La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o tre anni si ànno piante più fruttifere. Nel linguaggio dei fiori: Sei insipido. À frutto a carne zuccherata ed alquanto acidula, rinfrescante, frigida, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia più sottile e trasparente, ha sapore più squisito, quanto più rossa ne è la polpa. V'è pure la specie moscatella, l'ovale, la gialla, ecc. L'anguria, o più propriamente cocumero, (da Cucumis derivante pure dal celtico cucce, vaso, desunto dalla sua forma) non confà a tutti gli stomachi, è indigesta e produce moltissime volte quei casi di colera, che viene denominato sporadico. Alcuni medici vogliono che sia lassativo, rinfrescante, ma è certo che è frutto insipido, che mangiandone bisogna unirvi del rhum o qualche liquore, che bisogna mangiarne poco, e che le sue buccie spolpate servono meravigliosamente a far rompere le gambe al prossimo. Negli Stati Uniti l'anguria è coltivata su vasta scala.
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La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o
Il Susino o Pruno è una pianta indigena a foglie caduche, originaria dell'Asia. Le qualità migliori seguono il clima della vite. Da noi resiste ovunque all'aperto e sui monti fino a 400 m. Fiorisce a metà Aprile e matura, a seconda delle varietà e posizioni, dal Luglio a tutto Ottobre. Soffre l'ombra, ama terreno fresco, non umido. Si propaga per polloni, ma meglio per nocciolo e per innesto. Infinite le sue varietà, alcune delle quali si consumano verdi ed altre meglio si prestano ad essere essicate. Noto la Mirabella (brugna gialda) che matura alla fine di Luglio. La Damascena, originaria di Damasco portata dal duca d'Anjou al tempo delle Crociate, nome che si corruppe poi in d'amoscina, moscina e volgarmente massina, e da noi per eccellenza la nera (Prunus domestica ungarica). — La Regina Claudia, (brugna Sanclò) grossa e piccola, che matura in Agosto, e la Settembrina ecc. Nel linguaggio delle piante significa: Promessa. Il raccolto delle susine da conservarsi deve farsi delicatamente, a mano, quando sono asciutte dalla rugiada e dalla pioggia. La susina è nutriente quanto il fico, è di facile digestione e costituisce un cibo grato, sì fresca la state, che essicata nel verno. Sotto questa forma ne fanno attivo e proficuo commercio diversi paesi meridionali d'Italia e di Francia. Quelle di Palermo e di Provenza sono le più stimate. Si conciano al giulebbe, servono nei ragouts e nei ripieni delle pollerie, massime del pollo d'India, al quale levano quella certa ruvidezza e selvatichezza di sapore che possiede la sua carne. Si conservano nello spirito, aromatizzato e confettate. In Germania, nella Lorena e nella Svizzera se ne fabbrica alcool, i tedeschi lo chiamano Zwetschker-wasser. Gli Ungheresi Sligowitz e in Transilvania Raki. In farmacia, massime della qualità damascena, se ne fa conserva e polpa, che viene spesso a surrogare, con innocente falsificazione quella dei tamarindi e cassia e che non è meno rinfrescante e lassativa. Serve pure a preparare come ingrediente principale l'elettuario lenitivo, giova agli stitici. Ario morì d'una scorpacciata di susine. Il legno è durissimo e serve agli intarsiatori. La scuola Salernitana, dice: Frigida sunt, laxant, multumque prosunt tibi pruna. Virgilio nell'Egl. 2 le decanta così: Addam cerea pruna et honos erit huic quoque pomo. Dioscoride e Galeno ne magnificano le virtù. Si facevano essicare anche dagli antichi. Fu sempre celebre presso tutti la Damascena.
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linguaggio delle piante significa: Promessa. Il raccolto delle susine da conservarsi deve farsi delicatamente, a mano, quando sono asciutte dalla rugiada e
Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco spino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri. Non abbiamo note sul modo con cui gli antichi dessero la caccia al tartufo. Fu nel medio Evo e in Italia, che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina del secolo XVI nel suo libro De honesta Voluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato con stile poetico porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il Conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II Re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia 10 che costarono 100 talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano trüffel-hunde, e canes tuberario-venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure di fine odorato può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi e se non troverete il tubero troverete certamente... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria survolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca ed altre sue parenti prossime che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee, e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da Novembre a Marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. In Piemonte i più precoci maturano alla fine di Giugno e li chiamano fioroni, e viene quasi sempre a' piedi dei salici e dei pioppi in terreno argilloso, ma la raccolta incomincia in Agosto. In Francia ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitou. Il tartufo nero o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettata dal commercio. V'à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella. Cecilio Apicio il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De Re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
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, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante
Si riproduce per margotte, propagini, innesto e semina. Se ne contano 18 varietà dell'arancio dolce e 7 di quello amaro o selvatico. — Dà frutto il 5° anno nei climi favorevoli — si raccoglie in varie epoche. La pianta dell'arancio à vita secolare. Qui è pianta da serra, ma è coltivata in tutta Italia, da Malta e dalla Sicilia al lago di Garda. A Salò dicesi Portogallo l'arancio a frutto dolce, e arancio quello a frutti amari, coi quali si fà l'acqua distillata. Il così detto napolino, che viene adoperato esclusivamente dal confetturiere, è detto Citrus bigaradia sinensis e chinotto in italiano, chinois o chinettier in francese. In China ve ne sono infinite varietà. Sono chiamati Kiu-Kù ossia frutti d'oro. Il Mandarino è detto Kan, cioè profumo. Anche là si condisce e se ne fà confettura. In Oceania e nelle Isole Fiji, l'arancio raggiunge un'enorme grossezza. La bellezza, il profumo e la dolcezza degli aranci ricordano i pomi dei mitologici orti esperidi, per cui alla specie di questa famiglia alcuni diedero il nome di esperidee e il frutto chiamarono espiridio. Eccettuate le radici, tutte le parti dell'arancio sono corroboranti, stomatiche, cordiali, antisettiche. I fiori e le foglie servono al distillatore, al credenziere. I fiori si colgono in Maggio e Giugno, nè subito dopo la pioggia, nè prima che sia scomparsa la rugiada. Dalle prime anche la farmacia ne estrae un decotto antispasmodico, antiepilettico. Dai fiori, l'acqua distillata chiamata aqua nanfa, calmante, e un olio essenziale detto: essenza di neroli. I fiori servono a coronare le spose. I frutti si confettano con zuccaro, si candiscono, si compongono in mostarda. Mitigano la sete dei febbricitanti, principalmente quando la bocca è affetta da afte, da difterite, da stomacace, malattie contro le quali è particolarmente indicato il sugo d'arancio. La corteccia è tonica, stomatica. Anche colla radice si fanno pallottole di cauteri, le quali hanno il pregio di facilmente rammolirsi e gonfiarsi. A mascherare il cattivo odore e spiacevole sapore di certe medicine fà ottimo effetto il masticare la scorza od una foglia d'arancio. L'arancio entra nella ricetta della famosa Acqua di Colonia. Fra i lodatori dell'arancio è da ricordarsi il milanese Lodovico Settala, professore di medicina a Pavia, poi di filosofia morale a Milano, citato nei Promessi Sposi e del quale il Ripamonti, suo contemporaneo, dice che curava gratuitamente i poveri ed i letterati — pauperes et litteratos. Gli antichi scrittori confusero sempre l'arancio col limone e col cedro. In Roma nel 1500 si chiamavano Melangoli. L'Ariosto nel Furioso C. XVIII, p. 138, adopera la parola Narancio, sulla prima vera provenienza dell'arancio ebbero molto seriamente a questionare i filosofi antichi. — Alcuni, stando col Re Giuba, che lasciò dei commentarj sulle cose di Libia, dicono che l'arancio, chiamato Pomo delle Esperidi, fosse portato in Grecia nientemeno che da Ercole. Difatti abbiamo statue di Ercole presso piante d'arancio e con aranci in mano. Ateneo col filosofo Teofrasto, lo fanno, venire dalla Persia; il poeta Marrone, dalle Indie. Il fatto è, che fu conosciuto in Europa prima del limone, e che la sua venuta rimonta a data antichissima. A coloro che dicono essere stato portato in Italia alla fine del secolo 13° da viaggiatori Veneziani e Genovesi, farò notare che Virgilio dice: Aurea mala decem misi eras altera mittam. Che nel 1200 ve n'era nel convento di Santa Sabina a Roma, che quasi nello stesso tempo si diffuse nel Napoletano e nell'Isola di Sardegna, e che precisamente verso il 1300 cominciò ad essere coltivato in grande. I Genovesi furono i primi che presero a moltiplicarlo e a farne commercio. Nel 1500 esisteva in Francia un solo arancio stato seminato a Pamplona nel 1421 e che vive ancora nell'agrumiera di Versailles.
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'arancio, chiamato Pomo delle Esperidi, fosse portato in Grecia nientemeno che da Ercole. Difatti abbiamo statue di Ercole presso piante d'arancio e
Il profumo del tè, è volatile, non deve essere quindi esposto nè all'aria, nè alla luce: conservatelo in vasi chiusi ed opachi. Il tè, s'impregna assai facilmente degli odori anche i più deboli: non mettetelo a contatto con sostanze odorose, anche quando l'odore di queste è gradevole. Troppo vecchio — perde, è passato. Troppo fresco è acre ed amaro. I Chinesi lo colgono di un anno. Aquista ad essere trasportato per mare, come il vino. La falsificazione del tè, è antichissima ed incomincia in China e nel Giappone per essere perfezionata in Europa dagli Inglesi. Si falsifica, coll'addizione di materie minerali, per aumentarne peso e volume, colla colorazione artificiale, colla rivivificazione dei tè esauriti, cioè già spogliati dei loro principî solubili: è industria tutta inglese. A Londra lo si raccoglie già usato nei caffè, negli alberghi, nei mucchi di lordure dei più sporchi quartieri di Shang-Hai. Nel 1843 a Londra ve n'erano otto fabbriche che lo falsificavano con sostituzione di foglie straniere, frassino, pioppo nero, platano, quercia, faggio, olmo, spinobianco, alloro, sambuco ecc. Del resto molte piante danno foglie che possono surrogare benissimo il tè. A Sumatra si servono delle foglie del caffè. Nell'America del Sud e nel Paraguay sostituiscono al tè, il mate che chiamano tè mate. (Ilex paraguayensis). Nel Bacino delle Amazzoni col guaranà (Paullinia sorbilis), nella Bolivia colla coca (Erytroxylon coca), che venne messa in musica su tutti i toni, dal Mae.° Mantegazza. Volgarmente il tè, viene denominato dalla sua immediata provenienza — tè d'Olanda, di Russia ecc. Il tè fu primieramente introdotto dagli olandesi verso il 1610 che lo ricevevano dai chinesi in cambio della salvia (1). Il tè nei Paesi Bassi serviva a disegnare i fautori del Principe d'Orange e degli Inglesi, che lo preferivano al caffè.
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, quercia, faggio, olmo, spinobianco, alloro, sambuco ecc. Del resto molte piante danno foglie che possono surrogare benissimo il tè. A Sumatra si
L'Uva è il frutto della vitis fructifera, frutice perenne arrampicante, che può elevarsi a grande altezza e sostenersi, a foglia caduca, indigeno, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non matura bene al di là del 47° grado di latitudine, e la bianca del 49°, nè si eleva oltre i 600 metri. Vuole esposizione meridiana, teme l'umido soverchio, i continui venti, il freddo e le brine. Ama terreno sciolto calcareo argilloso, il terziario. Si propaga per seme, margotte, innesto, ma più comunemente per gemme. Numerose le sue varietà, essendo coltivata da molto tempo ed in condizioni svariatissime, onde si possono delineare i suoi frutti in uve bianche e nere, a sapore semplice e a sapore profumato, infine in uve da tavola e uve da vino. La vite dopo 40 anni comincia a deperire. Fiorisce in Maggio e matura a seconda della qualità e particolari condizioni da Agosto ad Ottobre. Si coglie a maturanza perfetta e perfettamente asciutta tanto per mangiarla, allo stato fresco, come per conservarla o farne vino. I più antichi botanici pretendevano che la vite fosse originaria dall'Asia, che i Fenicj l'avessero importata nelle Isole dell'Arcipelago, i Greci in Italia, i Francesi nelle Gallie, ecc. Ma il trovarla anche fra noi spontanea ed incolta nei boschi, fa perdere la fede a quel blasone di esotica nobiltà. Il nome vite vuolsi da parola celtica che significa albero, ma meglio lo si deriva dal latino vis, forza. Nel linguaggio delle piante significa: Ubbriachezza. Uva, viene da uvidus, pieno, pingue. L'uva, dice. Il Mantegazza, è frutto allegro, dolce, bello, galantuomo, rinfresca e nutrisce, l'uva è il più utile e proficuo dei frutti. Oltre il principale uso che si fà dell'uva — il vino, del quale dirò negli anni venturi, essa si mangia allo stato fresco, allegra la tavola, serve al cuoco nella cucina, al pasticciere per la credenza e la dispensa. I fiori ànno una fragranza gratissima, che ricorda quella del miglionetto, servono ad aromatizzare vini e liquori. Il succo dell'uva acerba, detto dai latini omphacium, e da noi agresto, esprime già col nome il suo sapore stittico. In sostituzione di agrumi e di aceto, lo si adopera a far salse, bevande rinfrescanti, e sciroppi in farmacia. Dai semi se ne cava un olio grasso di colore giallo verdognolo, di sapore spiacevole, che arde con fiamma brillante, senza molto fumo. Un ettolitro di semi può dare in media 8 kil. di olio. Si fa pure un rob o sciroppo d'uva, che i Romani chiamavano sapa, che si ottiene riducendo il mosto a due terzi od a metà mediante lenta ebollizione ed evaporazione. Distillando il vino e le vinaccie si ottiene, prima impuro, poi, con nove ripetute distillazioni, rettificato e purissimo l'alcool. Il primo risultato dà l'acquavite, il secondo lo spirito di vino. Il vino pure è suscettibile di una fermentazione acida, che lo converte in aceto — il tipo più galantuomo degli aceti e dei quali dirò pure negli anni venturi. L'uva matura è il più salubre dei frutti e se ne può mangiare e rimangiare senza pericolo, producendo tutt'al più un po' di mossa di corpo. I medici consigliano la cura dell'uva, e questa cura la chiamano ampeloterapia (dal greco ampelos, vite, e therapeyo, servire), che consiste nell'uso dietetico, sistematico dell'uva come alimento principale, per un tempo prolungato, onde possa produrre salutari modificazioni nell'organismo. Essa ingrassa, è sostanza nutriente, riconfortante nell'atonia-languore del ventricolo, nella gastrorrea, conviene nella plettorea addominale, calma l'irritazione degli organi respiratori, mitiga la tosse, facilita l'espettorazione ed è indicata nella tubercolosi. La cura dell'uva si schiera più simpatica, e fors'anche più sicura a fianco di quelle delle tante aque minerali, del siero e dell'olio di fegato di merluzzo.
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si deriva dal latino vis, forza. Nel linguaggio delle piante significa: Ubbriachezza. Uva, viene da uvidus, pieno, pingue. L'uva, dice. Il Mantegazza
La Vaniglia, o Vainiglia, è il frutto di parecchie specie del genere vanilla, piante erbacee ed arrampicanti, originarie delle regioni calde dell'America e segnatamente del Messico, e dell'Asia. La sua fecondazione la si deve a degli insetti. À fiori bianchi screziati di rosso giallo. Se ne conoscono quattro varietà: la planifolia di cui la migliore, cresce nelle regioni calde ed umide del Messico, della Colombia e della Guajana, coltivasi nelle Antille. La gujanensis di Surinam. La palmarum di Bahia, fornisce qualità inferiori. La pompona, il vaniglione di odor forte, ma non balsamico che ricorda quello dei fiori della vaniglia dei giardini, (Heliotropium peruvianum), viene dalle Antille, à siliqua grossa e corta, è la più scadente. Queste piante, grosse come un dito s'avvolgono al tronco degli alberi come la vitalba, il convolvolo e l'edera e s'innalzano a grandi altezze. Il frutto della vaniglia, chiamato guscio, è una capsula carnosa, lunga 14-15 centim. in forma di siliqua. La sua superficie dapprima verde, poi colorata in bruno rossastro molto intenso, è dotata d'una lucentezza grassa. Contiene una quantità di semi, estremamente piccoli, globulari, lisci, duri, neri e contenenti un succo denso e bruniccio, che maturi danno una fragranza squisitissima. La miglior vaniglia è quella del Messico, le cui capsule ànno qualche volta la lunghezza di 22 centimetri. Epidendrum dal greco Epi, sopra e dondron, albero, cioè che corre sopra l'albero. Il nome di vaniglia dallo spagnolo vajnilla, piccola guaina. Nel linguaggio delle piante: Soavità. La vaniglia è uno degli aromi meno irritanti, e dei più delicati ed importanti della cucina ghiotta — dà sapore alle carni, a tutti gli intingoli nei quali è introdotta — e serve principalmente per le cose di latte col quale si marita benissimo, per dare aroma al cacao e farne cioccolatta — per sorbetti, liquori, paste. Dà profumo pure ai saponi, entra in molte aque odorifere per esempio l'aqua di Cipro. In Europa si coltiva, da tempo, la varietà planifolia, nelle serre di Liege, nel Giardino delle Piante a Parigi, e di Hillfield House, rigate dopo che Morren nel 1857 à mostrato che si poteva fecondare artificialmente. Da quest'epoca la fecondazione e la produzione delle capsule si ottengono in tutti i paesi tropicali, e i frutti della vaniglia europea non la cedono nel profumo a quelli del Messico. La vaniglia, fu introdotta in Europa dagli Spagnuoli dopo la scoperta dell'America. Gli indiani chiamano arris arack, il liquore d'anice aromatizzato colla vaniglia. Per conservare la vaniglia la si chiude in una bottiglia di vetro, o in un cannoncino di latta, cosparsa di zuccaro. In tal modo si ottiene lo zuccaro vanigliato che serve comunemente in cucina ed in pasticceria. Si falsifica la vaniglia, colle vaniglie alterate, o raccolte troppo tardi, o esaurite coll'alcool e restaurate col balsamo peruviano o del Tolù — colla mescolanza di qualità inferiori, quali il vaniglione. Un guscio sano e buono di vaniglia, deve offrire intatta l'estremità ad uncino. La vaniglia in polvere è più soggetta ancora a falsificazione.
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La Vaniglia, o Vainiglia, è il frutto di parecchie specie del genere vanilla, piante erbacee ed arrampicanti, originarie delle regioni calde dell
La canna vera dello Zuccaro è pianta gramignacea perenne, originaria delle Indie, dove è spontanea nei luoghi innondati e dove si coltiva ancora. Somiglia alle nostre canne, si alza portando una pannocchia setacea che dà fiori. Esternamente è verdiccia, articolata, interiormente bianca e ripiena di una mollica simile a quella del sambuco, pregna d'un sugo dolce, piacevole. À foglie strette, striate, verdi, che serve ad alimento delle bestie. La piantagione si fa per barbocchi da Marzo a tutto Aprile. Può essere coltivata in tutti i paesi caldissimi. Da noi è da serra. È matura quando diventa gialla, il midollo si è fatto bigio scuro e il sugo viscoso e dolcissimo. La parola zuccaro dal greco sacchar, zuccaro. Nel linguaggio delle piante: Dolcezza. La canna dello zuccaro, matura, si taglia al piede, se ne tronca la pannocchia, si sfoglia, si porta al mulino, che la schiaccia fra tre cilindri. Se ne raccoglie il sugo entro una caldaja sottoposta e tal sugo è chiamato dai negri vezù o vino di canna. Presto fermenta e perciò è necessario cocerlo prontamente, e depurarlo con un processo di evaporazione e filtrazione sinchè è ridotto allo stato di sciroppo d'onde il melazzo, o melassa. Gli zuccari della seconda e terza cristallizzazione sono sempre più grassi ed oscuri e passano sotto il nome di mascabadi. Quelli d'Avana che sono i migliori si chiamano terzieri o biondi. Lo zuccaro benchè di prima estrazione, bianchissimo ed asciutto, contiene impurità e vuol essere raffinato. Questa depurazione si fa nelle grandi raffinerie da dove sortono in pani. La bianchezza e solidità estrema dello zuccaro in pani dipende non solo dalla qualità degli zuccari che si adoperano, ma ancora dall'esito felice dell'operazione e dell'espertezza dell'operatore. Se i pani riescono friabili o macchiati qua e là, o troppo oscuri, e quindi da scarto, allora si pestano ed entrano in commercio sotto la denominazione di zuccaro raffinato in polvere, ossia pilè. Lo zuccaro raffinato in pane è bianchissimo, senza macchie, compatto, duro, sonoro — percosso con un ferro nell'oscurità tramanda della luce, la sua cristallizzazione è minutissima, serrata, e lucida, non à odore, è dolcissimo. Se si tiene in bocca diventa poroso e non si scioglie uniformemente. Cristallizzato lo zuccaro in forma cubica con altro processo di evaporazione si vende sotto il nome di zuccaro candito. Questo è sempre più o meno colorato, tramanda molta luce percosso nell'oscurità, è assai dolce, e si scioglie in bocca uniformemente come le caramelle. La melassa in America ed altrove si adopera per la fabbricazione del rhum e nel Brasile la impiegano per la concia del tabacco. Per ottenere il rhum si fa fermentare la melassa entro grandi vasi di terra, sepolti nel terreno fino all'orifizio, e ricoperti di paglia. Compiuta la fermentazione si passa alla distillazione.
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gialla, il midollo si è fatto bigio scuro e il sugo viscoso e dolcissimo. La parola zuccaro dal greco sacchar, zuccaro. Nel linguaggio delle piante
Nè lo zuccaro s'estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo Io zuccaro di barbabietola (1), di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di molte piante, nelle radici, nei frutti, e persino nelle carni d'animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno intenso di dolcezza, perchè da qualunque origine pervenga, quando è puro, è sempre la stessa cosa e non avvi differenza tra zuccaro e zuccaro. La scoperta dello zuccaro di barbabietola è dovuta al tedesco Margraff — il primo ad estrarlo in grande fu Achard di Berlino. Il metodo per ricavarlo, dopo ripetute esperienze, è stato perfezionato in Francia. Non si riduce che con estrema difficoltà alla bianchezza, asciuttezza, e cristallizzazione di quello di canna. Anche da noi abbiamo tali fabbriche. Quello di castagne è di una cristallizzazione assai minuta, è molle, biondo, dolcissimo con legger sapore di castagna: si può ridurlo in pani. Lo zuccaro di latte si fabbrica in grande nella Svizzera, è bianchissimo, cristallizzato in piccoli cubi, poco solubile nell'aqua fredda, solubilissimo nella calda, di sapore dolciastro, senza odore quando è ben puro. Si adopera come alimento e come medicamento. Lo zuccaro d'uva, non à forma regolare, è in piccoli tubercoletti, in bocca produce prima una sensazione di fresco indi un sapor zuccherino debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante commercio in Europa al tempo del famoso blocco di Napoleone. Oggi quello solo di barbabietola à larga parte in commercio. Lo zuccaro si adultera con spato pesante, gesso, creta, farina, destrina, ma queste frodi sono possibili solo collo zuccaro in polvere od in pezzi (pilè), e si devono in generale attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto tali materie si tradiscono facilmente perchè sono insolubili. Aquistate il vostro zuccaro in pani, o madri di famiglia, perchè in pani, la frode è quasi incompatibile colle singole e molteplici operazioni di quest'industria. Lo zuccaro si sofistica pure col glucosio. Il glucosio è altra delle varietà di zuccaro e si prepara generalmente trattando l'amido, o fecola di patate con acido solforico o cloridico. Quando è chimicamente puro, cioè affatto esente da sostanze eterogenee, non presenta altra differenza dello zuccaro di canna se non che nella sua virtù dolcificante — la quale sarebbe un terzo appena. Ma raramente il glucosio è purissimo, e spesso lo si trova nello zuccaro grasso a cui si ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole — attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col glucosio è fatta su una scala enorme in America.
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di molte piante, nelle radici, nei frutti, e persino nelle carni d'animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno
Pianta di circa 15 piedi d'altezza, sempre verde, dell'America tropicale, somiglia il limone. Dà fiori piccoli, giallognoli. Si coltiva come il caffè. Nel linguaggio delle piante: Salute. I frutti bislunghi di questa pianta, simili a piccoli citrioli, racchiudono in una poltiglia agro dolce molti semi bianchi (fino a 40) a foggia di mandorle. Questi semi o grani, divenuti di color bruno, grazie ad una specie di fermentazione, sono quelli che in commercio vengono sotto il nome di grani, semi o fave di cacao, e che torrefatti od abbrustoliti convenientemente si mangiano e servono a preparare confetture e misti collo zuccaro e droghe, massime vaniglia e canella, servono pure alla fabbricazione della Cioccolatta. I grani del cacao si raccolgono a perfetta maturanza in Giugno e Dicembre, e in tale stato la polpa che avviluppa i semi è morbida, acidetta, piacevole, molto rinfrescante e salubre, che gli indigeni trasformano in liquore vinoso, bevanda graditissima. Anche nel Nord della Francia, nel Belgio ed in Olanda colle corteccie del cacao si prepara una bibita salubre e piacente. Gli involucri e i germi si utilizzano dagli indigeni per nutrizione dei montoni e come ingrasso. Inoltre dalle sementi si cava un olio che ha la consistenza del burro e si chiama burro di cacao, che è un eccellente cosmetico. Si amministra internamente negli organi della digestione, respirazione e dell'apparato orinario, esternamente nell'intestino retto, per stitichezza, emorroidi, screpolature delle labbra, mammelle, ecc. e viene spesso falsificato con sego, midollo, e cera. Del Theobroma se ne conoscono da 15 a 18 specie, delle quali le principali sono: la Bicolor, la Guajanense, la Cacao e la Speciosum. Dalla Cacao e Guajanense se ne cava il cacao del commercio. Le regioni che danno il cacao migliore sono Soconusco nel Messico, i cui grani di scarto servivono per moneta, ed Esmeralda nella Republica dell'Equatore, ma difficilmente quel cacao arriva fino a noi. Dopo viene il Caracca, delle Antille, S. Domingo, Giammaica. Nel 1518 all'epoca della conquista del Messico il cacao era la principale alimentazione del popolo Messicano. Il suo nome di Theobroma dal greco — da Theos, Dio, e da broo per brosco, mangiare — Cibo divino. Fu Linneo che lo chiamò così — alcuni dicono per la sua passione alla cioccolatta, altri per deferenza al suo confessore, altri ancora per galanteria, essendo stata una regina, Anna d'Austria, che per la prima l'introdusse in Francia.
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. Nel linguaggio delle piante: Salute. I frutti bislunghi di questa pianta, simili a piccoli citrioli, racchiudono in una poltiglia agro dolce molti
La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in Luglio ed Agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi. che sono quelli che tostiamo e che ci danno la deliziosa bevanda del caffè. Questi semi quando sono verdi e maturi sono circondati da una polpa dolcigna bona a mangiarsi. Si propaga per seme. Da noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla differenza specifica, ma dalla provenienza commerciale e geografica. Generalmente tutte queste varietà si riferiscono a tre tipi: Moka, Borbone e Martinica, che da noi è sostituito col Porto Rico. Il migliore caffè è quello che proviene dalla sua patria primitiva, ma rarissimamente giunge in Europa. Il Moka, o Levante (dal nome del suo antico porto di esportazione) è un prodotto del Yemen montuoso, il suo odore ricorda quello del tè e questo pure rarissimamente ci perviene. E consumato quasi interamente in Turchia, in Asia, in Persia ed in Egitto. Quello che perviene a noi sotto il nome di Moka, è Moka di Zanzibar, di Aden e di Giava a piccoli grani, accuratamente scelto.
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noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla
La Canella appartiene alla famiglia dei Lauri, è un albero sempre verde, ramosissimo (s'alza fino a 10 metri) del Ceylan, Borneo, Malabar e Martinica. È detta canella, quasi canna, del suo accartocciamento. Vien però chiamata Cinnamomo e Cinamo, che vuol dire legno odoroso. Quella del Malabar chiamasi pure Laurus cassia. La sua scorz o corteccia, privata di epidermide e di sottostante tessuto è la droga da noi conosciuta sotto il nome di canella, che verde sopra l'albero, diventa bruno- rossa essicando. À un odore aromatico, grato, penetrante, sapore caldo, piccante, zuccherino. Dà fiori in Gennajo piccoli, numerosi, profumati, biancastri in pannocchia terminale. Si moltiplica per margote e da noi è vegetazione di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e delle piante, significa: Adorazione. I giardini o boschetti di canella somigliano i nostri boschi cedui. Nel Ceylan la raccolta ascende a 150 kil. ogni anno. La canella del Ceylan, i cui principi attivi sono solubili nell'aqua e nell'alcool, è giornalmente impiegata nella medicina, nella farmacia e nell'economia domestica. Nella medicina si associa utilmente alla china, all'assenzio, ecc., nella debolezza di stomaco, nelle diarree croniche, nell'ultimo periodo delle febbri atassiche o di tifo, nella salivazione spontanea, ecc. I farmacisti apprestano con essa gran numero di preparazioni, un decotto, uno sciroppo, una tintura, un'aqua distillata, ecc. di uso assai frequente, e bene spesso per coprire l'odore ed il sapore disaggradevole di altri farmachi. Tutti conoscono l'uso che ne fanno i profumieri, distillatori, caffettieri, ed i cuochi nel loro laboratorio gastronomico. La canella è droga che si unisce a molti manicaretti, sì di carne che di verdura e frutta. È eccitante, tonica, cordiale. In commercio generalmente si trova quella della China, di Sumatra, di Cajenna, e del Malabar, ma quella del Ceylan, (di colore cedrino-biondo, corteccia sottile, ravvolta in sè) detta anche della Regina, è la più apprezzata di tutte. Si falsifica mescolandola con qualità inferiori, o con false canelle, o vendendola già spoglia del suo aroma. Frodi più gravi si fanno colla canella in polvere, con farine, polvere d'altri legni, mattoni pesti, ocre, sabbia, ecc. Dalla canella si ricava un olio volatile, aromatico, che serve per liquori e confetture. Dai fiori pure e dalle foglie si estrae un'aqua spiritosa. Col nome di Cinnamomum, fu conosciuta dagli antichi ed era fra le altre droghe, articolo di commercio ricercato e prezioso. Tutti gli autori ne fanno menzione. Salomone parlando alla sposa, nei Sacri Cantici, le dice: Emissiones tuœ….. cinnamomum cum universis lignis Libani. Cap. IV, 14. — Plinio, dice che à ogni sua ricchezza nella corteccia «Omnem in cortice dotem habens. » Fu sempre ritenuto come un eccitante e riscaldante. S'adoperava per fare l'ippocrasso, detto quindi Cinamomites che è il nostro vin brulè. Si credeva corroborasse il cervello e giovasse alla vista. Gli Arabi la chiamano Querfe, i Persiani, Darsini. Gli Indiani ne usavano i rami a far corone per i vincitori. Lodovico Romano nel Libro VI Delle Navigazioni al cap. 4 dice che nell'Isola di Ceylan, patria originaria della Canella è credenza che «il Santo Adamo dopo del peccato commesso havere ivi col pianto et con l'astinenza, ricomperata la colpa, la qual cosa affermano con tale congettura che ivi si veggono ancora le vestigia dei piedi suoi di lunghezza di più di due palmi. » Il che si può credere pensando che da Adamo in poi l'umanità à sempre deperito.
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linguaggio dei fiori e delle piante, significa: Adorazione. I giardini o boschetti di canella somigliano i nostri boschi cedui. Nel Ceylan la raccolta ascende
Il Castagno è un albero a foglia caduca, indigeno, dall'Europa meridionale. Ama terreno sabbioso, argilloso non adombrato da altri alberi, e più d'ogni altro il montuoso. Non viene a più di 800 metri al disopra del livello del mare. Fiorisce in Luglio, dà frutti in Ottobre e per loro teme il freddo. Si propaga per semina, avendo cura di immergere prima il seme per 12 ore nell'aqua satura di fuliggine e noce vomica, o in olio bollito con aglio, acciò ri- mangano illese dagli animaletti. Nel linguaggio dei fiori: Sii giusto verso di me! Le varietà principali il Castagno propriamente detto, che fiorisce precocemente, il cui raccolto è quindi dubbio e dà un frutto piuttosto piccolo e poco saporito, ed il marrone che è più grosso, più saporito e nutriente. Il marrone si propaga per innesto sopra il castagno, perchè il marrone seminato produce nuovamente il castagno. Il castagno comincia a fruttificare cinque anni dopo l'innesto, e verso il 60° dà il massimo prodotto. Le piante non innestate, ritardano e sono meno produttive. A 150 anni comincia a deperire e raggiunge i 3-4 secoli. Il raccolto si fà quando alcuni pericarpi cominciano ad aprirsi, un ettolitro di castagne pesa 80 kilogrammi. La castagna fresca contiene 48 % d'aqua e 0,52 d'azoto — il marrone fresco, 54 d'acqua, e 0,53 d'azoto. — La castagna secca, contiene ancora dal 10 al 12 d'aqua, e 0,77 d'azoto ed il marrone secco contiene 1,17 ° d'azoto. Si conserva la castagna nel proprio involucro in locali asciutti e ventilati o dissecandola pei graticci. Le castagne messe sui mattoni delle camere, marciscono presto e sono preda degli insetti. Si conservano più a lungo e saporite facendole prima essicare alcun poco al sole. Il castagno dell'Etna avrebbe secondo alcuni 59 m. di circonferenza. La castagna, il qual nome si vuole venuto da Castano Magnesia, città della Macedonia è la sposa del focolare, la ghiottoneria dei fanciulli, la Dea delle chiacchere e delle mormorazioni, l'amica del vino generoso e nuovo, ed è maritata in nozze morganatiche al Dio Eolo. È eminentemente farinosa, dà una sana ed abbondante nutrizione. La lessata è più digeribile, irroratela di vino generoso se non confà al vostro stomaco non ditene male. Mille le maniere di far cocere le castagne. A lesso dette succiole o Ballotte, cotte in poc' aqua sale, finocchio, anice, o con una pianta di sedano. Lessate monde (peladei o pest) sbucciate e cotte con o senza la loro peluria in aqua, sale ed erba bona. Anseri o Vecchioni (Bellegott) quando cotte a lesso, si fanno dissecare al fumo nel serbatojo, sotto la cappa del camino (agraa). Il nome di Bellegott viene da bei e cott, (belli e cotti) Bruciate (Borœul) cotte nella padella a fiamma. Biscotti (Bescott) varietà dei Vecchioni, si mettono a seccare col guscio e poi si tengono alcun tempo nel mosto. A questi appartengano i cuni, da Cuneo, loro provenienza, cotte in forno spruzzate di vin bianco serbevoli per molti mesi, delicatissime. Le Veronesi (Veronès) così dette perchè tale maniera di cocerle, ci venne dal Veronese — e si cociono nel forno o nella stufa spruzzate di vino, o con poco burro in casserola. I marroni si fanno anche candire nello zuccaro dopo essere stati arrostiti e si chiamano marron glacès è confettura da dessert. La castagna forma l'alimento principale dei montanari. Nel Sienese se ne fa polenta, che nutrisce i più strenui faticatori, i quali non avendo che aqua da bere dicono scherzando che vivono: del pane dei boschi e del vino delle nuvole. Il Castagnaccio è una specie di pane fatto con farina di castagna, pinocchi ed uva. Fino dalla più remota epoca le castagne tennero il primato fra tutte le sorte di ghiande. Ateo, insigne medico di Antiochia, che le chiama Sardinias glandes, perchè le migliori qualità venivano dalla Sardegna, non si perita a rilasciar loro il brevetto di alimentum effatu dignum — cibo di straordinaria celebrità — ma, soggiunge che va alla testa — caput tamen tentare. Bello! quelle castagne che vanno alla testa... invece. Galeno, si capisce che non poteva digerirle e ne dice corna: Gastanœ sive elixentur, sive œstuantur, sine denique frigantur, semper sunt pravœ. Il che vuol dire comunque le ammaniate, sono porcherie. Plinio invece di visceri a prova di bomba, dopo aver detto che dai Greci i marroni erano chiamati Balani Sardi (da Balanos, ghianda) testifica che sono eccellentissime: — castanearum genere excellens; e che celerius transmittuntur che è quanto, di facilissima evacuazione. Virgilio, più sibarita, le mangiava col latte: Castanœ molles, et pressi copia lactis (Egl. 2). Tiberio adoperava la parola balanum per indicare i vegetali più saporiti. Anche i Romani adoperavano la castagna per farne la farina e pane, come si fa ancora oggidì presso alcune popolazioni. La castagna è da fuggirsi da chi patisce il mal di pietra, soffra di ernie o vada soggetto a coliche. Francesco Gallina, medico Piemontese, forse da Cuneo che fioriva all'alba del secolo XVII raccomanda di mangiare le più grosse, — perchè sono migliori di tutti li marroni, e se per lungo tempo si conservano si fanno più saporiti. E suggerisce alle ragazze bionde, di adoperare il decotto delle loro buccie per conservare il dorato dei loro capelli. È voce di scienza popolare, che mangiando le castagne crude, si popoli la capigliatura di cavalieri erranti. Raccolgo per ultimo la spiegazione chi mi fu data da un R. Padre Oblato di S. Sepolcro a Milano sulla espressione: far marrone. Egli dunque mi diceva, che viene da questo, che chi mangia i marroni difficilmente lo può nascondere e ne è quasi sempre sorpreso. Tutto per quello scandaloso matrimonio col Dio Eolo.
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fruttificare cinque anni dopo l'innesto, e verso il 60° dà il massimo prodotto. Le piante non innestate, ritardano e sono meno produttive. A 150 anni
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color giallo-verdognolo, à scorza spessa aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello scharlotte, e al confetturiere per regolarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica antispasmodica e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a far emulsioni amare. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio, che serviva a preservare dalla carie e dalle tignuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: «Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur, (Trist. 1).» Del resto la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro
Albero indigeno dell'Europa Meridionale, a foglia caduca, originario dall'Egitto. Dà fiori rosei in Aprile, frutti in Maggio e Giugno. Si moltiplica per semi, margotte, divisioni, innesto. Nel linguaggio dei fiori e piante: Promessa. Due le sue varietà principali: La ciliegia, propriamente detta, col picciolo piuttosto lungo, polpa consistente e dolce — della quale la varietà a pasta soda, più grossa delle ordinarie, la duracina, che a Firenze è chiamata Ciliegia Pistojese, da noi, Galfion, nome pervenutoci dalla Svizzera Francese, dove si chiama pure Galfions. I francesi la chiamano Bigarreaux.
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per semi, margotte, divisioni, innesto. Nel linguaggio dei fiori e piante: Promessa. Due le sue varietà principali: La ciliegia, propriamente detta
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della Palma orientale, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America Meridionale e di molte parti dell'Africa. E diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 kilog. di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche o frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale.
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Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche o
Il Fico è albero a foglie caduche, che cresce spontaneo nel mezzodì d' Europa. Viene in tutti i terreni, desidera posizioni calde, soleggiate, asciutte, difese dai venti, teme sopratutto i balzi di temperatura. Si propaga per margotte, polloni, tallee. Non ama essere tagliato, perchè avendo tessuto a fibre rade, facilmente ne soffre per l'aqua che vi può penetrare, e quando è necessario bisogna ricoprire il taglio con mastice, catrame, ecc. Comincia a dar frutto il 3° anno. Se ne conoscono 62 varietà — tra le quali alcune non mangiabili e velenose. Il nome di Fico dal greco phyo, produrre; a cagione della sua fecondità e nei linguaggio delle piante significa pure: Fecondità. I fichi primaticci sono chiamati fioroni, e sono i frutti, il cui germe era già sul ramo nell'autunno precedente. Maturano in Luglio e sono meno saporiti dei tardivi ed autunnali. Tranne un gran gelo, il fico dà un prodotto quasi sicuro. In Italia e negli altri paesi meridionali dà un frutto che è un vero sciroppo fisso e profumato. Per farlo essicare, scegliere le varietà precoci. L'essicamento al forno lo rende meno bello e meno saporito. Il fico frutto, contiene il 65 % d'aqua. Nell'Africa e nel Levante vi sono piante che danno fino a 300 kilog. di fichi. In China è chiamato cheu-dze, fresco à il colore dell'arancio, secco prende la forma rotonda e s'infila come da noi il rosario, si conserva dolcissimo e prezioso per i viaggi. I rami teneri del fico e le sue foglie staccate dalla pianta, come pure il gambo del frutto immaturo al luogo della rottura tramandano un sugo bianco lattiginoso che è alquanto corrosivo, e serve a cagliare il latte, e come rimedio volgare a guarire i porri sulla pelle. Il legno del fico è assai leggero e s'adopera per certe particolari industrie. Le foglie rigide e di un verde carico, sono adatte a pulire i vetri ed i cristalli. La decozione di dette foglie ridona il colore alle stoffe di lana, scolorate per lavature. Il Sicomoro sul quale è salito il piccolo Zaccheo, per vedere Gesù, è la varietà, fico moro, o fico d'Egitto e di Faraone. È altissimo, cresce a Rodi, nella Siria ed in Egitto dove è indigeno. Dà frutti dolciastri tre o quattro volte l'anno. Il Fico si mangia fresco ed essicato ed è sempre cibo nutriente, sano e pettorale. Sono celebri quelli di Calabria, Sicilia e Smirne. Si usa mangiarlo col prosciutto, col salame. Se ne fa ghiotta frittura, imboraggiandoli sbucciati, con ova e pane. Se ne fa perfino salame. La buccia è indigesta onde il proverbio: All'amico pela il fico e la persica al nemico. Frate Ambrogio da Cremona asseriva che perchè il fico sia meritevole da portarsi in tavola dev'essere perfetto, cioè deve avere il collo torto, l'abito stracciato e l'occhio lagrimoso. Per la colazione sceglieva quelli che la mattina per tempo trovava bucati dagli uccelli. Forse da lui quel proverbio: Il fico vuol avere collo da impiccato e camicia di furfante, che nel nostro dialetto suona così: El figh per vess bell el dev vess lung de coli e rott de pell. L'abuso anticamente si credeva non solo regalasse coliche, ma provocasse sudori e generasse pidocchi, rogna ed altre sordidezze. La Scuola Salernitana ne canta le lodi così: Scropha, tumor, glandes ficus cataplasmate cedunt, Iunge papaver ei, confracta foris trahit ossa. Tutti gli scrittori greci ebbero pure lodi per il fico. Era tradizione che fosse la passione di Ercole. Platone era sopranominato l'amante delle uve e dei fichi. Galeno che non mangiava frutto alcuno aveva delle tenerezze pel fico per l'uva, che chiamava meno inutili, e ne proclama le virtù tra le quali vocis splendorem facere, però soggiunge che fa venire la pancia obesa e cita ad esempio i custodi delle vigne, gli ortolani — onde forse l'altro proverbio: salvare la pancia per i fichi. Gli Ateniesi ne tenevano sacra la pianta che fu loro portata da Naxio Dionisio. Filippo, padre di Perseo in Asia cibò il suo esercito coi fichi e Plinio difatti racconta che in molti luoghi il fico teneva luogo di pane. In Sicilia fu portato da Titano Oxilon figlio di Osio. Dai Greci si mangiavano pure in insalata e il volgo li faceva essicare salati al sole. I Persiani ed i Greci erano ghiottissimi del fico secco. Lo cocevano colla maggiorana, l'issapo ed il pepe, e lo davano anche ai malati. Gli atleti si rinvigorivano coi fichi a prepararsi alla lotta. Si vuole che Mitridate a sicurezza del veleno che prendeva, mangiasse fichi secchi con ruta e sale quale antidoto. Se ne faceva pure un liquore vinoso che chiamavano Sycites o catorchites. Fu sotto il fico che furono trovati i due fondatori di Roma mentre erano allattati dalla lupa - che dal nome del fico, Ruminal, presero il nome di Romolo e Remo.
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cagione della sua fecondità e nei linguaggio delle piante significa pure: Fecondità. I fichi primaticci sono chiamati fioroni, e sono i frutti, il cui
Questo non è il fiore dei nostri giardini, il garofano diantus, ma un- grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque, e fatto indigeno nelle Indie Orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco, carion noce e phyllon foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i frutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da Settembre a Febbrajo, si fanno essicare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio, si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar da dove ne vengono importati in Europa circa 30,000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere, sotto la pressione dell'unghia. Si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella Cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi li condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante, i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione, e Plinio al 12° lib. c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al 6° lib.
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secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco, carion noce e phyllon foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
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dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico
Il Giuggiolo è un arboscello a foglia caduca, che diventa anche albero ramoso, spinosissimo. Vuole esposizione soleggiata e difesa, terreno buono, teme l'umidità, resiste al freddo. Si propaga per polloni, per innesto, vegeta lentamente. Mette le foglie ultimo di tutti, fiori piccoli, gialli, solitari, in Giugno, frutti o bache rosse della forma e grossezza dell'oliva, matura a tardo autunno. Conta alcune varietà. È originario della Siria, si rinviene anche spontaneo nelle siepi delle montagne calcaree di Val di Noto. Nel linguaggio delle piante: Sollievo. Il frutto, benchè più apprezzato della Lazzeruola, è poco utile, perchè da noi non matura abbastanza e però si mangia appassito. Il legno, assai duro, serve all'ebanista, al tornitore e piglia bon pulimento. Sesto Papinio, console sotto Augusto, fu quello che primo lo portò in Italia dall'Africa. Plinio lo chiama jujubas. La giuggiola è digeribile e può conservarsi secca. Se ne fanno decotti soavi e paste pettorali, ma questa è arte superiore. Il popolo che la vede e la mangia quasi sempre immatura dice per ironia: andare in brodo di giuggiole.
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rinviene anche spontaneo nelle siepi delle montagne calcaree di Val di Noto. Nel linguaggio delle piante: Sollievo. Il frutto, benchè più apprezzato
Il Lauro, o Alloro è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica — e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie ànno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d' animale. Sopra le foglie d' alloro si pone la cotognata, ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali si stramezza. Il decotto d'alloro sparso in terra scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, ànno odore forte, piacevole, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara, sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmenagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flattulenze intestinali, i catarri cronici, la paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche, grossolanamente se ne fà un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che ànno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafne, una crestaina di quei tempi essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi non potendo far altro la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro — se abbruciando strepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno! Per cui Tibullo (lib. 2. Eleg. V) dice: «Laurus ubi bona signa dedit, gaudete coloni. » E Properzio (lib. 2, c. 23) «Et jacet extincto laurus adusta foco.» — Plinio asserisce che il Lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. 15, c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi se ne cinsero i Sommi Poeti ed ahimè! se tornassero tutti quei Sommi, e facessero una capatina alle feste di Natale ed in carnevale da noi, che direbbero vedendo il loro lauro intrecciato alle casseruole di cucina e posto sulle teste dei vitelli, dei majali o steso sopra i loro opulenti jambons?
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'origine del suo nome è celtica — e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie ànno uso speciale nell'igiene alimentare
Il Lazzeruolo o Azzerolo è una pianticella a foglia caduca, originaria dei paesi caldi. Viene in piena terra, ama terreno sciolto, luoghi ombrosi. Si propaga per innesto sul bianco spino o sul nespolo. Molte varietà, fra le quali quelle a frutto giallastro, rosso e bianco. Nel linguaggio dei fiori e delle piante significa: Bacio. I suoi frutti aciduli e poco succosi si raccolgono d'ordinario in Settembre. Sono l'amore dei bambini e delle ragazze — riescono più belli alla vista, che opportuni allo stomaco — diventano migliori alcuni giorni dopo il raccolto. Il suo legno si adopera a far strumenti musicali. Una delle 49 varietà è la Oxyacantha dal greco oxyus acuto, e da acantha spina, che è il bianco spino delle nostre siepi, o Lazzeruolo selvatico. (Mil. Scarrion, lazzarin selvadeg. - Fr. Aubepine. - Ted. Mehldorn. Ing. Eglantine). — È uno dei più cari arbusti che colla candidezza e fragranza de' suoi fiori, ci annuncia il prossimo arrivo della Primavera. Si trova copioso nelle siepi che difende, col viluppo de' suoi rami intricati e coll'arma delle pungenti sue spine.
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e delle piante significa: Bacio. I suoi frutti aciduli e poco succosi si raccolgono d'ordinario in Settembre. Sono l'amore dei bambini e delle ragazze
Dà fiori bianchi, numerosi, odorosi disposti in mazzetti in Aprile, e coccole ranciate in Luglio. Le sue spine in linguaggio delle piante significano: Proibizione, ed i fiorellini: Dolci speranze. Il legno del lazzeruolo, è forte, tenacissimo — viene usato nei lavori di tornio ed anche di scoltura, giacchè si leviga benissimo e tiene con costanza le tinte.
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Dà fiori bianchi, numerosi, odorosi disposti in mazzetti in Aprile, e coccole ranciate in Luglio. Le sue spine in linguaggio delle piante significano
Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno argilloso-calcareo-siliceo, clima dolce. Soffre il freddo e il troppo caldo rende il suo frutto stopposo. Cresce sollecitamente. A 20 anni in Sicilia produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono sempre presente. Il limone vuolsi originario della Persia. Si narra che un re di quel paese ne facesse dono agli Ateniesi, d'onde si sparse poi in Europa. Plinio parla d'un frutto detto Pomo di Media che i greci chiamavano Kitrion. Si vorrebbe che ai tempi di Plinio il limone non fosse ancor portato in Italia, scrivendo egli stesso: Sed nisi apud Medos et in Perside nasci noluit. Abbiamo però Virgilio che ne celebrò le lodi nella 2a Georgica:
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frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono
L'Albicocco è albero originario dell'Armenia, indigeno da noi — à foglia caduca. Ama terreno leggero, fresco, bona esposizione, viene meglio in spalliera. Si moltiplica per semi, deperisce dopo i 20 anni. Fiorisce in Marzo — dà frutti in Giugno e Luglio. Nel linguaggio delle piante significa: Primizia. L'albicocco è selvatico in China e sono usitatissimi i suoi chicchi per ricavarne olio. Se ne contano molte varietà: Le primaticcie sono l'albicocca pesca e la nostrale con nocciolo amaro. Le migliori per grossezza e sapore sono quelle di Nancy. La qualità più grossa di Germania è anche più insipida. L'al- bicocca o meliaca, matura è di una delicatezza superlativa, ma la sua maturanza passa prestissimo. Si mangia fresca o si fa essicare al forno dividendola in due e levandone il nocciolo. Cocendola se ne fà marmellata, gelatina, sciroppo. Celebre la sua confettura di Clermont-Ferrant. Si conserva nell'aquavite, si candisce. Della mandorla dolce se ne fà ingrediente di pasticceria e condimento a leccornerie da dessert.
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spalliera. Si moltiplica per semi, deperisce dopo i 20 anni. Fiorisce in Marzo — dà frutti in Giugno e Luglio. Nel linguaggio delle piante significa
Il Màndorlo è pianta indigena a foglia caduca, originaria dall'Asia e precisamente dalla Siria e Barberia. Climatologicamente occupa il posto tra la vite e l'ulivo. Ama il caldo, terre leggere e calcaree — languisce e more nelle forti. — Si propaga per seme, ed innesto su sè stesso. Nasce spontaneamente nella Sicilia, Spagna, Provenza, a Tripoli e Marocco, vegeta con prosperità sulle riviere di Genova. Fiorisce in Marzo ed Aprile, teme le brine ed il freddo. Se ne contano 9 varietà. La migliore è il màndorlo fino o princesse, il cui guscio si rompe colle dita. Alcune di queste varietà ànno frutto dolce, altre amaro, ma dall'albero mal si distingue il sapore del frutto. La maturanza si riconosce dall'aprirsi del pericarpo carnoso, il quale serve pel bestiame. Il suo nome dall'ebraico suo appellativo che significa vigilante, perchè è il primo albero che si risveglia, e perciò in linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui scopo la più ricercata è la qualità detta saccarelle. Si confettano, se ne fanno varie paste dolci, fra cui l'orzata, o semata di màndorle dolci che serve alla preparazione di una notissima bevanda. In Provenza si fanno essicare al forno e sono di un sapore gustoso. Entrano nel torrone, nei biscotti, marzapani, crocanti, ecc., dove si mischiano pure le amare. La màndorla si pela sempre, e se secca, lo si fà facilmente immergendola nell'aqua bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essicati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a lungo la màndorla irrancidisce e per conservarla nella state vuol essere di quando in quando esposta all'aria. Colle màndorle amare si fà una pasta che tiene morbida la pelle delle mani e del viso delle donnine, cosmetici e saponi. Le amare schiacciate o pestate, uccidono il pollame ed i volatili, una volta si credeva fossero antidoto all'ubbriachezza. Plutarco riferisce che il medico di Druso, fratello di Tiberio, tremendo bevitore, gli faceva inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso, le mangiasse per eccitare la sete, dicendo Eupoli, che fanno venir voglia di bere: Da quas manducem Naxias amygdalas, da vinum, quod bibam e vilœ Naxia. Le màndorle migliori sono quelle di Spagna. Le dolci contengono molto olio fisso, 54 %, ed un principio di emulsina molto carico di azoto. La medicina ne prepara un'emulsione, bevanda gradevole sedativa nelle malattie flogistiche. Anche dalle amare si estrae un olio medicinale, che gela difficilmente, ma facilmente irrancidisce, lassativo, temperante nelle tossi, flogosi intestinali, stitichezza, nefrite, renella, serve pure alla confezione di diversi looch kermatizzati, balsamici, anodini. Esternamente l'olio di màndorle giova nelle dermatosi pruriginose, rigidità muscolari e tumori glandulosi. La sede principale del sapore amaro nelle màndorle amare, è nella loro pellicola gialla, che è micidiale alle bestie e possiede anche qualità deleterie per l'uomo, ingesta in dosi maggiori, perchè contiene acido idrocianico, che distrugge rapidamente l'irritabilità e la facoltà sensitiva. Nondimeno, pochissime màndorle amare, corroborano lo stomaco, provocano l'appetito e sono credute vermifughe e febbrifughe. Antidoto contro il loro avvelenamento è l'amoniaca e l'alcool — gli stimoli interni ed esterni. La polpa o pasta e la farina delle amare ridotta a cataplasma giova esternamente nelle nevralgie, coliche, nefrite, ecc. Con tale pasta si toglie pure qualunque ribelle ed inveterato odore ai vasi, sfregandoli internamente. Col guscio secco e sminuzzato delle dolci si confeziona un'emulsione teiforme che oltre al grato sapore, à una fragranza balsamica di violette e di vaniglia. Sull'origine del màndorlo, la tradizione greca racconta che Fillide, figlia di Licurgo, re di Tracia, era promessa a Demofoonte figlio di Teseo. Ma essendo già state fatte le pubblicazioni e vedendo come il suo promesso sposo non compariva, s'impiccò e fu da quei bonissimi Dei cambiata in màndorlo. Demofoonte, che aveva perduta la corsa, venne e versò amare lagrime su quell'albero, e fu sotto la pioggia di quel pianto che il màndorlo cominciò a mettere foglie e frutti — amari dapprima, dolci poi essendosi Demofoonte finalmente consolato. La màndorla da Plinio venne chiamata noce greca. Ma in Italia prima di Catone nessuno ne à parlato, ed ancora lo confusero colle noci. Fu dopo le crociate che la màndorla incominciò ad avere fama e che si trovò di comporne ghiottonerie culinarie. Palladio ci tramanda che i Greci divinando le macchine a vapore del Sonzogno, si servivano della màndorla come mezzo di pubblicazione. Ecco cosa dice: Greci asserunt nasci amygdala scripta, si, aperta testa, nucleum sanum tollas ed in eo quodlibet scribas et iterum luto et porcino stercore involutum reponas. Il che vuol dire, che essi aperta una màndorla vi scrivevano alcun che, e rinchiusala di novo così la seminavano, e le màndorle che faceva quell'albero erano altrettante edizioni di quella scritta. Se non ci credete pigliatevela con Palladio.
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linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui
Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in Giugno e Luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di Settembre, perchè aspettando più tardi la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata e à dato pure il nome al rosso-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato aquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre. Punica sub lento cortice grana rubent, dice Ovidio (Egl. 15). È frutto cercato ghiottamente, dalle signorine e dei ragazzi. Serve al dessert. I grani somigliante ai rubini, nettano i denti e movono l'appetito. Dal succo, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e conserve deliziose, confetture delicatissime, ghiotti giulebbi e gelati. I fiori del melagrano si usavano come astringenti in polvere e decotto — oggi macerati con allume nell'aqua danno un bell'inchiostro rosso, come la buccia, macerata con allume pure lo dà nero. La buccia o pericarpio detta malicorion, ricca di principio amaro, contiene moltissimo tannino e viene utilmente impiegata nella concia delle pelli. A Tunisi serve a tingere in giallo i così detti marocchini. In medicina viene somministrata per uso sì interno che esterno, come astringente e dei più energici. Arago, nella sua Promenade autour du monde, dice, che a Timor si usa nella dissenteria. In Persia al Thibet, nella China, fra gli Arabi ed anche in Russia al dire del Rehmann viene adoperata come succedaneo al chinino. Il seme risulta d'una buccia cartilaginea e di un mandorlo bianco, dolce da cui si può spremere olio. La radice, e precisamente la corteccia della radice, gialla all'interno, bigio-cenericcia all'esterno, à sempre goduto dall'antichità fino a' giorni nostri fama di tenifuga quando è fresca e caccia pure le ascaridi.
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-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
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piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia
Il Nocciolo è arbusto a foglie caduche, che cresce spontaneo nei nostri boschi. Viene in tutti i climi, ama posizione non troppo soleggiata. Teme l'aridità e la tenacità del suolo. Si moltiplica per barbatelle e polloni. Se ne conoscono 7 varietà, le principali; l'avellana propriamente detta, a frutto oblungo accuminato, di sapor dolce, gradevole e ricca d'olio, l'altra la colurna, a frutto più grosso e tondeggiante, di sapore meno marcato e meno ricca d'olio. Nel linguaggio delle piante: Pace, riconciliazione. La maturanza della nocciola è riconoscibile quando l'involucro di essa prende un color giallo. Per conservarla sana per molto tempo si mette nella crusca, o segatura di legno. Per estrarne l'olio non si deve aspettar molto tempo, perchè si guasta presto. Se ne mangia il frutto fresco e secco, che è gustoso, ma indigesto, disturba la digestione, e in quantità ingombra i visceri. E ghiottoneria dei ragazzi, bisogna masticarla bene, e secco è meno digeribile. I confetturieri lo coprono di zuccaro, l'abbrustoliscono. L'olio che se ne estrae è dei migliori — ed è utile per tossi, linimenti, reumi, purghe ecc., ed il tortello residuo serve a fare una pasta preferibile a quella delle mandorle comuni. Il legno pieghevole del nocciolo, somministra ai bottai ottimi cerchi per tinozze e barili, ai canestrai verghette flessibili per mille industriosi ripieghi — abbrucciato dà un foco dolce, carbone per disegno, ed eccellente per fabbricare polvere pirica. In S. Pietro di Roma, i Penitenzieri nelle grandi circostanze di feste, giubilei, indulgenze ecc., danno l'assoluzione ai penitenti inginocchiati davanti al confessionale, toccando loro le spalle con bacchette di nocciolo. La bacchetta di nocciolo, era indispensabile nelle arti divinatorie, era la bacchetta dei maghi — come dopo fu quella dei maestri della dottrina cristiana nelle Chiese, degli elementari nelle scuole, e dei professori di Seminario, tanto che la niscieula è pei milanesi sinonimo di bacchetta. Nè voglio dimenticare i caporali austriaci che prima del 48 la portavano al fianco colla sciabola, e l'adoperavano per il bankheraus, onde: mollaj giò secch comè i niscieur.
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meno ricca d'olio. Nel linguaggio delle piante: Pace, riconciliazione. La maturanza della nocciola è riconoscibile quando l'involucro di essa prende un
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S'addatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire — à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. La parola nux, da dove noce, viene da nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura, rotti i gusci, si torchiano subito perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4, 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarvele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca, che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essicando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert. Pan e nôs, mangia de spôs dice un proverbio. Immatura ed intera, vien confettata collo zuccaro ed il miele e forma uno dei più grati componenti la mostarda. Brillat-Savarin ci racconta che le monache Visitandines di Bellay avaient pour les confire, une recette qui en faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di wermouth, e dietro infusione alcoolica se ne fabbrica un rosolio, o ratafià, che gode meritata fama di stomatico e roborante. Nella Virginia e nella Luigiana coi frutti di quelle noci si confeziona del pane. I Greci Mainotti, le fanno bollire col mosto del vino e ne compongono l'halvez che è uno dei più delicati loro manicaretti. In Francia ne fanno il nouga, espèce de conserve brulèe, avec les noix sèches et pelèe. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina, per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essicativo è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato facilmente annerisce e tinge in nero giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola, in una gentil pelle brunetta » dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare ecc. L'ombra del noce è dannoso alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impregnato di tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse — e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalalgia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza, e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco principalmente presso i nostri fratelli del Cantone Ticino. Dal tronco se ne può cavare con opportune incisioni sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. L'olio è usato come antielmitico, e purgativo internamente, (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidœ. Dioscoride le chiamava biliosœ, tussientibus inimicœ, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est . Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario, della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei Re, e le migliori qualità, le chiama persica, ma secondo una memoria del Dott. Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinœ. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 6.). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la
La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda, ne possedeva 266,000 piante. Si propaga per semi, ed alcune specie di colombe, segnatamente la carpaphora concinna, ànno una parte attiva nella sua disseminazione trangugiando il frutto, ed evacuando il seme che conserva e forse è favorito nella sua facoltà germinativa, dal passaggio per i loro intestini. À fiori piccoli, biancastri, che lasciano il posto a drupe, o frutti carnosi, grosse quanto un'albicocca, che si aprono in due valve, e lasciano vedere un seme ovoidale nerastro, duro, che è la sua vera noce. Essa è circondata da una pellicola o arilla di color rosso arancio, e frangiata quando è recente, ma che diventa gialla colla essicazione ed è ciò che noi denominiamo macis. Nel linguaggio delle piante: Potenza. La raccolta di queste noci si fa in Aprile, Luglio e Novembre, le qualità migliori sono colte a mano quando sono mature. Sul mercato inglese si valutano le noci moscate dalla loro grossezza, quelle che anno circa 2 centim. e mezzo di lunghezza, sopra 2 di larghezza, e dalle quali bastano soltanto quattro a formare un'oncia, sono tenute in alto pregio. Il macis lo si separa dal seme, lo si fa essicare al sole, dopo averlo immerso nell'aqua salata, ciò che gli conserva morbidezza ed impedisce la volatilizzazione del principio aromatico. È d'uso molto frequente in cucina e nella pasticceria. Le noci ispogliate del loro arillode, vengono rapidamente essicate in camere affumicate, sino a che lasciano il loro sottile inviluppo. Così essicate vengono in commercio, subendo però prima ancora un bagno di latte di calce, ciò che in China si omette. Le migliori noci moscate, sono quelle rotonde, pesanti, fresche, odorose, tramandano un sugo oleoso, aromatico, grasso. La noce moscata ed anche il macis contengono olio volatile, nel quale risiede tutta la loro energia, un'olio fisso, una sostanza buttirosa volatile, ed un principio estrattivo solubile nell'alcool molto odoroso ed attivo. Questa sostanza buttirosa che forma circa il quarto del suo peso, è conosciuto sotto il nome di burro di noce moscata. Viene falsificato con miscela di cera gialla, sego e polvere di curcuma. La noce moscata viene essa pure falsificata con quella tarlata dagli insetti, quella vecchia, amuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro di noce moscata. A Marsiglia, certi industriali la preparano con crusca, argilla e detriti di noce moscata, ma nell'aqua si stemperano completamente. Jobard di Bruxelles riferisce, che, or sono una ventina d'anni circa, è arrivato da Canton un bastimento inglese, carico di.... noci moscate di legno bianco, perfettamente modellate ed imitate. La noce moscata è fra gli aromi uno dei più potenti ad eccitare l'inerzia del ventricolo, a dar vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure e d'ova. Entra graticciata non solo in cucina e nella pasticceria, ma nella distilleria, fà parte di varj elisiri, tinture rosolii ecc. Il macis è uno dei componenti l'aceto dei tre ladri. I medici assegnano alla noce moscata virtù toniche ed eccitanti. Se ne adopera l'olio in frizioni delle parti paralizzate. Averroè vuole, che la noce moscata non fosse conosciuta dai Greci e dai Romani. Avicenna antico medico Arabo (n. 980+1037) la conosceva e dice che gli Arabi la chiamavano Jausiband, cioè noce bandese, e doveva essere noto anche agli antichi Egizi, perchè ne abbiamo trovati alcuni frammenti nelle loro mummie e si crede fosse ingrediente dei loro balsami a conservare i cadaveri. Serapione, nel 2º libro dei semplici, la descrive appoggiato all'autorità dei Greci. Galeno la chiama crisobalano.
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nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda, ne possedeva 266,000 piante. Si propaga per semi, ed alcune specie di
L'Olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il 150 anno di vita, e aumenta fino ai 50 — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'Olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel Maggio seguente alla fioritura, quando ànno aquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in Novembre e Dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Così si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini così soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (1), di arachide e d'altri semi.
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forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'Olivo non sarebbero perfettamente
Il Pepe quale lo conosciamo è il frutto secco, immaturo del piper nigram, pianta vivace, che cresce spontaneamente, sulle coste del Malabar, Indostan, Malaca, Ceylan. Nella state à fiori senza calice in grappoli lunghi, bianchi, frutti a foggia di bacche, dapprincipio verdi, poi rossi, e finalmente gialli. Raccolgonsi prima che siano completamente maturi e vengono essicati al sole o al foco, ciò che imparte alla superficie della bacca le rugosità ed il colore bruno nero. Maturi perdono il loro sapore bruciante. Da noi, il pepe è pianta da serra, ed anche potendo allignare nelle parti nostre meridionali, darebbe frutti di nessuna forza. Il suo nome dal greco pepto, digerire, cocere, che à virtù stomatica, riscaldante. Nel linguaggio delle piante: Rabbia. Fu per molto tempo ritenuto che il pepe bianco fosse una varietà del nero. Ma il pepe bianco, non è altro che il pepe nero lasciato maturare, poi fatto macerare per due settimane nell'aqua di mare e di calce, e spogliato, mercè questa macerazione, delle parti esterne del pericarpio, dopo di averlo fatto essicare, così che il suo sapore è meno piccante e meno aromatico, e la sua azione meno attiva. Il migliore' pepe bianco è quello di Tellicherry sulla costa del Malabar, ed il migliore pepe nero, deve avere grani sferici, regolari, oscuri, non galeggianti sull'aqua.
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piante: Rabbia. Fu per molto tempo ritenuto che il pepe bianco fosse una varietà del nero. Ma il pepe bianco, non è altro che il pepe nero lasciato
Il Pero è un albero piramidale, indigeno europeo, a foglia caduca. Ama il clima temperato, ma sopporta i freddi dell'Italia Settentrionale. Vuol terreno alquanto calcareo e profondo. Si propaga per semi, barbatelle ed innesto. In Aprile dà fiori bianchi in mazzetti, matura i frutti a seconda delle varietà da Luglio ad Ottobre. À vita lunga. Le sue varietà si contano a centinaja, e però altre sono precoci ed altre tardive, altre danno frutto mangiabile appena colto, altre lo maturano d'inverno e sono chiamate invernenghe. Con raffinata coltura in Francia si ànno pera che maturano ogni mese dell'anno. Il nome pero, dal greco pyr che vuol dire fuoco, dalla forma che à il pero di piramide, di fiamma accuminata. Nel linguaggio delle piante: Ardore costante. La pera è frutto squisito, di facile digestione, quando è matura, offre i più svariati sapori. Si mangia fresca e cotta giuleppata come la poma e le altre frutta ed insieme a loro. Da noi la pera è consumata quasi interamente allo stato fresco, ma si fà pure essicare e si conserva per l'inverno. Anche anticamente serviva a dare un liquore spiritoso, spumante analogo al sidro delle poma, ma alquanto più alcoolico. La pera estiva dà anche maggior quantità di sugo che non la poma ben matura. Se ne estrae aquavita bonissima. Il legno del pero è durissimo, unito, compatto e viene adoperato dai tornitori ed ebanisti — che lo colorano in nero per darci il falso ebano, dà un fuoco forte. La Scuola Salernitana dice del pero:
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dell'anno. Il nome pero, dal greco pyr che vuol dire fuoco, dalla forma che à il pero di piramide, di fiamma accuminata. Nel linguaggio delle piante
Il Pesco è pianta a foglia caduca, indigena, originaria dall'Asia e più propriamente, come lo indica il suo nome, della Persia. Cresce in terreni buoni, caldi, ad esposizioni meridionali, difese dai venti. Vive anche nei climi freddi, ma non dà frutti. Si moltiplica per seme ed innesto sul Mandorlo, sul Pruno e sul Cotogno. Vuolsi che dia frutti migliori e più belli piantando la pesca intera colla sua polpa. Cresce rapidamente, dopo due o tre anni dà frutto, ma presto invecchia e deperisce — pochi peschi passano i 20 anni. Si allunga la loro vita innestandoli sul mandorlo. A fiori rosei prima delle foglie, che sono distrutti facilmente dalle brine e dalle forti pioggie primaverili. Dà frutti maturi da Luglio ad Ottobre, a seconda delle varietà, che sono numerose assai. I botanici dividono il pesco in due famiglie, quello a frutto coperto di pelurie, e quelle a frutto liscio — ambedue suddividonsi alla lor volta, in frutto a polpa e carne succosa, spiccaciola, che facilmente abbandona il nocciolo, e in frutto a polpa consistente duracina, che non si stacca dal nocciolo. La pesca è matura, quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla — in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fà marcire. L'Erera, botanico spagnolo, dice che se si adaqueranno i persici, con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore — vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca, è frutto giocondo che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe. È squisitissimo, salubre, profumato di facile digestione, si mangia fresco e si fà seccare per l'inverno, e allora si chiamano da noi veggitt. I cuochi ne fanno fritture, polpettine, persicata, sorbetti, marmellate. Il loro delicato aroma è sì sfuggevole che invano si tenta fissarlo completamente nelle conserve, nei liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell'osso: Malum quod implicuit persicum nucleus explicat. Diceva un antico proverbio latino, il che vuol dire che bisogna mangiarne anche l'amanda. Certe signorine troppo schifiltose non possono soffrire la lanuggine della sua pelle ed è precisamente nella sua pelle che si conserva il massimo tesoro della sua fragranza, come è nella pellicola dalla sua amanda che maggiormente si raccoglie l'amaro che possiede. Si ricordino del proverbio: all'amico pela il fico, al nemico il persico. Per saporire la pesca va mangiata senza pelarla e senza tagliarla. Le foglie ed i fiori del pesco sono velenosi, contenendo acido idrocianico, tuttavia in medicina se ne fà uso qualche volta come contro stimolanti e vermifughi. I fiori e le foglie recenti, ànno inoltre una virtù purgativa, se ne fà infusione e sciroppo, perdono molto coll'essicazione. In caso di avvelenamento coi fiori, foglie o mandorle de' suoi frutti, si soccorre con etere al quale s'aggiungono una ventina di goccie di laudano. Coi frutti ben maturi, che passano facilmente alla fermentazione, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma arabica. La Scuola Salernitana sentenzia:
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della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita
Albero dell'Europa Meridionale, che erge la sua cima fino a 30 metri a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centim., di un bel verde. Fiorisce in Maggio e produce coni grossi durissimi contenenti mandorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità. Quei coni si rompono, o si mettono al fuoco e allora s'aprono e lasciano la mandorla, aromatica e di grato sapore. Tale mandorla è molto in uso fra noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla Pineta di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle signore che se le lasciavano venire. Sono nutrienti, stimolanti, indigesti. È pasto graditissimo dei canarini che li fà cantare. Molti devono ricordarsi dei maestri che facevano fare i pigneu cioè unire insieme la punta delle cinque dita per batterle colla bacchetta — e pensare che si stava là mogi ad aspettare quel regalo.
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verde. Fiorisce in Maggio e produce coni grossi durissimi contenenti mandorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità
L'Ananasso, o anche Ananas coronato, è frutto della Bromelia, così detta dal botanico svedese Bromel, al quale fu dedicata. È frutto dei paesi caldi e lo si coltiva da noi nelle serre. Non fiorisce che il terzo anno dopo la piantagione e per maturare abbisogna da 4 a 6 mesi. Matura generalmente in Agosto. Nel linguaggio delle piante: Perfezione. Avvene molte varietà; che vengono indicate dal colore del frutto; dalla sua forma, ecc. Dalle foglie degli ananassi si ottengono fibre delicatissime per tessuti, dei quali se ne fa uso nella zona torrida. Nel Museo di Firenze si trovano belle vesti e finissimi fazzoletti ricamati, fatti di fibre di ananas. Fu Colombo il primo a portarlo in Europa. Il frutto che matura nelle nostre serre, non raggiunge mai la bontà di quelli coltivati in America. Fu chiamato il Re dei frutti ed è creduto il più saporito dei frutti della terra. Compare solamente alla mensa dei ricchi. Non è troppo digeribile, conviene sputarne fuori la parte stopposa, è utile accompagnarlo con vino generoso o liquori. Dall'America, ne arriva una confezione molto stimata Dà il sapore a vari liquori e rosoli. Se ne fa sciroppo delizioso.
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Agosto. Nel linguaggio delle piante: Perfezione. Avvene molte varietà; che vengono indicate dal colore del frutto; dalla sua forma, ecc. Dalle foglie
È un grande albero a foglia caduca, originario delle Indie Orientali, della Persia, dell'Arabia e della Siria. Fra Damasco ed Aleppo ve ne ànno selve intere. Da noi è fatto indigeno in Toscana, nel Genovesato e nella Sicilia. Nelle provincie meridionali della Francia vegeta pure con prosperità. Non resiste d'inverno in piena terra nei paesi settentrionali. Vuol terreno sostanzioso, leggero e parche irrigazioni. Si moltiplica per semi, che si fanno nascere sotto cuccia, porta in primavera fiori piccoli, giallognoli, a cui succedono frutti ovali lunghi, secchi, con polpa sottilissima, e grossi quanto una oliva, contenenti un nocciolo che apresi in due valve, entro le quali trovasi una mandorla verde coperta d' una pellicola rossastra, d'un sapor dolce, soave, grato, pingue. Nel linguaggio dei fiori e piante: Accoglienza benevola. Questo frutto è mangereccio e per i pregi ed i diffetti è da mettersi insieme al pignolo. Contiene molto olio, che è facile estrarre con semplice pressione. Serve a preparare alcune emulsioni, affatto simili a quelle delle màndorle dolci, prescritte nelle infiammazioni degli intestini e delle vie orinarie. I confetturieri ne fanno grande uso in paste e confetti. I salumai ne regalano le galantine e certi salami a cuocersi. I cuochi lo mettono nei polpettoni e nei croquants, che i fiorentini chiamano Pistacchiata. Se ne fa pure una eccellente conserva. Gli Arabi lo chiamano Pustach, gli Spagnuoli Alfogico, e gli Olandesi Pistassies. Vuolsi che chi lo portò in Italia fosse il Console romano Lucio Vitellio sotto Tiberio, di ritorno dalla Siria, come Fiacco Pompeo, suo commilitone, lo portò pel primo in Spagna.
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sapor dolce, soave, grato, pingue. Nel linguaggio dei fiori e piante: Accoglienza benevola. Questo frutto è mangereccio e per i pregi ed i diffetti è
Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
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. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
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linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che