La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o tre anni si ànno piante più fruttifere. Nel linguaggio dei fiori: Sei insipido. À frutto a carne zuccherata ed alquanto acidula, rinfrescante, frigida, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia più sottile e trasparente, ha sapore più squisito, quanto più rossa ne è la polpa. V'è pure la specie moscatella, l'ovale, la gialla, ecc. L'anguria, o più propriamente cocumero, (da Cucumis derivante pure dal celtico cucce, vaso, desunto dalla sua forma) non confà a tutti gli stomachi, è indigesta e produce moltissime volte quei casi di colera, che viene denominato sporadico. Alcuni medici vogliono che sia lassativo, rinfrescante, ma è certo che è frutto insipido, che mangiandone bisogna unirvi del rhum o qualche liquore, che bisogna mangiarne poco, e che le sue buccie spolpate servono meravigliosamente a far rompere le gambe al prossimo. Negli Stati Uniti l'anguria è coltivata su vasta scala.
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, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia
Il Ribes è un arboscello europeo a foglia caduca, originario dell'Arabia. Il suo nome da Ribiz, parola araba, che significa cosa acidula. Vuole clima temperato, nei paesi caldi il frutto à poco sugo, nei freddi è troppo acido. Ama terreno sciolto e fresco. Si moltiplica per semi, margotte e talee. Si educa a spalliera ed a siepe. À fiori odorosi in Aprile e matura più o men tardi a seconda delle varietà. Di queste se ne conoscono 31, ma le principali sono: il ribes ordinario, (ribes rubrum) con frutto a grappolo rosso e bianco più o men grosso. L'uva spina o d'Inghilterra (ribes uva spina, ribes grossularia): Mil. Uga spina, Fr. Gadelier. Ted. Stachelbeere. Ingl. Roug Goosberry, che cresce a grappolo ed à frutti più grossi, e carnosi e meno acidi. Finalmente il ribes nero (ribes nigrum) di sapore più aromatico, odorifero in tutti i suoi organi, a foglia variagata. La più coltivata, è la prima specie il cui frutto vien conservato allo stato fresco e serve a far sciroppi e bevande spiritose. Se ne estrae anche acido citrico. La seconda specie, che conta pure le sue varietà, è coltivata con arte raffinata dagli Inglesi, che ne preparano il loro rinomato vino d'uva spina. Del ribes nero, gli Svizzeri ne fanno pure una bevanda spiritosa, una specie di ratafià detto Cassis. Nel linguaggio dei fiori: Tu fai la mia delizia. I frutti del ribes rosso, si mangiano crudi, si conservano in aquavite, si candiscono, se ne fanno giulebbi, e serve pure a far salsa, aque, sciroppi e sorbetti. Serapione ne parla, ed è lui che ne indica l'origine africana. Le donne e le ragazze amano molto questo frutto che dà l'aspretto del limone. L'uva spina, era detta da noi anche uva crispina e marina e la si metteva nelle minestre, guazzetti ed intingoli ai quali communicava un certo bruschetto grazioso, dice il Pisanelli. In medicina è considerato un rinfrescante ed un astringente.
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temperato, nei paesi caldi il frutto à poco sugo, nei freddi è troppo acido. Ama terreno sciolto e fresco. Si moltiplica per semi, margotte e talee
Il nome di Rosa dal greco rhodon, rosa, o dal celtico roag che significa rosso. La rosa è la regina dei fiori, la figlia del cielo, il sorriso della primavera, l'emblema dell'innocenza e della fugace bellezza femminile. Le sue varietà si contano a migliaja. Qui non dirò che della canina, la quale è la più semplice di tutte, il vero tipo del genere e serve per innesto a tutte le altre. Fu detta rosa canina o rosa di cane, perchè fu creduto fino dall'antichità che la sua radice fosse efficace contro la rabbia del cane. Anche i Greci la chiamavano cinorrhodon, da cion, cane e rodhon, rosa. Da noi si chiama anche Rovo. Nel linguaggio dei fiori, la rosa canina, significa: Indipendenza. È un arboscello indigeno che viene lungo le siepi di montagna, nei luoghi aprichi che dà in Maggio una rosetta pallida, semplice, di cinque foglie. Ai fiori succedono alcune frutta ovali, bislunghe rosse come il corallo nella loro maturità, la di cui scorza è carnosa, midollosa, d'un sapor dolce-aciduletto e che racchiude alcune semenze inviluppate d' un pelo consistente, che, attaccandosi alle dita penetra la pelle e vi cagiona molestie. Tali semi posti nel letto ad alcuno per celia fecero sì che questo frutto prese il nome poco castigato di grattaculo. Un mio amico ingegnere mi assicura che tal nome viene da ciò, che i sullodati semi, producono a chi li mangia un reale prurito, precisamente in una località indicata nella seconda parte di quel disgraziato vocabolo. Tale appellativo, non si vorrebbe mai pronunciare dalla gente pudibonda, ma pure è registrato presso i più seri botanici ed è costretta a ripetere, colle gote vermiglie, anche la damigella sortita di collegio, se vuol dimandare di quel delizioso sciroppo che danno i prefati grattaculi. Questa conserva era la ghiottoneria della Vallière. Giuseppe II se la faceva venire dal Lago di Ginevra.
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pelo consistente, che, attaccandosi alle dita penetra la pelle e vi cagiona molestie. Tali semi posti nel letto ad alcuno per celia fecero sì che questo
Il Tartufo è il tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon' ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui camelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Le conquiste, le emigrazioni ed il comercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinaro la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, ch'egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un'escremento della terra, vitium terrœ. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gênègès, ossia figli della terra e degli Dei. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di alcune radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa — chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo 2000 anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia la notizia, e Micheli pochi anni dopo ne dava il disegno. Ammessi i semi, naque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale, fu sostenuta tra gli altri dal Milanese Vittadini (Monographia tuberculorum. Milano 1831). «Se volete dei tartufi seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo dal Conte de Gasparin riassume l'esperienza di oltre 60 anni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers, il fatto allora paradossale della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta ad un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare, che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'Ilex, la Peduncolata, la Ruber (rovere).
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possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia la notizia, e
Il Tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essicata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto, coltivato in China e Giappone. Nel Giappone da dove pare originario, viene seminato lungo le siepi 'e sul margine delle campagne. Dà fiori bianchi come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgano i fiori appena spuntano. Il tè potrebbe coltivarsi anche da noi. Nella China il suo nome volgare è tcha e il letterario ming. Nel Giappone tsjaa. Nel linguaggio dei fiori: Estasi. Nella China si fanno quattro raccolte. La prima da Febbrajo a Marzo e fornisce il tè migliore (tè fiore, tè imperiale) che assai di rado si trova in commercio ed è riservato per l'Imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè. Molte le varietà. I commercianti, chinesi ne ammettono fino a 150, gli europei, ne riconoscono una dozzina, che secondo il loro modo di preparazione si classificano in verdi, neri e profumati. Il verde proviene per lo più da arbusti coltivati sul versante delle montagne, il nero da arbusti coltivati ne' campi concimati, il profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero e verde, e la differenza consiste in ciò che prima di essere torrefatto, il nero subisce una leggera fermentazione, lasciando la foglia ammonticchiata in una stanza per tre o quattro giorni, al quale trattamento il verde non è sottoposto, ed in ciò che il verde è colorato quasi sempre artificialmente massime se destinato alla esportazione. Pare che la detta fermentazione decomponga nel tè nero certi principî, che in appresso gli darebbero forza e sapore, di maniera che il nero è inferiore al verde — è meno buono e forte: Al Brasile, che si vuole avere il tè migliore del chinese, il nero si fa al sole e non al forno. Il tè di bona qualità, dà un infuso di color giallo dorato, limpido, perfettamente aromatico, che preso con moderazione nè troppo forte riesce ugualmente favorevole allo stomaco ed al cervello. Questa bevanda aristocratica deve aver sempre un soavissimo profumo. Dal punto di vista igienico non bisogna abusare del tè verde per la sua maggiore e forse troppo forte energia, potendo produrre presso alcuni, disturbi nervosi e preso la sera arrecare l'insonnia. Balzac vuole che questi disturbi nervosi siano precisamente quelli che gli inglesi con nome oramai cosmopolita chiamano spleen e che poetizza certe figurette dell'Isola Britanna. Ad ottenere una bevanda molto aromatica e poco astringente, si deve mettere il tè per mezz'ora in infusione con piccolissima quantità d'aqua fredda e poi aggiungervi l'aqua bollente, versando nelle tazze l'infuso prima che divenga molto bruno. L'aqua fredda imbeve tutta la trama della foglia, e l'aqua bollente scioglie poi il tannato di caffeina, il quale precipita quando l'infuso comincia a raffreddarsi, il primo infuso è più sostanzioso ed aromatico del secondo, il quale è pure molto astringente. La proporzione è di 20 grammi di tè in un litro d'aqua bollente. Migliore l'aqua delle sorgenti e la piovana. L'aggiunta di alcune goccie di sugo di limone od altro acido vegetale rende il tè più piccante e profumato. Nella Tartaria chinese e nel Cachemire e in altri paesi dell'Asia si mangiano le foglie del tè cotte in diverso modo, con burro, farina ecc., e la loro ricchezza in albumina ne spiega il valore nutritivo. Il tè, come il caffè, è soggetto ad alterarsi sia per cattiva preparazione, che per cattiva conservazione.
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come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in
L'Uva è il frutto della vitis fructifera, frutice perenne arrampicante, che può elevarsi a grande altezza e sostenersi, a foglia caduca, indigeno, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non matura bene al di là del 47° grado di latitudine, e la bianca del 49°, nè si eleva oltre i 600 metri. Vuole esposizione meridiana, teme l'umido soverchio, i continui venti, il freddo e le brine. Ama terreno sciolto calcareo argilloso, il terziario. Si propaga per seme, margotte, innesto, ma più comunemente per gemme. Numerose le sue varietà, essendo coltivata da molto tempo ed in condizioni svariatissime, onde si possono delineare i suoi frutti in uve bianche e nere, a sapore semplice e a sapore profumato, infine in uve da tavola e uve da vino. La vite dopo 40 anni comincia a deperire. Fiorisce in Maggio e matura a seconda della qualità e particolari condizioni da Agosto ad Ottobre. Si coglie a maturanza perfetta e perfettamente asciutta tanto per mangiarla, allo stato fresco, come per conservarla o farne vino. I più antichi botanici pretendevano che la vite fosse originaria dall'Asia, che i Fenicj l'avessero importata nelle Isole dell'Arcipelago, i Greci in Italia, i Francesi nelle Gallie, ecc. Ma il trovarla anche fra noi spontanea ed incolta nei boschi, fa perdere la fede a quel blasone di esotica nobiltà. Il nome vite vuolsi da parola celtica che significa albero, ma meglio lo si deriva dal latino vis, forza. Nel linguaggio delle piante significa: Ubbriachezza. Uva, viene da uvidus, pieno, pingue. L'uva, dice. Il Mantegazza, è frutto allegro, dolce, bello, galantuomo, rinfresca e nutrisce, l'uva è il più utile e proficuo dei frutti. Oltre il principale uso che si fà dell'uva — il vino, del quale dirò negli anni venturi, essa si mangia allo stato fresco, allegra la tavola, serve al cuoco nella cucina, al pasticciere per la credenza e la dispensa. I fiori ànno una fragranza gratissima, che ricorda quella del miglionetto, servono ad aromatizzare vini e liquori. Il succo dell'uva acerba, detto dai latini omphacium, e da noi agresto, esprime già col nome il suo sapore stittico. In sostituzione di agrumi e di aceto, lo si adopera a far salse, bevande rinfrescanti, e sciroppi in farmacia. Dai semi se ne cava un olio grasso di colore giallo verdognolo, di sapore spiacevole, che arde con fiamma brillante, senza molto fumo. Un ettolitro di semi può dare in media 8 kil. di olio. Si fa pure un rob o sciroppo d'uva, che i Romani chiamavano sapa, che si ottiene riducendo il mosto a due terzi od a metà mediante lenta ebollizione ed evaporazione. Distillando il vino e le vinaccie si ottiene, prima impuro, poi, con nove ripetute distillazioni, rettificato e purissimo l'alcool. Il primo risultato dà l'acquavite, il secondo lo spirito di vino. Il vino pure è suscettibile di una fermentazione acida, che lo converte in aceto — il tipo più galantuomo degli aceti e dei quali dirò pure negli anni venturi. L'uva matura è il più salubre dei frutti e se ne può mangiare e rimangiare senza pericolo, producendo tutt'al più un po' di mossa di corpo. I medici consigliano la cura dell'uva, e questa cura la chiamano ampeloterapia (dal greco ampelos, vite, e therapeyo, servire), che consiste nell'uso dietetico, sistematico dell'uva come alimento principale, per un tempo prolungato, onde possa produrre salutari modificazioni nell'organismo. Essa ingrassa, è sostanza nutriente, riconfortante nell'atonia-languore del ventricolo, nella gastrorrea, conviene nella plettorea addominale, calma l'irritazione degli organi respiratori, mitiga la tosse, facilita l'espettorazione ed è indicata nella tubercolosi. La cura dell'uva si schiera più simpatica, e fors'anche più sicura a fianco di quelle delle tante aque minerali, del siero e dell'olio di fegato di merluzzo.
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si adopera a far salse, bevande rinfrescanti, e sciroppi in farmacia. Dai semi se ne cava un olio grasso di colore giallo verdognolo, di sapore
La Vaniglia, o Vainiglia, è il frutto di parecchie specie del genere vanilla, piante erbacee ed arrampicanti, originarie delle regioni calde dell'America e segnatamente del Messico, e dell'Asia. La sua fecondazione la si deve a degli insetti. À fiori bianchi screziati di rosso giallo. Se ne conoscono quattro varietà: la planifolia di cui la migliore, cresce nelle regioni calde ed umide del Messico, della Colombia e della Guajana, coltivasi nelle Antille. La gujanensis di Surinam. La palmarum di Bahia, fornisce qualità inferiori. La pompona, il vaniglione di odor forte, ma non balsamico che ricorda quello dei fiori della vaniglia dei giardini, (Heliotropium peruvianum), viene dalle Antille, à siliqua grossa e corta, è la più scadente. Queste piante, grosse come un dito s'avvolgono al tronco degli alberi come la vitalba, il convolvolo e l'edera e s'innalzano a grandi altezze. Il frutto della vaniglia, chiamato guscio, è una capsula carnosa, lunga 14-15 centim. in forma di siliqua. La sua superficie dapprima verde, poi colorata in bruno rossastro molto intenso, è dotata d'una lucentezza grassa. Contiene una quantità di semi, estremamente piccoli, globulari, lisci, duri, neri e contenenti un succo denso e bruniccio, che maturi danno una fragranza squisitissima. La miglior vaniglia è quella del Messico, le cui capsule ànno qualche volta la lunghezza di 22 centimetri. Epidendrum dal greco Epi, sopra e dondron, albero, cioè che corre sopra l'albero. Il nome di vaniglia dallo spagnolo vajnilla, piccola guaina. Nel linguaggio delle piante: Soavità. La vaniglia è uno degli aromi meno irritanti, e dei più delicati ed importanti della cucina ghiotta — dà sapore alle carni, a tutti gli intingoli nei quali è introdotta — e serve principalmente per le cose di latte col quale si marita benissimo, per dare aroma al cacao e farne cioccolatta — per sorbetti, liquori, paste. Dà profumo pure ai saponi, entra in molte aque odorifere per esempio l'aqua di Cipro. In Europa si coltiva, da tempo, la varietà planifolia, nelle serre di Liege, nel Giardino delle Piante a Parigi, e di Hillfield House, rigate dopo che Morren nel 1857 à mostrato che si poteva fecondare artificialmente. Da quest'epoca la fecondazione e la produzione delle capsule si ottengono in tutti i paesi tropicali, e i frutti della vaniglia europea non la cedono nel profumo a quelli del Messico. La vaniglia, fu introdotta in Europa dagli Spagnuoli dopo la scoperta dell'America. Gli indiani chiamano arris arack, il liquore d'anice aromatizzato colla vaniglia. Per conservare la vaniglia la si chiude in una bottiglia di vetro, o in un cannoncino di latta, cosparsa di zuccaro. In tal modo si ottiene lo zuccaro vanigliato che serve comunemente in cucina ed in pasticceria. Si falsifica la vaniglia, colle vaniglie alterate, o raccolte troppo tardi, o esaurite coll'alcool e restaurate col balsamo peruviano o del Tolù — colla mescolanza di qualità inferiori, quali il vaniglione. Un guscio sano e buono di vaniglia, deve offrire intatta l'estremità ad uncino. La vaniglia in polvere è più soggetta ancora a falsificazione.
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rossastro molto intenso, è dotata d'una lucentezza grassa. Contiene una quantità di semi, estremamente piccoli, globulari, lisci, duri, neri e
Sciroppo d'arancio — Prendete 25 aranci, gratucciatene leggermente la pelle gialla in 2 litri d'aqua tepida. Indi aprite gli aranci e con frullino fate escire la polpa ed il sugo che unirete all'aqua tepida, meno i semi. Mettete in un bacino 10 kili di zuccaro che ridurrete sul fuoco a sciroppo a la grosse piume, e quando sia tale versateci l'aqua col miscuglio fatto, lasciate bollire 203 minuti, togliete dal fuoco, passate allo staccio e freddo conservate in bottiglie. Così pure fate per lo sciroppo di limone.
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fate escire la polpa ed il sugo che unirete all'aqua tepida, meno i semi. Mettete in un bacino 10 kili di zuccaro che ridurrete sul fuoco a sciroppo a
Pianta di circa 15 piedi d'altezza, sempre verde, dell'America tropicale, somiglia il limone. Dà fiori piccoli, giallognoli. Si coltiva come il caffè. Nel linguaggio delle piante: Salute. I frutti bislunghi di questa pianta, simili a piccoli citrioli, racchiudono in una poltiglia agro dolce molti semi bianchi (fino a 40) a foggia di mandorle. Questi semi o grani, divenuti di color bruno, grazie ad una specie di fermentazione, sono quelli che in commercio vengono sotto il nome di grani, semi o fave di cacao, e che torrefatti od abbrustoliti convenientemente si mangiano e servono a preparare confetture e misti collo zuccaro e droghe, massime vaniglia e canella, servono pure alla fabbricazione della Cioccolatta. I grani del cacao si raccolgono a perfetta maturanza in Giugno e Dicembre, e in tale stato la polpa che avviluppa i semi è morbida, acidetta, piacevole, molto rinfrescante e salubre, che gli indigeni trasformano in liquore vinoso, bevanda graditissima. Anche nel Nord della Francia, nel Belgio ed in Olanda colle corteccie del cacao si prepara una bibita salubre e piacente. Gli involucri e i germi si utilizzano dagli indigeni per nutrizione dei montoni e come ingrasso. Inoltre dalle sementi si cava un olio che ha la consistenza del burro e si chiama burro di cacao, che è un eccellente cosmetico. Si amministra internamente negli organi della digestione, respirazione e dell'apparato orinario, esternamente nell'intestino retto, per stitichezza, emorroidi, screpolature delle labbra, mammelle, ecc. e viene spesso falsificato con sego, midollo, e cera. Del Theobroma se ne conoscono da 15 a 18 specie, delle quali le principali sono: la Bicolor, la Guajanense, la Cacao e la Speciosum. Dalla Cacao e Guajanense se ne cava il cacao del commercio. Le regioni che danno il cacao migliore sono Soconusco nel Messico, i cui grani di scarto servivono per moneta, ed Esmeralda nella Republica dell'Equatore, ma difficilmente quel cacao arriva fino a noi. Dopo viene il Caracca, delle Antille, S. Domingo, Giammaica. Nel 1518 all'epoca della conquista del Messico il cacao era la principale alimentazione del popolo Messicano. Il suo nome di Theobroma dal greco — da Theos, Dio, e da broo per brosco, mangiare — Cibo divino. Fu Linneo che lo chiamò così — alcuni dicono per la sua passione alla cioccolatta, altri per deferenza al suo confessore, altri ancora per galanteria, essendo stata una regina, Anna d'Austria, che per la prima l'introdusse in Francia.
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semi bianchi (fino a 40) a foggia di mandorle. Questi semi o grani, divenuti di color bruno, grazie ad una specie di fermentazione, sono quelli che in
La Coffea Arabica è un grazioso arboscello, ramosissimo, sempre verde, originario dall'Arabia e particolarmente dall'Abissinia Galla e Kaffa, dove anche oggi si trova allo stato selvaggio. Dà fiori candidi, olezzanti in Luglio ed Agosto, simili a quelli del gelsomino di Spagna. Ai fiori succedono bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi. che sono quelli che tostiamo e che ci danno la deliziosa bevanda del caffè. Questi semi quando sono verdi e maturi sono circondati da una polpa dolcigna bona a mangiarsi. Si propaga per seme. Da noi è pianta di serra calda. Nel linguaggio dei fiori e piante: Allegria. Numerose le varietà del caffè, che prendono il loro nome non solo dalla differenza specifica, ma dalla provenienza commerciale e geografica. Generalmente tutte queste varietà si riferiscono a tre tipi: Moka, Borbone e Martinica, che da noi è sostituito col Porto Rico. Il migliore caffè è quello che proviene dalla sua patria primitiva, ma rarissimamente giunge in Europa. Il Moka, o Levante (dal nome del suo antico porto di esportazione) è un prodotto del Yemen montuoso, il suo odore ricorda quello del tè e questo pure rarissimamente ci perviene. E consumato quasi interamente in Turchia, in Asia, in Persia ed in Egitto. Quello che perviene a noi sotto il nome di Moka, è Moka di Zanzibar, di Aden e di Giava a piccoli grani, accuratamente scelto.
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bacche rosse come le ciliege, che maturano 4 mesi dopo la fioritura e che racchiudono due grani o semi. che sono quelli che tostiamo e che ci danno la
L'Olanda tiene il principale mercato del caffè di Giava, come la Germania di quello di Manilla, Londra e Liverpool di quello del Ceylan. Il Borbone à molta somiglianza col Moka dal quale ebbe origine, è una delle qualità più ricercate del mercato francese. Fra le mille varietà di caffè che ci manda l'America, la quale fornisce la metà del caffè che si consuma in tutto il mondo, quelle di Campinas, Jungas e Santos sono le migliori, le più scadenti quelle di Baja, Para, S.t Domingo. Il Caffè di Martinica gode riputazione universale, viene immediatamente dopo i migliori Moka. Il vero Martinica è raro però in commercio. Nel 1872 se ne esportarono, soltanto 6000 chilog. Sotto il nome di caffè di Martinica, oggi si vendono le qualità scelte ed accuratamente mondate di Guadalupa e Porto Rico. Questo è delle qualità più ricercate, ma si altera rapidamente se conservato in luogo non perfettamente asciutto. È impossibile dare una descrizione anche approssimativa del caffè buono: in generale dev'essere a grani uniformi. Il suo peso dipende dal grado di secchezza. Il caffè ci giunge tante volte, cattivo per vizio proprio, alterato per fermentazione, avariato dall'aqua marina. Oltre a ciò l'industria della sua falsificazione è delle più fiorenti: arriva a darci il caffè.... che non è caffè. Lo si bagna per accrescerne il peso, se ne sostituisce una qualità all'altra, lo si mischia, lo si colorisce, lo si sofistica in grana e crudo — in grana e torrefatto — torrefatto e macinato. Tutti i semi; tutte le radici, tutti i frutti, tutte le corteccie furono esperite a trovar materie da surrogare, mescolare al caffè. Abbiamo il caffè di cicoria, di carote, di tarassaco, caffè di fichi e di ghiande fabbricato in Germania, di lupini, di fecole, leguminose, caffè di dattoli, caffè di Mogdad (cassia occidentalis) altra particolarità tedesca, caffè d'orzo e di malto. Ne volete ancora? S'è arrivato fino alla lirica della falsificazione, a falsificare la falsificazione. Si falsifica anche quella porcheria di caffè di cicoria. Ma dove la falsificazione domina sovrana è nel caffè torrefatto e macinato. La più generale ed innocua è quella che si fà coi fondi di caffè, caffè già esaurito raccolto nei Caffè, Restaurants, negli Alberghi e particolare provento dei cuochi delle case signorili. In Francia abbiamo un'infinita serie di caffè, fabbricati con tutto quel che si vuole, meno il caffè. Fino dal 1718 Giorgio I, in Inghilterra multava i falsificatori del caffè da 20 a 100 sterline. Ora l'industria è libera.
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semi; tutte le radici, tutti i frutti, tutte le corteccie furono esperite a trovar materie da surrogare, mescolare al caffè. Abbiamo il caffè di
E prima di tutto fate aquisto d'un caffè sano, di vero caffè. Se il vostro droghiere ve lo somministra buono, non cercatene nè la provenienza, nè la qualità: chiudete gli occhi, che vi ingolfereste in un mare di assurdi e di difficoltà. Non comperate mai e poi mai il caffè tostato — peggio poi quello già macinato. Tostatevelo voi, macinatevelo voi. I semi del caffè non sono altro che una sostanza legnosa che nasconde in sè tutta una ricchezza d'aroma. È quell'aroma che si vuole e si deve cavare da quei semi. E il modo di cavarlo è — la tostatura prima, la bollitura poi. Nella prima operazione, la tostatura, si deve, condurre il seme allo stato di maturanza aromatica opportuno. Nella seconda, la bollitura, si segrega l'aroma, si spoglia la parte legnosa di quella sua graziosa proprietà, per dotarne l'aqua. Tutte e due queste operazioni richiedono una speciale attenzione. Tostate il vostro caffè nel tamburino a carbone, non alla fiamma, prima adagio perchè si scaldi, poi in fretta perchè non bruci. Quando comincia a tramandare quel sudore che lo rende lucido, toglietelo in fretta dal tostino, perchè l'aroma, mercè il grado di calore subíto, fa capolino dai tessuti legnosi, nella forma, comune a tutte le essenze, di olio essenziale, che è appunto quel sudore lucente. Se l'aroma, che è volatile, sorte, lo godrà il naso, non la bocca. Quel sudore non deve escire assolutamente. Non lasciatelo scappare — ritirate il vostro caffè che sia di un biondo foncè — color tabacco de' frati. Quando è nero, è bruciato, e bruciato è carbone e col carbone non si fà caffè. Versatelo distendendolo, fatelo raffreddare più presto che potete. Più presto si raffredda, tanto meno aroma si disperde. Il freddo è nemico capitale dell'aroma. Tostato e freddato mettetelo chiuso in vaso o stagnata, in luogo asciutto e volta per volta macinatene il solo bisognevole come volta per volta tostatene solo il bisognevole. La bollitura è quella che dà l'ultima mano a sprigionare l'aroma, a separarlo dal seme. Aspettate che l'aqua sia bollente a mettervi il caffè, rimescolatelo un po' — due bolli solamente — e via dal fuoco, copritelo. Tre piccoli cucchiaj ben colmi generalmente bastano per una tazza. Certo che con poco si fà poco, come con niente si fà niente. Più caffè adunque più aroma e sapore. Il caffè riesce come lo si fà — è un assioma. Il recipiente in cui deve subire l'ebollizione sia d'una pulitezza da cristallo, senza odore di sorta, (guardatelo da quel tanfo di chiuso, che è una cosa orribile) non c'è cosa come il caffè per assumere qualunque piccolo odore, è delicatissimo. Quando il caffè è buono, fresco, tostato convenientemente, messo in dose giusta e fatto, bollire come sopra, farete un caffè squisitissimo anche nel pajolo della massaja. Ma più lo si custodisce e lo si rinchiude, più conserva la natia virtù. Furono inventate mille fogge di macchinette da caffè, a infusione ed a pressione, razionali ed irrazionali, ma quella a pressione atmosferica, quale attualmente si trova presso quasi tutte le famiglie, è la migliore per comodità, poco costo e semplicità. Tale macchinetta, divenuta popolare, fu perfezionata nel 1856 da Monsignor Gius. Nicorini Canc. Ord.
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quello già macinato. Tostatevelo voi, macinatevelo voi. I semi del caffè non sono altro che una sostanza legnosa che nasconde in sè tutta una ricchezza d
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color giallo-verdognolo, à scorza spessa aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello scharlotte, e al confetturiere per regolarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica antispasmodica e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a far emulsioni amare. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio, che serviva a preservare dalla carie e dalle tignuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: «Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur, (Trist. 1).» Del resto la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio
Albero indigeno dell'Europa Meridionale, a foglia caduca, originario dall'Egitto. Dà fiori rosei in Aprile, frutti in Maggio e Giugno. Si moltiplica per semi, margotte, divisioni, innesto. Nel linguaggio dei fiori e piante: Promessa. Due le sue varietà principali: La ciliegia, propriamente detta, col picciolo piuttosto lungo, polpa consistente e dolce — della quale la varietà a pasta soda, più grossa delle ordinarie, la duracina, che a Firenze è chiamata Ciliegia Pistojese, da noi, Galfion, nome pervenutoci dalla Svizzera Francese, dove si chiama pure Galfions. I francesi la chiamano Bigarreaux.
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per semi, margotte, divisioni, innesto. Nel linguaggio dei fiori e piante: Promessa. Due le sue varietà principali: La ciliegia, propriamente detta
Il Coriandolo, o Coriandro, o Cimina, è pianta annua, originaria dell'Oriente e della Grecia, che passò in Italia e nella Francia Meridionale, ove si è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in Aprile, si raccoglie in Settembre, cresce dai 30 ai 90 centim. à foglie verdi chiare, fiori bianchi e porporini in Maggio e Giugno. Nel linguaggio dei fiori significa: Merito nascosto. Il suo nome Coriandolo dal greco coris, cimice, e da ambluno rintuzzare, perchè rintuzza la vista. I suoi grani freschi e le foglie verdi ànno un odore disgustoso di cimice, massime quando fà nuvolo e piove, per cui è anche chiamata: erba cimicina. Essicati sono gradevolissimi, aromatici, stimolanti. Entra il coriandolo nella composizione di molti liquori in ispecie del Gin; serve come droga di cucina ed è condimento aromatico presso i popoli del Nord. L'adoperano per aromatizzare la birra, lo mescolano al pane, lo masticano dopo il pasto, per facilitare la digestione, espellere le flattulenze e rendere gradevole l'alito della bocca. Gli Spagnoli mettono le foglie del coriandolo nella zuppa, alla quale danno un sapore molto forte, e le mangiano pure in insalata. I medici gli assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'aqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti. Pestati e fatti cocere nell'aqua a densa decozione, servono contro le pulci spruzzandone le lettiere ed il suolo. I coriandoli ànno dato il nome a' quei projettili di farina e gesso che negli ultimi giorni del Carnevalone, insudiciano le vie, le case e gli abiti dei Milanesi. Gli antichi consideravano il coriandolo allo stato verde come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo trito e misto ad aceto serviva per conservare le carni nell'estate presso i Romani. La manna degli Ebrei somigliava al seme bianco del coriandolo del quale ne aveva pure il gusto (Ex. 16. 31) il che è confermato anche nel libro dei numeri (11. 7) tranne che ivi si aggiunge che la manna aveva anche il sapore del Bdellio, albero Babilonese, trasudante una specie di gomma aromatica ricordato pure da Plauto (Curc. Sc. 2. a. 1). Tu crocum, tu casia, tu bdellium.
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è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in Aprile, si raccoglie in Settembre, cresce dai 30 ai 90 centim. à foglie
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della Palma orientale, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America Meridionale e di molte parti dell'Africa. E diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 kilog. di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche o frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale.
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è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Il suo nome dal greco
Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne colla fermentazione un liquore inebriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. II calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma lavorati si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica, chiamata perciò delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d'allora si candivano perchè i freschi eran fin d'allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca.
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o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti
Fico d'India (cactus opuntia vulgaris, Ficus Indica). — È originario dall'India e dall'Africa, da noi cresce in Sicilia e nelle Provincie Meridionali in luoghi asciutti ed aridi. È un alberetto dai 2 ai 3 metri, che vive fino ai 50 anni, dà fiori giallastri, frutti rosei da Agosto a Dicembre, della forma del fico. Contengono una polpa refrigerante, salubre, mangiabile, purchè se ne sputino i semi, e rende l'orina color rosso sangue. Sono alquanto scipiti. Le sue foglie tagliate a metà ed applicate sulle parti dolenti per artrite e pleurisia, danno spesso ottimo risultato. Sono adoperati per fabbricare alcool e forniscono una salsa che per il povero sostituisce quella del pomodoro. Se ne fà pure mostarda, e se ne estrae una materia colorante color cremisino
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forma del fico. Contengono una polpa refrigerante, salubre, mangiabile, purchè se ne sputino i semi, e rende l'orina color rosso sangue. Sono
Il nome di Fungo — dal greco Sphongos, sponga, a cagione della loro sostanza spongiosa, d'onde il Fongus dei latini — è dato a certe vegetazioni che si allontanano dalla comune, per natura, sostanza, forma, mancanza di foglie, di fiori. Ve ne sono d'ogni grandezza, d'ogni forma, filamentosi, membranosi, schiumosi, tuberosi, a carne consistente, spongiosa, coriacea, sugherosa, compatta. Alcuni danno seme, altri no. Infinito il numero delle specie: se ne conoscono più di 3000 varietà, ve ne sono in famiglia, a gruppi, solitari. Aderiscono al suolo o sul corpo sul quale vengono, per mezzo di fibrille, che non sono radici. Esalano un odore particolare ed umido, che è comune a tutti, con alcune gradazioni fra le diverse specie. Il sapore non è meno variabile — ordinariamente è sapido, acre, bruciante, stittico acido nauseante, aromatico a seconda del sugo del quale sono imbevuti. Amano luoghi boschivi umidi e grassi, vengono sulle sostanze vegetali ed animali in decomposizione. L'umidità calda ne genera lo sviluppo e la moltiplicazione principalmente in Autunno e Primavera. Vogliono i climi delle zone temperate. Le stesse specie di funghi non compariscono indifferentemente in tutte le stagioni. L'Asia boreale, la Cina, l'America settentrionale abbondano di funghi. Ànno sviluppo rapido, istantaneo compariscono da prima come piccoli filamenti o fibre che poi si tumefanno e s'ingrossano e crescono tosto a vista d'occhio a formare il fungo perfetto. Questo primo stato si chiama carcite o bianco di fungo. Una sola notte vede apparire migliaja di funghi, alcune ore, alcuni minuti bastano, a diverse specie per pervenire al loro ultimo sviluppo. L'assenza della luce e un'atmosfera tranquilla accelerano singolarmente la loro moltiplicazione. Pervenuti alla maturità emettono de' piccoli corpuscoli tondi, chiamati seminoli, è l'ultimo loro prodotto, come i semi nei vegetali. Sono finissimi, quasi polvere e situati sia nell'intera superficie, sia nella superficie superiore, sia internamente e vengono alla luce per laceramento o morte del fungo. La pioggia li fà deperire facilmente. Sono preda degli insetti e di alcuni animali erbivori, e i più avanzati in età, sono preferiti dagli insetti. E annesso dai chimici che sono potentissimi agenti d'ossidazione, e d'azotazione. I commestibili contengono secondo le varietà da 84 a 94 parti d'acqua, il resto è un composto di sali e sostanze organiche, vale a dire olii essenziali, materie resinose, grasse, coloranti, zuccherine, acidi organici diversi, materie gelatinose, gommose, raramente fecula-cellulosa, di composti azotati albumine ecc. Altri sono eduli, altri velenosi. Teoreticamente è impossibile dare una ragione, un indizio che distingua sicuramente gli eduli dai velenosi. Bisogna affidarsi, più che al medico alla conoscenza pratica locale delle specie, della forma, taglio, colore, aspetto, odore e sapore. A migliaja sono gli scienziati che ne parlarono, e tra questi il milanese Vittadini (1), ma fin ora la scienza non à detto l'ultima sua parola. S'è bensì trovata la maniera di coltivarli, ma su tante specie di funghi saporiti, appena s'è riescito di coltivarne le meno pregiate. Il progresso verrà non dubitiamone. Ma frattanto occhio alla padella! In generale rifiutare tutti i funghi non sani, o che cominciano a decomporsi, quelli che rotti tramandano un'umore lattiginoso, che crudi sono acri, che tingono in rosso la carta azzurra, che presentano una superficie viscosa, od umida, o macchiata, o brinata, che cambiano di colore rompendosi. Non vi affidate mai ai volgari esperimenti, che i funghi velenosi anneriscono il cucchiale d'argento, la cipolla, ed il prezzemolo ecc. Non acquistate mai funghi secchi sulla piazza, nè dal droghiere. Non mangiate funghi alle osterie, alberghi, principalmente di campagna. Se la vostra golaccia vi à pigliato nel trabocchetto e avete mangiato funghi velenosi — eccovi la ricetta del Mantegazza. Prima di tutto sappiate che il più delle volte i sintomi dell'avvelenamento compajono molto tardi, magari sette od otto ore dopo il delitto. Appena v'accorgete vomitate, cercate liberarvi subito delle materie velenose col vomito e col secesso. Cacciatevi due dita in bocca, la barba di una penna, aqua tepida molta — e se non vi riesce: solfato di rame o di zinco: mezzo grammo in cento grammi di aqua comune, — a cucchiaj ogni 5 minuti: purganti forti. Calmate i dolori con cataplasmi sul ventre — e se vi coglie stupefazione, cognac, rhum e frizioni secche ed aromatiche. Non prendete mai latte, compireste l'opera del veleno.
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' piccoli corpuscoli tondi, chiamati seminoli, è l'ultimo loro prodotto, come i semi nei vegetali. Sono finissimi, quasi polvere e situati sia nell'intera
Il Lauro, o Alloro è un albero sempre verde, il solo della numerosa famiglia dei Lauri che sia indigeno in Europa. Nasce spontaneo sui nostri colli e allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L'origine del suo nome è celtica — e significa verde. Nel linguaggio delle piante è: Gloria, Trionfo. Le foglie ànno uso speciale nell'igiene alimentare, servendo ad aromatizzare vivande, frutta, carni, specialmente di pesce, da conservare essicati. Si innestano agli uccelletti invece della salvia, si unisce all'anguilla, alle salsiccie. Servono a dar sapore ai marinati di pesce e alla gelatina d' animale. Sopra le foglie d' alloro si pone la cotognata, ed un ramoscello d'alloro acceso e messo entro lo strutto bollente gli porge aroma e lo toglie dal pericolo d'irrancidire. Conserva pure i fichi secchi ai quali si stramezza. Il decotto d'alloro sparso in terra scaccia i tafani e le foglie messe tra i libri di quei letterati che non li aprono, li difendono dal tarlo — tale il precetto di un conservatore di Biblioteca. Le foglie, e più sfregandole, ànno odore forte, piacevole, canforato, sapore aromatico-amaro. Ardono schioppettando con fiamma viva, con fumo denso, diffondendo grata fragranza. Contengono olio etereo ed una materia estrattiva amara, sono perciò toniche, eccitanti, sudorifere, emmenagoghe, e si vantano contro l'atonia dello stomaco, le flattulenze intestinali, i catarri cronici, la paralisi e l'idrope. Le bacche sono più attive delle foglie. Se ne fecero tisane, decotti, polveri e pillole allo stesso scopo. Ma il prodotto più importante è l'olio laurino che se ne estrae ad uso principalmente veterinario. All'uomo si applica esternamente per paralisi, reumatismi. Ammaccando le bacche, grossolanamente se ne fà un decotto saturo per pediluvi contro i sudori estivi e giova assai per quelli che ànno i pee dolz, cioè per quelli ai quali torna molesto il camminare. L'alloro, onor d'imperatori e di poeti, godeva anticamente un concetto quasi religioso e superstizioso. Era consacrato ad Apollo, dio sempre giovane, biondo ed imberbe. Dai Greci veniva chiamato Dafne, perchè una certa Dafne, una crestaina di quei tempi essendo perseguitata da Apollo, si rivolse agli Dei chiedendo protezione, ed essi non potendo far altro la cambiarono in lauro, che poi essendosi accorto Apollo, se la mise in forma di corona sulla sua bionda parrucca e ne recinse pure le sue famose nove pettegole di Muse. Porfirio, filosofo, asserisce che gli antichi traevano i presagi del lauro — se abbruciando strepitava assai era buon augurio e portava felicità — se no — brutto segno! Per cui Tibullo (lib. 2. Eleg. V) dice: «Laurus ubi bona signa dedit, gaudete coloni. » E Properzio (lib. 2, c. 23) «Et jacet extincto laurus adusta foco.» — Plinio asserisce che il Lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. 15, c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi se ne cinsero i Sommi Poeti ed ahimè! se tornassero tutti quei Sommi, e facessero una capatina alle feste di Natale ed in carnevale da noi, che direbbero vedendo il loro lauro intrecciato alle casseruole di cucina e posto sulle teste dei vitelli, dei majali o steso sopra i loro opulenti jambons?
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allieta le amene sponde dei nostri laghi. Si moltiplica per palloni e semi, vuol terreno fresco e grasso. Del Lauro se ne contano ben 32 varietà. L
Fusto arboreo sempre verde, dei climi caldi acclimatizzato da noi, spesso munito di spine, che à fiori d'un bianco roseo quasi continuamente, frutto bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno argilloso-calcareo-siliceo, clima dolce. Soffre il freddo e il troppo caldo rende il suo frutto stopposo. Cresce sollecitamente. A 20 anni in Sicilia produce circa 1000 limoni — vive dai 60 ai 70 anni. Si coltiva come gli aranci. Se ne contano 16 varietà. In China evvi la varietà cheilocarpa, il cui frutto rappresenta una mano, che i Chinesi dicono quella del loro Dio, lo chiamano: Fo-chu-kan, cioè mano odorante. Nel linguaggio delle piante: Sono sempre presente. Il limone vuolsi originario della Persia. Si narra che un re di quel paese ne facesse dono agli Ateniesi, d'onde si sparse poi in Europa. Plinio parla d'un frutto detto Pomo di Media che i greci chiamavano Kitrion. Si vorrebbe che ai tempi di Plinio il limone non fosse ancor portato in Italia, scrivendo egli stesso: Sed nisi apud Medos et in Perside nasci noluit. Abbiamo però Virgilio che ne celebrò le lodi nella 2a Georgica:
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bislungo, paglierino di colore, polpa abbondante e ricca di sugo acido aromatico aggradevole. Si moltiplica per semi, talee, margotte. Ama terreno
Del limone si usa quasi esclusivamente il frutto e principalmente il succo. Il limone è ingrediente necessario in mille salse — e tra esse alla mayonaise, dà aroma a tanti manicaretti, sapore alle carni, ai pesci, entra nelle confetture, nei liquori, se ne fà sciroppo. Nella limonata abbiamo una bevanda delle più rinfrescanti e più grate agli assetati, ai febbricitanti, agli ammalati di gastrite, tifo, itterizia, dissenteria, scorbuto, difterite. Al limone fu sempre assegnata virtù antipestifera, antivelenosa, antisettica. Onde il detto: Medica mala quidem nec mala nec medica. Il che vuol dire: il limone tiene lontano il medico e le malattie. Esternamente, il limone si adopera come astringente, rubefaciente, antigangrenoso, nella cefalalgia. Poche goccie nell'aqua costituiscono un collirio semplice ed utilissimo nelle oftalmie. Coi semi fanno emulsioni per affezioni isteriche e nervose. Ammaccati e bolliti nell'aqua e nel brodo costituiscono un apiretico infallibile e sicuro nelle febbri intermittenti. Dal limone si cava l'acido citrico scoperto da Scheele nel 1784, che riscaldato coll'alcool ed acido solforico dà l'etere citrico. L'acido citrico si prepara in grande specialmente in Inghilterra per le arti tintorie. Serve agli stessi usi del succo, in modo da farne una limonata estemporanea alla dose di 1 gram. o 2 con 30 di zuccaro in 500 d'aqua, aggiungendo qualche goccia di essenza di cedro od arancio. L'acido citrico serve pure alla fabbricazione delle polveri di Selz, ecc. L'acido del sugo di limone rode la carie dei denti. Ricchissima di aroma è la sua pellicola gialla detta Zeft, che pure si adopera in cucina raschiandola e levandola leggermente, perchè la parte bianca, oltre non avere aroma, à sapore molto amaro. I Milanesi danno del limon a chi è furbo senza darsene per inteso.
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cefalalgia. Poche goccie nell'aqua costituiscono un collirio semplice ed utilissimo nelle oftalmie. Coi semi fanno emulsioni per affezioni isteriche e nervose
L'Albicocco è albero originario dell'Armenia, indigeno da noi — à foglia caduca. Ama terreno leggero, fresco, bona esposizione, viene meglio in spalliera. Si moltiplica per semi, deperisce dopo i 20 anni. Fiorisce in Marzo — dà frutti in Giugno e Luglio. Nel linguaggio delle piante significa: Primizia. L'albicocco è selvatico in China e sono usitatissimi i suoi chicchi per ricavarne olio. Se ne contano molte varietà: Le primaticcie sono l'albicocca pesca e la nostrale con nocciolo amaro. Le migliori per grossezza e sapore sono quelle di Nancy. La qualità più grossa di Germania è anche più insipida. L'al- bicocca o meliaca, matura è di una delicatezza superlativa, ma la sua maturanza passa prestissimo. Si mangia fresca o si fa essicare al forno dividendola in due e levandone il nocciolo. Cocendola se ne fà marmellata, gelatina, sciroppo. Celebre la sua confettura di Clermont-Ferrant. Si conserva nell'aquavite, si candisce. Della mandorla dolce se ne fà ingrediente di pasticceria e condimento a leccornerie da dessert.
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spalliera. Si moltiplica per semi, deperisce dopo i 20 anni. Fiorisce in Marzo — dà frutti in Giugno e Luglio. Nel linguaggio delle piante significa
Il Màndorlo è pianta indigena a foglia caduca, originaria dall'Asia e precisamente dalla Siria e Barberia. Climatologicamente occupa il posto tra la vite e l'ulivo. Ama il caldo, terre leggere e calcaree — languisce e more nelle forti. — Si propaga per seme, ed innesto su sè stesso. Nasce spontaneamente nella Sicilia, Spagna, Provenza, a Tripoli e Marocco, vegeta con prosperità sulle riviere di Genova. Fiorisce in Marzo ed Aprile, teme le brine ed il freddo. Se ne contano 9 varietà. La migliore è il màndorlo fino o princesse, il cui guscio si rompe colle dita. Alcune di queste varietà ànno frutto dolce, altre amaro, ma dall'albero mal si distingue il sapore del frutto. La maturanza si riconosce dall'aprirsi del pericarpo carnoso, il quale serve pel bestiame. Il suo nome dall'ebraico suo appellativo che significa vigilante, perchè è il primo albero che si risveglia, e perciò in linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui scopo la più ricercata è la qualità detta saccarelle. Si confettano, se ne fanno varie paste dolci, fra cui l'orzata, o semata di màndorle dolci che serve alla preparazione di una notissima bevanda. In Provenza si fanno essicare al forno e sono di un sapore gustoso. Entrano nel torrone, nei biscotti, marzapani, crocanti, ecc., dove si mischiano pure le amare. La màndorla si pela sempre, e se secca, lo si fà facilmente immergendola nell'aqua bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essicati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a lungo la màndorla irrancidisce e per conservarla nella state vuol essere di quando in quando esposta all'aria. Colle màndorle amare si fà una pasta che tiene morbida la pelle delle mani e del viso delle donnine, cosmetici e saponi. Le amare schiacciate o pestate, uccidono il pollame ed i volatili, una volta si credeva fossero antidoto all'ubbriachezza. Plutarco riferisce che il medico di Druso, fratello di Tiberio, tremendo bevitore, gli faceva inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso, le mangiasse per eccitare la sete, dicendo Eupoli, che fanno venir voglia di bere: Da quas manducem Naxias amygdalas, da vinum, quod bibam e vilœ Naxia. Le màndorle migliori sono quelle di Spagna. Le dolci contengono molto olio fisso, 54 %, ed un principio di emulsina molto carico di azoto. La medicina ne prepara un'emulsione, bevanda gradevole sedativa nelle malattie flogistiche. Anche dalle amare si estrae un olio medicinale, che gela difficilmente, ma facilmente irrancidisce, lassativo, temperante nelle tossi, flogosi intestinali, stitichezza, nefrite, renella, serve pure alla confezione di diversi looch kermatizzati, balsamici, anodini. Esternamente l'olio di màndorle giova nelle dermatosi pruriginose, rigidità muscolari e tumori glandulosi. La sede principale del sapore amaro nelle màndorle amare, è nella loro pellicola gialla, che è micidiale alle bestie e possiede anche qualità deleterie per l'uomo, ingesta in dosi maggiori, perchè contiene acido idrocianico, che distrugge rapidamente l'irritabilità e la facoltà sensitiva. Nondimeno, pochissime màndorle amare, corroborano lo stomaco, provocano l'appetito e sono credute vermifughe e febbrifughe. Antidoto contro il loro avvelenamento è l'amoniaca e l'alcool — gli stimoli interni ed esterni. La polpa o pasta e la farina delle amare ridotta a cataplasma giova esternamente nelle nevralgie, coliche, nefrite, ecc. Con tale pasta si toglie pure qualunque ribelle ed inveterato odore ai vasi, sfregandoli internamente. Col guscio secco e sminuzzato delle dolci si confeziona un'emulsione teiforme che oltre al grato sapore, à una fragranza balsamica di violette e di vaniglia. Sull'origine del màndorlo, la tradizione greca racconta che Fillide, figlia di Licurgo, re di Tracia, era promessa a Demofoonte figlio di Teseo. Ma essendo già state fatte le pubblicazioni e vedendo come il suo promesso sposo non compariva, s'impiccò e fu da quei bonissimi Dei cambiata in màndorlo. Demofoonte, che aveva perduta la corsa, venne e versò amare lagrime su quell'albero, e fu sotto la pioggia di quel pianto che il màndorlo cominciò a mettere foglie e frutti — amari dapprima, dolci poi essendosi Demofoonte finalmente consolato. La màndorla da Plinio venne chiamata noce greca. Ma in Italia prima di Catone nessuno ne à parlato, ed ancora lo confusero colle noci. Fu dopo le crociate che la màndorla incominciò ad avere fama e che si trovò di comporne ghiottonerie culinarie. Palladio ci tramanda che i Greci divinando le macchine a vapore del Sonzogno, si servivano della màndorla come mezzo di pubblicazione. Ecco cosa dice: Greci asserunt nasci amygdala scripta, si, aperta testa, nucleum sanum tollas ed in eo quodlibet scribas et iterum luto et porcino stercore involutum reponas. Il che vuol dire, che essi aperta una màndorla vi scrivevano alcun che, e rinchiusala di novo così la seminavano, e le màndorle che faceva quell'albero erano altrettante edizioni di quella scritta. Se non ci credete pigliatevela con Palladio.
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bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essicati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a
Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in Giugno e Luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di Settembre, perchè aspettando più tardi la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata e à dato pure il nome al rosso-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato aquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre. Punica sub lento cortice grana rubent, dice Ovidio (Egl. 15). È frutto cercato ghiottamente, dalle signorine e dei ragazzi. Serve al dessert. I grani somigliante ai rubini, nettano i denti e movono l'appetito. Dal succo, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e conserve deliziose, confetture delicatissime, ghiotti giulebbi e gelati. I fiori del melagrano si usavano come astringenti in polvere e decotto — oggi macerati con allume nell'aqua danno un bell'inchiostro rosso, come la buccia, macerata con allume pure lo dà nero. La buccia o pericarpio detta malicorion, ricca di principio amaro, contiene moltissimo tannino e viene utilmente impiegata nella concia delle pelli. A Tunisi serve a tingere in giallo i così detti marocchini. In medicina viene somministrata per uso sì interno che esterno, come astringente e dei più energici. Arago, nella sua Promenade autour du monde, dice, che a Timor si usa nella dissenteria. In Persia al Thibet, nella China, fra gli Arabi ed anche in Russia al dire del Rehmann viene adoperata come succedaneo al chinino. Il seme risulta d'una buccia cartilaginea e di un mandorlo bianco, dolce da cui si può spremere olio. La radice, e precisamente la corteccia della radice, gialla all'interno, bigio-cenericcia all'esterno, à sempre goduto dall'antichità fino a' giorni nostri fama di tenifuga quando è fresca e caccia pure le ascaridi.
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, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
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matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di
La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda, ne possedeva 266,000 piante. Si propaga per semi, ed alcune specie di colombe, segnatamente la carpaphora concinna, ànno una parte attiva nella sua disseminazione trangugiando il frutto, ed evacuando il seme che conserva e forse è favorito nella sua facoltà germinativa, dal passaggio per i loro intestini. À fiori piccoli, biancastri, che lasciano il posto a drupe, o frutti carnosi, grosse quanto un'albicocca, che si aprono in due valve, e lasciano vedere un seme ovoidale nerastro, duro, che è la sua vera noce. Essa è circondata da una pellicola o arilla di color rosso arancio, e frangiata quando è recente, ma che diventa gialla colla essicazione ed è ciò che noi denominiamo macis. Nel linguaggio delle piante: Potenza. La raccolta di queste noci si fa in Aprile, Luglio e Novembre, le qualità migliori sono colte a mano quando sono mature. Sul mercato inglese si valutano le noci moscate dalla loro grossezza, quelle che anno circa 2 centim. e mezzo di lunghezza, sopra 2 di larghezza, e dalle quali bastano soltanto quattro a formare un'oncia, sono tenute in alto pregio. Il macis lo si separa dal seme, lo si fa essicare al sole, dopo averlo immerso nell'aqua salata, ciò che gli conserva morbidezza ed impedisce la volatilizzazione del principio aromatico. È d'uso molto frequente in cucina e nella pasticceria. Le noci ispogliate del loro arillode, vengono rapidamente essicate in camere affumicate, sino a che lasciano il loro sottile inviluppo. Così essicate vengono in commercio, subendo però prima ancora un bagno di latte di calce, ciò che in China si omette. Le migliori noci moscate, sono quelle rotonde, pesanti, fresche, odorose, tramandano un sugo oleoso, aromatico, grasso. La noce moscata ed anche il macis contengono olio volatile, nel quale risiede tutta la loro energia, un'olio fisso, una sostanza buttirosa volatile, ed un principio estrattivo solubile nell'alcool molto odoroso ed attivo. Questa sostanza buttirosa che forma circa il quarto del suo peso, è conosciuto sotto il nome di burro di noce moscata. Viene falsificato con miscela di cera gialla, sego e polvere di curcuma. La noce moscata viene essa pure falsificata con quella tarlata dagli insetti, quella vecchia, amuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro di noce moscata. A Marsiglia, certi industriali la preparano con crusca, argilla e detriti di noce moscata, ma nell'aqua si stemperano completamente. Jobard di Bruxelles riferisce, che, or sono una ventina d'anni circa, è arrivato da Canton un bastimento inglese, carico di.... noci moscate di legno bianco, perfettamente modellate ed imitate. La noce moscata è fra gli aromi uno dei più potenti ad eccitare l'inerzia del ventricolo, a dar vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure e d'ova. Entra graticciata non solo in cucina e nella pasticceria, ma nella distilleria, fà parte di varj elisiri, tinture rosolii ecc. Il macis è uno dei componenti l'aceto dei tre ladri. I medici assegnano alla noce moscata virtù toniche ed eccitanti. Se ne adopera l'olio in frizioni delle parti paralizzate. Averroè vuole, che la noce moscata non fosse conosciuta dai Greci e dai Romani. Avicenna antico medico Arabo (n. 980+1037) la conosceva e dice che gli Arabi la chiamavano Jausiband, cioè noce bandese, e doveva essere noto anche agli antichi Egizi, perchè ne abbiamo trovati alcuni frammenti nelle loro mummie e si crede fosse ingrediente dei loro balsami a conservare i cadaveri. Serapione, nel 2º libro dei semplici, la descrive appoggiato all'autorità dei Greci. Galeno la chiama crisobalano.
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nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda, ne possedeva 266,000 piante. Si propaga per semi, ed alcune specie di
L'Olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il 150 anno di vita, e aumenta fino ai 50 — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'Olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel Maggio seguente alla fioritura, quando ànno aquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in Novembre e Dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Così si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini così soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (1), di arachide e d'altri semi.
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(resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il 150
V'à chi dice che l'albicocco sia stato portato in Europa al principio dell'era volgare, ma i Greci lo conoscevano prima ed i suoi frutti li chiamavano poma precocia (primaticcia) che pronunciavano bericoca e vi venne portato al tempo di Alessandro il Grande. Da bericoca il nome arabo berkouk, e da cui lo spagnolo albaricoque e il nostro italiano albicocca. I Romani lo chiamavano: mela armeniaca. Ne parlarono Dioscoride e Plinio, commendandone l'aroma. — Galeno ed i medici greci asserivano che i frutti suoi sono più salubri di quello del pesco. L'albicocca è piuttosto indigesta e la medicina si serve dei semi della varietà che li à amari, a sostituirli a quelli della Mandorla amara e che del pari possono riescire venefici.
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si serve dei semi della varietà che li à amari, a sostituirli a quelli della Mandorla amara e che del pari possono riescire venefici.
Il pepe lungo (piper lungum, macro piper) nasce nel Bengala e nelle Isole Molucche, à gettini lunghi un pollice circa, grossi come una piccola penna da scrivere di color cenere. Il loro sapore è più acre e meno grato del pepe nero e di un odore perfettamente simile. Entra nella composizione di alcuni elettuarj, ma il consumo maggiore si fa dagli acetai, i quali lo infondono nell'aceto debole per renderlo acre. Gli Indiani poveri lo macerano nell'aqua e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoja e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne pure chiamato pepe lungo il nostro peperone. Il pepe della Giammaica, o pimento degli inglesi, o pepe garofanato, è della grossezza d'un pisello, d'un color grigio rossastro, rugoso. À odore aromatico analogo a quello della canella e del garofano, sapore piccante quanto il pepe. Questa droga è di gran uso nei paesi caldi in Germania ed in Inghilterra per condire le vivande ed è uno dei principali ingredienti per la composizione delle spezie. Quello che si usa sotto il nome di pepe di Cajenna (1), non è altro che il seme e la capsula seminale di una pianta selvaggia del Sud dell'America, che è coltivata nelle Indie e che si chiama Capsicum baccatum, annuum et fructescens. Poche sostanze fino dai tempi remotissimi furono oggetto di tante falsificazioni quanto il pepe. Una buona regola è quella di comperar sempre pepe in grana, e di polverizzarlo da voi a norma del bisogno, valendosi di quei piccoli macinatoi di pepe, oggi molto diffusi. Per falsificare il pepe nero servono farine d'ogni genere, segatura di legno, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo si falsifica in polvere ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma Chevallier, v'à una fabbrica che produce annualmente 1500 chilogrammi di una miscela che si vende unicamente per adulterare il pepe. Riesce facile riconoscere il falso pepe in grana, mettendolo nell'aqua, che allora i falsi grani vanno prontamente al fondo e si sciolgono in poltiglia. Il pepe è un'aroma potente e popolare che condisce la minestra del povero e rende pizzicanti gli intingoli del ricco. Eccita la salivazione, favorisce la digestione, ma irrita preso, smodatamente, gli intestini delicati. È veleno per gli emorroidarj, gli erpetici, conviene ai flemmatici. Da Aristotile, Egineta, Dioscoride, Serapione, era tenuto avente benefici effetti sulla vista e nei giramenti di capo. Se non rinfresca, scioglie ed abbassa molti umori e non è del tutto stramba la lezione della scuola Salernitana:
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ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma
Il Pero è un albero piramidale, indigeno europeo, a foglia caduca. Ama il clima temperato, ma sopporta i freddi dell'Italia Settentrionale. Vuol terreno alquanto calcareo e profondo. Si propaga per semi, barbatelle ed innesto. In Aprile dà fiori bianchi in mazzetti, matura i frutti a seconda delle varietà da Luglio ad Ottobre. À vita lunga. Le sue varietà si contano a centinaja, e però altre sono precoci ed altre tardive, altre danno frutto mangiabile appena colto, altre lo maturano d'inverno e sono chiamate invernenghe. Con raffinata coltura in Francia si ànno pera che maturano ogni mese dell'anno. Il nome pero, dal greco pyr che vuol dire fuoco, dalla forma che à il pero di piramide, di fiamma accuminata. Nel linguaggio delle piante: Ardore costante. La pera è frutto squisito, di facile digestione, quando è matura, offre i più svariati sapori. Si mangia fresca e cotta giuleppata come la poma e le altre frutta ed insieme a loro. Da noi la pera è consumata quasi interamente allo stato fresco, ma si fà pure essicare e si conserva per l'inverno. Anche anticamente serviva a dare un liquore spiritoso, spumante analogo al sidro delle poma, ma alquanto più alcoolico. La pera estiva dà anche maggior quantità di sugo che non la poma ben matura. Se ne estrae aquavita bonissima. Il legno del pero è durissimo, unito, compatto e viene adoperato dai tornitori ed ebanisti — che lo colorano in nero per darci il falso ebano, dà un fuoco forte. La Scuola Salernitana dice del pero:
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terreno alquanto calcareo e profondo. Si propaga per semi, barbatelle ed innesto. In Aprile dà fiori bianchi in mazzetti, matura i frutti a seconda delle
È un grande albero a foglia caduca, originario delle Indie Orientali, della Persia, dell'Arabia e della Siria. Fra Damasco ed Aleppo ve ne ànno selve intere. Da noi è fatto indigeno in Toscana, nel Genovesato e nella Sicilia. Nelle provincie meridionali della Francia vegeta pure con prosperità. Non resiste d'inverno in piena terra nei paesi settentrionali. Vuol terreno sostanzioso, leggero e parche irrigazioni. Si moltiplica per semi, che si fanno nascere sotto cuccia, porta in primavera fiori piccoli, giallognoli, a cui succedono frutti ovali lunghi, secchi, con polpa sottilissima, e grossi quanto una oliva, contenenti un nocciolo che apresi in due valve, entro le quali trovasi una mandorla verde coperta d' una pellicola rossastra, d'un sapor dolce, soave, grato, pingue. Nel linguaggio dei fiori e piante: Accoglienza benevola. Questo frutto è mangereccio e per i pregi ed i diffetti è da mettersi insieme al pignolo. Contiene molto olio, che è facile estrarre con semplice pressione. Serve a preparare alcune emulsioni, affatto simili a quelle delle màndorle dolci, prescritte nelle infiammazioni degli intestini e delle vie orinarie. I confetturieri ne fanno grande uso in paste e confetti. I salumai ne regalano le galantine e certi salami a cuocersi. I cuochi lo mettono nei polpettoni e nei croquants, che i fiorentini chiamano Pistacchiata. Se ne fa pure una eccellente conserva. Gli Arabi lo chiamano Pustach, gli Spagnuoli Alfogico, e gli Olandesi Pistassies. Vuolsi che chi lo portò in Italia fosse il Console romano Lucio Vitellio sotto Tiberio, di ritorno dalla Siria, come Fiacco Pompeo, suo commilitone, lo portò pel primo in Spagna.
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resiste d'inverno in piena terra nei paesi settentrionali. Vuol terreno sostanzioso, leggero e parche irrigazioni. Si moltiplica per semi, che si
Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
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per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
Il frutteto a tavola ed in dispensa
barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno
Conserva. Si riducono in sciroppo due chili di zuccaro entro al quale si farà cocere un chilo di mele cotogne, monde della pelle e dei semi. Indi si levano le dette mele dallo sciroppo, si pestano in un mortajo di marmo e si passa allo staccio. Eseguito ciò si unisce di novo la polpa delle mele allo sciroppo e si fa cocere il tutto sino a giusta consistenza di conserva.
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Conserva. Si riducono in sciroppo due chili di zuccaro entro al quale si farà cocere un chilo di mele cotogne, monde della pelle e dei semi. Indi si
Il Popone, volgarmente detto Melone, è una pianta erbacea, annua, indigena originaria dall'Asia. Vuol terreno sciolto, lavorato profondamente, grasso, fresco. Per la coltura forzata, si semina su letto caldo in Gennajo, Febbrajo, Marzo: solo in Aprile e Maggio all'aperto si trapianta. Ama la mezz'ombra e la pulitezza, il troppo umido gli è dannoso. Si svetta, a farlo più prolifico e ad impedirne una soverchia vegetazione. È maturo, quando il suo peduncolo è corto, grosso, à sapore amarognolo, e quando il frutto è pesante e resistente alla pressione. L'odore non deve essere molto pronunciato. La troppa sonorità del frutto, battuto colle dita, è indizio d'immaturità. Si conserva di più e riesce migliore quando non sia colto a maturanza innoltrata. Il cogliere un melone a suo tempo non è abilità di tutti — da qui il nostro proverbio: De melon ghe nè pocch de bon. Se si coglie acerbo non à sapore, se stramaturo lo à perso. Nel coglierlo si tagli un nodo sopra del frutto, non gli si sterpi la coda — il melone perde d'odore e traspira per quella parte. Vuolsi che colto e lasciato riposare 24 ore aquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Il seme si conserva per sei o sette anni, anzi si pretende che quanto più sia vecchio, produce meloni migliori. Generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà tanto precoci, che tardive — àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Popone dal greco pepto, maturare. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione — è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto coi salumi, per frutta da dessert, se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca (1), si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue mandorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essicate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e la famosa semata la prediletta dei nostri nonni.
Il frutteto a tavola ed in dispensa
che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati
In medicina tali semi danno emulsioni emollienti, e rinfrescanti. I Greci lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni colerose. In Francia per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre, onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il Papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato era il solo, cibo che gradisse. Il melone a Roma, era chiamato melangolo. Le qualità del buon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon, de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
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In medicina tali semi danno emulsioni emollienti, e rinfrescanti. I Greci lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed