avvelenato.
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Che che ne sia il fungo dà un piatto molto saporito e ghiotto. Si frigge, si trifola, si unisce a mille intingoli, copre delle sue ali il risotto
Questo non è il fiore dei nostri giardini, il garofano diantus, ma un- grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque, e fatto indigeno nelle Indie Orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco, carion noce e phyllon foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i frutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da Settembre a Febbrajo, si fanno essicare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio, si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar da dove ne vengono importati in Europa circa 30,000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere, sotto la pressione dell'unghia. Si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella Cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi li condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante, i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione, e Plinio al 12° lib. c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al 6° lib.
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quello di Zanzibar da dove ne vengono importati in Europa circa 30,000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
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'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome
Il Giuggiolo è un arboscello a foglia caduca, che diventa anche albero ramoso, spinosissimo. Vuole esposizione soleggiata e difesa, terreno buono, teme l'umidità, resiste al freddo. Si propaga per polloni, per innesto, vegeta lentamente. Mette le foglie ultimo di tutti, fiori piccoli, gialli, solitari, in Giugno, frutti o bache rosse della forma e grossezza dell'oliva, matura a tardo autunno. Conta alcune varietà. È originario della Siria, si rinviene anche spontaneo nelle siepi delle montagne calcaree di Val di Noto. Nel linguaggio delle piante: Sollievo. Il frutto, benchè più apprezzato della Lazzeruola, è poco utile, perchè da noi non matura abbastanza e però si mangia appassito. Il legno, assai duro, serve all'ebanista, al tornitore e piglia bon pulimento. Sesto Papinio, console sotto Augusto, fu quello che primo lo portò in Italia dall'Africa. Plinio lo chiama jujubas. La giuggiola è digeribile e può conservarsi secca. Se ne fanno decotti soavi e paste pettorali, ma questa è arte superiore. Il popolo che la vede e la mangia quasi sempre immatura dice per ironia: andare in brodo di giuggiole.
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è digeribile e può conservarsi secca. Se ne fanno decotti soavi e paste pettorali, ma questa è arte superiore. Il popolo che la vede e la mangia
Piccolo arbusto perenne a foglia caduca, che cresce spontaneo in molti paesi d'Europa, e singolarmente nei climi temperati e freddi. Viene in piena terra, vuol terreno fresco, sabbioso, sostanzioso, esposizione di tramontana, ombreggiata alquanto. Dopo 8-10 anni comincia a deperire. Da Maggio a Giugno à fiori rossi o bianchi, pelosi, in piccoli corimbi, ai quali succedono frutti rossi, vellosi. Si moltiplica dividendo le radici in autunno. È detto Rubus idœus dal monte Ida dove i Greci, teste Dioscoride, asseriscono d'averlo scoperto i primi. Nel linguaggio dei fiori: Dolcezza di linguaggio. Deve essere colto appena sia maturo, perchè facilmente si guasta e cade. Il lampone è uno dei frutti più salubri e profumati — è succoso rinfrescante, di sapore gratissimo. Èsuscettibile di fermentazione vinosa, acida alcoolica. Contiene un olio essenziale solubile nell'alcool e nel vino, ma non nell'aqua. Se ne fa sciroppo col succo solo — unendovi l'aceto se ne à l'acetosa: che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori diaforetici. I frutti si mangiano crudi col vino e la panna, collo zuccaro se ne compongono conserve, sorbetti, gelatine, ecc. Si candiscono, danno profumo ad aquavite e liquori — se ne fà aceto e si adoperano per aggiunger forza e fragranza a quello di vino. Il nome di Fambros viene da Ambrosia per il grato sapore che lascia in bocca. Dai Romani era chiamata Mora Vaticana, Sorella del Fambros è,
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nell'aqua. Se ne fa sciroppo col succo solo — unendovi l'aceto se ne à l'acetosa: che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori
Modo di fabbricare l'acetosa. — Si empie un vaso di lamponi ben maturi e vi si aggiunge quanto aceto può contenere. Dopo otto giorni di macerazione, si passa tutto allo staccio e il liquore aromatico che ne risulta si pone in bottiglie che si chiudono ermeticamente.
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, si passa tutto allo staccio e il liquore aromatico che ne risulta si pone in bottiglie che si chiudono ermeticamente.
Il Lauro, o Alloro è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica — e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie ànno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d' animale. Sopra le foglie d' alloro si pone la cotognata, ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali si stramezza. Il decotto d'alloro sparso in terra scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, ànno odore forte, piacevole, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara, sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmenagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flattulenze intestinali, i catarri cronici, la paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche, grossolanamente se ne fà un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che ànno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafne, una crestaina di quei tempi essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi non potendo far altro la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro — se abbruciando strepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno! Per cui Tibullo (lib. 2. Eleg. V) dice: «Laurus ubi bona signa dedit, gaudete coloni. » E Properzio (lib. 2, c. 23) «Et jacet extincto laurus adusta foco.» — Plinio asserisce che il Lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. 15, c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi se ne cinsero i Sommi Poeti ed ahimè! se tornassero tutti quei Sommi, e facessero una capatina alle feste di Natale ed in carnevale da noi, che direbbero vedendo il loro lauro intrecciato alle casseruole di cucina e posto sulle teste dei vitelli, dei majali o steso sopra i loro opulenti jambons?
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allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L
Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno argilloso-calcareo-siliceo, clima dolce. Soffre il freddo e il troppo caldo rende il suo frutto stopposo. Cresce sollecitamente. A 20 anni in Sicilia produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono sempre presente. Il limone vuolsi originario della Persia. Si narra che un re di quel paese ne facesse dono agli Ateniesi, d'onde si sparse poi in Europa. Plinio parla d'un frutto detto Pomo di Media che i greci chiamavano Kitrion. Si vorrebbe che ai tempi di Plinio il limone non fosse ancor portato in Italia, scrivendo egli stesso: Sed nisi apud Medos et in Perside nasci noluit. Abbiamo però Virgilio che ne celebrò le lodi nella 2a Georgica:
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produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui
L'Albicocco è albero originario dell'Armenia, indigeno da noi — à foglia caduca. Ama terreno leggero, fresco, bona esposizione, viene meglio in spalliera. Si moltiplica per semi, deperisce dopo i 20 anni. Fiorisce in Marzo — dà frutti in Giugno e Luglio. Nel linguaggio delle piante significa: Primizia. L'albicocco è selvatico in China e sono usitatissimi i suoi chicchi per ricavarne olio. Se ne contano molte varietà: Le primaticcie sono l'albicocca pesca e la nostrale con nocciolo amaro. Le migliori per grossezza e sapore sono quelle di Nancy. La qualità più grossa di Germania è anche più insipida. L'al- bicocca o meliaca, matura è di una delicatezza superlativa, ma la sua maturanza passa prestissimo. Si mangia fresca o si fa essicare al forno dividendola in due e levandone il nocciolo. Cocendola se ne fà marmellata, gelatina, sciroppo. Celebre la sua confettura di Clermont-Ferrant. Si conserva nell'aquavite, si candisce. Della mandorla dolce se ne fà ingrediente di pasticceria e condimento a leccornerie da dessert.
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: Primizia. L'albicocco è selvatico in China e sono usitatissimi i suoi chicchi per ricavarne olio. Se ne contano molte varietà: Le primaticcie sono l
Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in Giugno e Luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di Settembre, perchè aspettando più tardi la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata e à dato pure il nome al rosso-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato aquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre. Punica sub lento cortice grana rubent, dice Ovidio (Egl. 15). È frutto cercato ghiottamente, dalle signorine e dei ragazzi. Serve al dessert. I grani somigliante ai rubini, nettano i denti e movono l'appetito. Dal succo, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e conserve deliziose, confetture delicatissime, ghiotti giulebbi e gelati. I fiori del melagrano si usavano come astringenti in polvere e decotto — oggi macerati con allume nell'aqua danno un bell'inchiostro rosso, come la buccia, macerata con allume pure lo dà nero. La buccia o pericarpio detta malicorion, ricca di principio amaro, contiene moltissimo tannino e viene utilmente impiegata nella concia delle pelli. A Tunisi serve a tingere in giallo i così detti marocchini. In medicina viene somministrata per uso sì interno che esterno, come astringente e dei più energici. Arago, nella sua Promenade autour du monde, dice, che a Timor si usa nella dissenteria. In Persia al Thibet, nella China, fra gli Arabi ed anche in Russia al dire del Rehmann viene adoperata come succedaneo al chinino. Il seme risulta d'una buccia cartilaginea e di un mandorlo bianco, dolce da cui si può spremere olio. La radice, e precisamente la corteccia della radice, gialla all'interno, bigio-cenericcia all'esterno, à sempre goduto dall'antichità fino a' giorni nostri fama di tenifuga quando è fresca e caccia pure le ascaridi.
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esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
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ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio
Il Nocciolo è arbusto a foglie caduche, che cresce spontaneo nei nostri boschi. Viene in tutti i climi, ama posizione non troppo soleggiata. Teme l'aridità e la tenacità del suolo. Si moltiplica per barbatelle e polloni. Se ne conoscono 7 varietà, le principali; l'avellana propriamente detta, a frutto oblungo accuminato, di sapor dolce, gradevole e ricca d'olio, l'altra la colurna, a frutto più grosso e tondeggiante, di sapore meno marcato e meno ricca d'olio. Nel linguaggio delle piante: Pace, riconciliazione. La maturanza della nocciola è riconoscibile quando l'involucro di essa prende un color giallo. Per conservarla sana per molto tempo si mette nella crusca, o segatura di legno. Per estrarne l'olio non si deve aspettar molto tempo, perchè si guasta presto. Se ne mangia il frutto fresco e secco, che è gustoso, ma indigesto, disturba la digestione, e in quantità ingombra i visceri. E ghiottoneria dei ragazzi, bisogna masticarla bene, e secco è meno digeribile. I confetturieri lo coprono di zuccaro, l'abbrustoliscono. L'olio che se ne estrae è dei migliori — ed è utile per tossi, linimenti, reumi, purghe ecc., ed il tortello residuo serve a fare una pasta preferibile a quella delle mandorle comuni. Il legno pieghevole del nocciolo, somministra ai bottai ottimi cerchi per tinozze e barili, ai canestrai verghette flessibili per mille industriosi ripieghi — abbrucciato dà un foco dolce, carbone per disegno, ed eccellente per fabbricare polvere pirica. In S. Pietro di Roma, i Penitenzieri nelle grandi circostanze di feste, giubilei, indulgenze ecc., danno l'assoluzione ai penitenti inginocchiati davanti al confessionale, toccando loro le spalle con bacchette di nocciolo. La bacchetta di nocciolo, era indispensabile nelle arti divinatorie, era la bacchetta dei maghi — come dopo fu quella dei maestri della dottrina cristiana nelle Chiese, degli elementari nelle scuole, e dei professori di Seminario, tanto che la niscieula è pei milanesi sinonimo di bacchetta. Nè voglio dimenticare i caporali austriaci che prima del 48 la portavano al fianco colla sciabola, e l'adoperavano per il bankheraus, onde: mollaj giò secch comè i niscieur.
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'aridità e la tenacità del suolo. Si moltiplica per barbatelle e polloni. Se ne conoscono 7 varietà, le principali; l'avellana propriamente detta, a
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S'addatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire — à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. La parola nux, da dove noce, viene da nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura, rotti i gusci, si torchiano subito perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4, 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarvele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca, che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essicando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert. Pan e nôs, mangia de spôs dice un proverbio. Immatura ed intera, vien confettata collo zuccaro ed il miele e forma uno dei più grati componenti la mostarda. Brillat-Savarin ci racconta che le monache Visitandines di Bellay avaient pour les confire, une recette qui en faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di wermouth, e dietro infusione alcoolica se ne fabbrica un rosolio, o ratafià, che gode meritata fama di stomatico e roborante. Nella Virginia e nella Luigiana coi frutti di quelle noci si confeziona del pane. I Greci Mainotti, le fanno bollire col mosto del vino e ne compongono l'halvez che è uno dei più delicati loro manicaretti. In Francia ne fanno il nouga, espèce de conserve brulèe, avec les noix sèches et pelèe. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina, per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essicativo è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato facilmente annerisce e tinge in nero giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola, in una gentil pelle brunetta » dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare ecc. L'ombra del noce è dannoso alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impregnato di tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse — e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalalgia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza, e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco principalmente presso i nostri fratelli del Cantone Ticino. Dal tronco se ne può cavare con opportune incisioni sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. L'olio è usato come antielmitico, e purgativo internamente, (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidœ. Dioscoride le chiamava biliosœ, tussientibus inimicœ, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est . Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario, della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei Re, e le migliori qualità, le chiama persica, ma secondo una memoria del Dott. Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinœ. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 6.). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno
Ateneo ne scrisse lungamente de' suoi vizi e delle sue virtù. A Brinzio sul Varesotto, avvi un noce che si vuole sia tre volte secolare. Il suo tronco è grosso m. 8. 325 — è alto 38. 675 — e il suo perimetro è di 55.47 — il suo prodotto annuo è di circa 18 ettolitri. La noce è l'albero delle streghe, dei sabbati, della mezzanotte. Dò nôs in d'un sacch, e dò donn in d'una cà, fan gran frecass. Mi gho i vôs, e i alter ghan i nôs. Le noci, presso il nostro popolo sono sinonimo, di capricci.
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Ateneo ne scrisse lungamente de' suoi vizi e delle sue virtù. A Brinzio sul Varesotto, avvi un noce che si vuole sia tre volte secolare. Il suo
Anche Emolao Barbaro in Dioscoridem è dell'opinione che i Greci la conoscessero. Gli Olandesi, nel secolo scorso, si misero in testa di farne un loro monopolio e a tale intento ne distrussero quasi la specie nelle Isole Molucche. Ma nel 1770 Poivre, governatore di Bourbon riuscì a rapir loro, con quelli dei chiodi di garofano, alcuni alberi di noce moscata e li piantò a Maurizio e a Bourbon.
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monopolio e a tale intento ne distrussero quasi la specie nelle Isole Molucche. Ma nel 1770 Poivre, governatore di Bourbon riuscì a rapir loro, con
È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo a condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono, lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27. 20) e nel Levitico (cap. 24. 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumastro chiamato omphacium gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come rimedio preziosissimo contro un'infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche il frutto dell'olivo è mangiabile. Nella Bibbia è chiamato fruges. — Si fruges collegeris olivarum (Deut. 24. 20). Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di aqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'aqua, e finalmente si coprono con forte salamoja aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno de' suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa per essere felice, che un po' di olive, di cicoria, e di malva: Me pascant ulivœ, me cicorea, levesque malvœ. Tutti gli scrittori Greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama adirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri.
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gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto
L'Alchechingero o Fisalide, è una radice serpeggiante, perenne dei boschi d'Italia e di Germania. Da Maggio ad Agosto, fiori bianchi, viene in piena terra, in esposizione ombrosa. Se ne conoscono 14 varietà. La specie coltivava anche da noi, che proviene dal Perù, si chiama physalis-purbescens o peruviana a caule più alto e ramoso, è pianta erbacea perenne, da serra perchè non resiste sempre ai geli. Ama terra sostanziosa e leggera, dà bacche giallognole dolci-acidule, della grossezza d'un lazzeruolo, ravvolte in un calice vescicolare, pure gialliccio che si mangia come frutta da tavola. L'infelice Carlotta, imperatrice del Messico ne era ghiottissima. — In medicina sono diuretiche, rinfrescative, eccellenti nella nefrite, idropisia, ritenzione d'orina. Vogliono concilii il sonno. Nel linguaggio dei fiori: Errore I Romani la chiamavano herba vescicatoria. La Phiralis-Alkikingi-vescicaria, a palloncini, produce - bacche ritenute narcotiche, ma che pure, coltivata, sono bonissime a mangiarsi. E pianta erbacea perenne dei luoghi sassosi. Più veramente narcotica è la corteccia della sua varietà Physalis somnifera, volgarmente: Solatro sonnifero.
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terra, in esposizione ombrosa. Se ne conoscono 14 varietà. La specie coltivava anche da noi, che proviene dal Perù, si chiama physalis-purbescens o
V'à chi dice che l'albicocco sia stato portato in Europa al principio dell'era volgare, ma i Greci lo conoscevano prima ed i suoi frutti li chiamavano poma precocia (primaticcia) che pronunciavano bericoca e vi venne portato al tempo di Alessandro il Grande. Da bericoca il nome arabo berkouk, e da cui lo spagnolo albaricoque e il nostro italiano albicocca. I Romani lo chiamavano: mela armeniaca. Ne parlarono Dioscoride e Plinio, commendandone l'aroma. — Galeno ed i medici greci asserivano che i frutti suoi sono più salubri di quello del pesco. L'albicocca è piuttosto indigesta e la medicina si serve dei semi della varietà che li à amari, a sostituirli a quelli della Mandorla amara e che del pari possono riescire venefici.
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cui lo spagnolo albaricoque e il nostro italiano albicocca. I Romani lo chiamavano: mela armeniaca. Ne parlarono Dioscoride e Plinio, commendandone l
Il Pesco è pianta a foglia caduca, indigena, originaria dall'Asia e più propriamente, come lo indica il suo nome, della Persia. Cresce in terreni buoni, caldi, ad esposizioni meridionali, difese dai venti. Vive anche nei climi freddi, ma non dà frutti. Si moltiplica per seme ed innesto sul Mandorlo, sul Pruno e sul Cotogno. Vuolsi che dia frutti migliori e più belli piantando la pesca intera colla sua polpa. Cresce rapidamente, dopo due o tre anni dà frutto, ma presto invecchia e deperisce — pochi peschi passano i 20 anni. Si allunga la loro vita innestandoli sul mandorlo. A fiori rosei prima delle foglie, che sono distrutti facilmente dalle brine e dalle forti pioggie primaverili. Dà frutti maturi da Luglio ad Ottobre, a seconda delle varietà, che sono numerose assai. I botanici dividono il pesco in due famiglie, quello a frutto coperto di pelurie, e quelle a frutto liscio — ambedue suddividonsi alla lor volta, in frutto a polpa e carne succosa, spiccaciola, che facilmente abbandona il nocciolo, e in frutto a polpa consistente duracina, che non si stacca dal nocciolo. La pesca è matura, quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla — in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fà marcire. L'Erera, botanico spagnolo, dice che se si adaqueranno i persici, con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore — vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca, è frutto giocondo che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe. È squisitissimo, salubre, profumato di facile digestione, si mangia fresco e si fà seccare per l'inverno, e allora si chiamano da noi veggitt. I cuochi ne fanno fritture, polpettine, persicata, sorbetti, marmellate. Il loro delicato aroma è sì sfuggevole che invano si tenta fissarlo completamente nelle conserve, nei liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell'osso: Malum quod implicuit persicum nucleus explicat. Diceva un antico proverbio latino, il che vuol dire che bisogna mangiarne anche l'amanda. Certe signorine troppo schifiltose non possono soffrire la lanuggine della sua pelle ed è precisamente nella sua pelle che si conserva il massimo tesoro della sua fragranza, come è nella pellicola dalla sua amanda che maggiormente si raccoglie l'amaro che possiede. Si ricordino del proverbio: all'amico pela il fico, al nemico il persico. Per saporire la pesca va mangiata senza pelarla e senza tagliarla. Le foglie ed i fiori del pesco sono velenosi, contenendo acido idrocianico, tuttavia in medicina se ne fà uso qualche volta come contro stimolanti e vermifughi. I fiori e le foglie recenti, ànno inoltre una virtù purgativa, se ne fà infusione e sciroppo, perdono molto coll'essicazione. In caso di avvelenamento coi fiori, foglie o mandorle de' suoi frutti, si soccorre con etere al quale s'aggiungono una ventina di goccie di laudano. Coi frutti ben maturi, che passano facilmente alla fermentazione, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma arabica. La Scuola Salernitana sentenzia:
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nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e
I Greci, fatta astrazione di Dioscoride che la chiama frutto salubre, la tenevano come nociva, quasi velenosa. Plinio lo dichiarò salubre ed innocuo e ne insegnò a spremerne il succo nel vino. Erano celebri le pesche della Sabinia. I Romani amavano la specie duracina e la chiamavano pomo di Persia, malum persicum. Il pesco fu conosciuto ed acclimatizzato da noi dopo la spedizione di Alessandro e bisogna che fosse assai raramente coltivato, perchè al tempo di Plinio, le pesche valevano perfino trenta sesterzi l'una, cioè circa sei delle nostre lire. Non saprei dire perchè a certi gonzi, il popolo milanese, appiccò il nomignolo di persegh.
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e ne insegnò a spremerne il succo nel vino. Erano celebri le pesche della Sabinia. I Romani amavano la specie duracina e la chiamavano pomo di Persia
L'Ananasso, o anche Ananas coronato, è frutto della Bromelia, così detta dal botanico svedese Bromel, al quale fu dedicata. È frutto dei paesi caldi e lo si coltiva da noi nelle serre. Non fiorisce che il terzo anno dopo la piantagione e per maturare abbisogna da 4 a 6 mesi. Matura generalmente in Agosto. Nel linguaggio delle piante: Perfezione. Avvene molte varietà; che vengono indicate dal colore del frutto; dalla sua forma, ecc. Dalle foglie degli ananassi si ottengono fibre delicatissime per tessuti, dei quali se ne fa uso nella zona torrida. Nel Museo di Firenze si trovano belle vesti e finissimi fazzoletti ricamati, fatti di fibre di ananas. Fu Colombo il primo a portarlo in Europa. Il frutto che matura nelle nostre serre, non raggiunge mai la bontà di quelli coltivati in America. Fu chiamato il Re dei frutti ed è creduto il più saporito dei frutti della terra. Compare solamente alla mensa dei ricchi. Non è troppo digeribile, conviene sputarne fuori la parte stopposa, è utile accompagnarlo con vino generoso o liquori. Dall'America, ne arriva una confezione molto stimata Dà il sapore a vari liquori e rosoli. Se ne fa sciroppo delizioso.
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degli ananassi si ottengono fibre delicatissime per tessuti, dei quali se ne fa uso nella zona torrida. Nel Museo di Firenze si trovano belle vesti e
È un grande albero a foglia caduca, originario delle Indie Orientali, della Persia, dell'Arabia e della Siria. Fra Damasco ed Aleppo ve ne ànno selve intere. Da noi è fatto indigeno in Toscana, nel Genovesato e nella Sicilia. Nelle provincie meridionali della Francia vegeta pure con prosperità. Non resiste d'inverno in piena terra nei paesi settentrionali. Vuol terreno sostanzioso, leggero e parche irrigazioni. Si moltiplica per semi, che si fanno nascere sotto cuccia, porta in primavera fiori piccoli, giallognoli, a cui succedono frutti ovali lunghi, secchi, con polpa sottilissima, e grossi quanto una oliva, contenenti un nocciolo che apresi in due valve, entro le quali trovasi una mandorla verde coperta d' una pellicola rossastra, d'un sapor dolce, soave, grato, pingue. Nel linguaggio dei fiori e piante: Accoglienza benevola. Questo frutto è mangereccio e per i pregi ed i diffetti è da mettersi insieme al pignolo. Contiene molto olio, che è facile estrarre con semplice pressione. Serve a preparare alcune emulsioni, affatto simili a quelle delle màndorle dolci, prescritte nelle infiammazioni degli intestini e delle vie orinarie. I confetturieri ne fanno grande uso in paste e confetti. I salumai ne regalano le galantine e certi salami a cuocersi. I cuochi lo mettono nei polpettoni e nei croquants, che i fiorentini chiamano Pistacchiata. Se ne fa pure una eccellente conserva. Gli Arabi lo chiamano Pustach, gli Spagnuoli Alfogico, e gli Olandesi Pistassies. Vuolsi che chi lo portò in Italia fosse il Console romano Lucio Vitellio sotto Tiberio, di ritorno dalla Siria, come Fiacco Pompeo, suo commilitone, lo portò pel primo in Spagna.
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È un grande albero a foglia caduca, originario delle Indie Orientali, della Persia, dell'Arabia e della Siria. Fra Damasco ed Aleppo ve ne ànno selve
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
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. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata