La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o tre anni si ànno piante più fruttifere. Nel linguaggio dei fiori: Sei insipido. À frutto a carne zuccherata ed alquanto acidula, rinfrescante, frigida, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana coi semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana è di buccia più sottile e trasparente, ha sapore più squisito, quanto più rossa ne è la polpa. V'è pure la specie moscatella, l'ovale, la gialla, ecc. L'anguria, o più propriamente cocumero, (da Cucumis derivante pure dal celtico cucce, vaso, desunto dalla sua forma) non confà a tutti gli stomachi, è indigesta e produce moltissime volte quei casi di colera, che viene denominato sporadico. Alcuni medici vogliono che sia lassativo, rinfrescante, ma è certo che è frutto insipido, che mangiandone bisogna unirvi del rhum o qualche liquore, che bisogna mangiarne poco, e che le sue buccie spolpate servono meravigliosamente a far rompere le gambe al prossimo. Negli Stati Uniti l'anguria è coltivata su vasta scala.
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La maturanza incomincia in Luglio e continua a tutto Agosto. Si propaga per seme. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o
Conserva di grattaculi. — Prendete grattaculi maturi, metteteli al sole un pajo di giorni ad appassire. Indi poneteli in fusione per un pajo di giorni nel vino. Fateli bollire in caldaja nel medesimo vino a che siano disfatti. Se abbisogna aggiungetevi vino. Ridotti in poltiglia passateli allo staccio doppio, intanto che sono caldi. Mettete altrettanto peso di zuccaro in un padcllotto con un bicchiere d'aqua per chilo di zuccaro, e fate bollire. Purgate lo zuccaro con un chiaro d'ova e schiumate, e quando lo zuccaro è limpido e fila, unite la salsa, rimenate con spatula di legno incorporate il tutto a fuoco — fatene evaporare bene l'umido della pasta e versatela in un vaso di terra conservandola chiusa in luogo asciutto. Se amuffisce è segno che non è cotta abbastanza, rimettetela ancora sulla pentola. Si allunga, per gli usi, con vino, aceto, limone, tanto a freddo, come a caldo. È squisitissima col lesso, coll'arrosto e colle ova principalmente quelle in camicia. Nè voglio terminare senza suggerire; alle signorine, che anche colle altre rose, in ispecie quella comune (Rosa gallica, rosa fragrans), la rosa d'orto, la rosa rossa, quella di Maggio insomma della quale gli speziali fanno un'infusione per uso esterno nelle oftalmie principalmente, si fanno conserve e sciroppi. Ecco la ricetta. Prenda adunque la signorina dei bottoncini di detta rosa, li separi dal gambo, li ammacchi con pestello di legno in mortajo di marmo, finchè li riduca in massa molle e allora vi aggiunga due volte il loro peso, di zuccaro fino, polverizzato agitando e rimestando la massa onde formi un tutto omogeneo. Questa conserva à sapore dolce, ed odore di rose, è rinfrescante ed è leggermente astringente. Se invece dei bottoni di rosa si volessero adoperare per comporla le foglie fresche o secche, in allora invece di impastarla collo zuccaro, quale ò detto sopra, si userà lo zucchero stesso cotto a manuscristi, evaporando poscia la massa a lento calore fino a consistenza di conserva. Avvertite che le rose allora vanno colte prima che si aprano del tutto. Nel medesimo modo si prepara la conserva d'assenzio ecc.
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il tutto a fuoco — fatene evaporare bene l'umido della pasta e versatela in un vaso di terra conservandola chiusa in luogo asciutto. Se amuffisce è
Il Susino o Pruno è una pianta indigena a foglie caduche, originaria dell'Asia. Le qualità migliori seguono il clima della vite. Da noi resiste ovunque all'aperto e sui monti fino a 400 m. Fiorisce a metà Aprile e matura, a seconda delle varietà e posizioni, dal Luglio a tutto Ottobre. Soffre l'ombra, ama terreno fresco, non umido. Si propaga per polloni, ma meglio per nocciolo e per innesto. Infinite le sue varietà, alcune delle quali si consumano verdi ed altre meglio si prestano ad essere essicate. Noto la Mirabella (brugna gialda) che matura alla fine di Luglio. La Damascena, originaria di Damasco portata dal duca d'Anjou al tempo delle Crociate, nome che si corruppe poi in d'amoscina, moscina e volgarmente massina, e da noi per eccellenza la nera (Prunus domestica ungarica). — La Regina Claudia, (brugna Sanclò) grossa e piccola, che matura in Agosto, e la Settembrina ecc. Nel linguaggio delle piante significa: Promessa. Il raccolto delle susine da conservarsi deve farsi delicatamente, a mano, quando sono asciutte dalla rugiada e dalla pioggia. La susina è nutriente quanto il fico, è di facile digestione e costituisce un cibo grato, sì fresca la state, che essicata nel verno. Sotto questa forma ne fanno attivo e proficuo commercio diversi paesi meridionali d'Italia e di Francia. Quelle di Palermo e di Provenza sono le più stimate. Si conciano al giulebbe, servono nei ragouts e nei ripieni delle pollerie, massime del pollo d'India, al quale levano quella certa ruvidezza e selvatichezza di sapore che possiede la sua carne. Si conservano nello spirito, aromatizzato e confettate. In Germania, nella Lorena e nella Svizzera se ne fabbrica alcool, i tedeschi lo chiamano Zwetschker-wasser. Gli Ungheresi Sligowitz e in Transilvania Raki. In farmacia, massime della qualità damascena, se ne fa conserva e polpa, che viene spesso a surrogare, con innocente falsificazione quella dei tamarindi e cassia e che non è meno rinfrescante e lassativa. Serve pure a preparare come ingrediente principale l'elettuario lenitivo, giova agli stitici. Ario morì d'una scorpacciata di susine. Il legno è durissimo e serve agli intarsiatori. La scuola Salernitana, dice: Frigida sunt, laxant, multumque prosunt tibi pruna. Virgilio nell'Egl. 2 le decanta così: Addam cerea pruna et honos erit huic quoque pomo. Dioscoride e Galeno ne magnificano le virtù. Si facevano essicare anche dagli antichi. Fu sempre celebre presso tutti la Damascena.
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ovunque all'aperto e sui monti fino a 400 m. Fiorisce a metà Aprile e matura, a seconda delle varietà e posizioni, dal Luglio a tutto Ottobre. Soffre l
Il Tartufo è il tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon' ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui camelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Le conquiste, le emigrazioni ed il comercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinaro la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, ch'egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un'escremento della terra, vitium terrœ. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gênègès, ossia figli della terra e degli Dei. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di alcune radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa — chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo 2000 anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia la notizia, e Micheli pochi anni dopo ne dava il disegno. Ammessi i semi, naque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale, fu sostenuta tra gli altri dal Milanese Vittadini (Monographia tuberculorum. Milano 1831). «Se volete dei tartufi seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo dal Conte de Gasparin riassume l'esperienza di oltre 60 anni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers, il fatto allora paradossale della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta ad un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare, che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'Ilex, la Peduncolata, la Ruber (rovere).
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scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande
Il Tè, quale da noi è conosciuto, è la foglia essicata, arrotolata e ripiegata in diverse maniere, di un arbusto sempre verde, che somiglia il mirto, coltivato in China e Giappone. Nel Giappone da dove pare originario, viene seminato lungo le siepi 'e sul margine delle campagne. Dà fiori bianchi come le rose selvatiche, nel verno, à per frutto una capsula contenente un seme. Se si pota, dà fiori e semi una volta l'anno, rami novi e foglie in abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgano i fiori appena spuntano. Il tè potrebbe coltivarsi anche da noi. Nella China il suo nome volgare è tcha e il letterario ming. Nel Giappone tsjaa. Nel linguaggio dei fiori: Estasi. Nella China si fanno quattro raccolte. La prima da Febbrajo a Marzo e fornisce il tè migliore (tè fiore, tè imperiale) che assai di rado si trova in commercio ed è riservato per l'Imperatore e la Corte. L'ultima è la più scadente. Quattro chili di foglie ne danno uno di tè. Molte le varietà. I commercianti, chinesi ne ammettono fino a 150, gli europei, ne riconoscono una dozzina, che secondo il loro modo di preparazione si classificano in verdi, neri e profumati. Il verde proviene per lo più da arbusti coltivati sul versante delle montagne, il nero da arbusti coltivati ne' campi concimati, il profumato è il verde ed il nero ai quali venne comunicato un particolare profumo. Ma ciò non à nulla di assoluto. La medesima pianta lo può dar nero e verde, e la differenza consiste in ciò che prima di essere torrefatto, il nero subisce una leggera fermentazione, lasciando la foglia ammonticchiata in una stanza per tre o quattro giorni, al quale trattamento il verde non è sottoposto, ed in ciò che il verde è colorato quasi sempre artificialmente massime se destinato alla esportazione. Pare che la detta fermentazione decomponga nel tè nero certi principî, che in appresso gli darebbero forza e sapore, di maniera che il nero è inferiore al verde — è meno buono e forte: Al Brasile, che si vuole avere il tè migliore del chinese, il nero si fa al sole e non al forno. Il tè di bona qualità, dà un infuso di color giallo dorato, limpido, perfettamente aromatico, che preso con moderazione nè troppo forte riesce ugualmente favorevole allo stomaco ed al cervello. Questa bevanda aristocratica deve aver sempre un soavissimo profumo. Dal punto di vista igienico non bisogna abusare del tè verde per la sua maggiore e forse troppo forte energia, potendo produrre presso alcuni, disturbi nervosi e preso la sera arrecare l'insonnia. Balzac vuole che questi disturbi nervosi siano precisamente quelli che gli inglesi con nome oramai cosmopolita chiamano spleen e che poetizza certe figurette dell'Isola Britanna. Ad ottenere una bevanda molto aromatica e poco astringente, si deve mettere il tè per mezz'ora in infusione con piccolissima quantità d'aqua fredda e poi aggiungervi l'aqua bollente, versando nelle tazze l'infuso prima che divenga molto bruno. L'aqua fredda imbeve tutta la trama della foglia, e l'aqua bollente scioglie poi il tannato di caffeina, il quale precipita quando l'infuso comincia a raffreddarsi, il primo infuso è più sostanzioso ed aromatico del secondo, il quale è pure molto astringente. La proporzione è di 20 grammi di tè in un litro d'aqua bollente. Migliore l'aqua delle sorgenti e la piovana. L'aggiunta di alcune goccie di sugo di limone od altro acido vegetale rende il tè più piccante e profumato. Nella Tartaria chinese e nel Cachemire e in altri paesi dell'Asia si mangiano le foglie del tè cotte in diverso modo, con burro, farina ecc., e la loro ricchezza in albumina ne spiega il valore nutritivo. Il tè, come il caffè, è soggetto ad alterarsi sia per cattiva preparazione, che per cattiva conservazione.
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abbondanza: se non si pota dà fiori e semi tutto l'anno, ma poche foglie. Per ottenere maggior numero di queste, si colgano i fiori appena spuntano. Il
Estratto di vaniglia. — Mettete in un litro d'alcool finissimo, 30 grammi di capsule di vaniglia, e lasciatevele dentro finchè sia adoperato tutto l'estratto. Dopo 24 ore l'infusione è servibile. Serve per gelati, gelatine, liquori, ecc.
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Estratto di vaniglia. — Mettete in un litro d'alcool finissimo, 30 grammi di capsule di vaniglia, e lasciatevele dentro finchè sia adoperato tutto l
La canna vera dello Zuccaro è pianta gramignacea perenne, originaria delle Indie, dove è spontanea nei luoghi innondati e dove si coltiva ancora. Somiglia alle nostre canne, si alza portando una pannocchia setacea che dà fiori. Esternamente è verdiccia, articolata, interiormente bianca e ripiena di una mollica simile a quella del sambuco, pregna d'un sugo dolce, piacevole. À foglie strette, striate, verdi, che serve ad alimento delle bestie. La piantagione si fa per barbocchi da Marzo a tutto Aprile. Può essere coltivata in tutti i paesi caldissimi. Da noi è da serra. È matura quando diventa gialla, il midollo si è fatto bigio scuro e il sugo viscoso e dolcissimo. La parola zuccaro dal greco sacchar, zuccaro. Nel linguaggio delle piante: Dolcezza. La canna dello zuccaro, matura, si taglia al piede, se ne tronca la pannocchia, si sfoglia, si porta al mulino, che la schiaccia fra tre cilindri. Se ne raccoglie il sugo entro una caldaja sottoposta e tal sugo è chiamato dai negri vezù o vino di canna. Presto fermenta e perciò è necessario cocerlo prontamente, e depurarlo con un processo di evaporazione e filtrazione sinchè è ridotto allo stato di sciroppo d'onde il melazzo, o melassa. Gli zuccari della seconda e terza cristallizzazione sono sempre più grassi ed oscuri e passano sotto il nome di mascabadi. Quelli d'Avana che sono i migliori si chiamano terzieri o biondi. Lo zuccaro benchè di prima estrazione, bianchissimo ed asciutto, contiene impurità e vuol essere raffinato. Questa depurazione si fa nelle grandi raffinerie da dove sortono in pani. La bianchezza e solidità estrema dello zuccaro in pani dipende non solo dalla qualità degli zuccari che si adoperano, ma ancora dall'esito felice dell'operazione e dell'espertezza dell'operatore. Se i pani riescono friabili o macchiati qua e là, o troppo oscuri, e quindi da scarto, allora si pestano ed entrano in commercio sotto la denominazione di zuccaro raffinato in polvere, ossia pilè. Lo zuccaro raffinato in pane è bianchissimo, senza macchie, compatto, duro, sonoro — percosso con un ferro nell'oscurità tramanda della luce, la sua cristallizzazione è minutissima, serrata, e lucida, non à odore, è dolcissimo. Se si tiene in bocca diventa poroso e non si scioglie uniformemente. Cristallizzato lo zuccaro in forma cubica con altro processo di evaporazione si vende sotto il nome di zuccaro candito. Questo è sempre più o meno colorato, tramanda molta luce percosso nell'oscurità, è assai dolce, e si scioglie in bocca uniformemente come le caramelle. La melassa in America ed altrove si adopera per la fabbricazione del rhum e nel Brasile la impiegano per la concia del tabacco. Per ottenere il rhum si fa fermentare la melassa entro grandi vasi di terra, sepolti nel terreno fino all'orifizio, e ricoperti di paglia. Compiuta la fermentazione si passa alla distillazione.
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piantagione si fa per barbocchi da Marzo a tutto Aprile. Può essere coltivata in tutti i paesi caldissimi. Da noi è da serra. È matura quando diventa
La Cioccolatta. — (Mil. Ciccolatt. - Fr. Chocolat. - Ted. Schokolate. - Ingl. Chocolate). — Deve il suo nome a Sciocolatl, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta, drogata è più saporita e sana di quella che, ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, oli, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita non si rompe senza naturale sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fà bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte dà un eccellente mistura assai sostanziosa, ma non addatta a tutti gli stomachi e che da noi, si chiama barbajada. dal suo inventore Barbaja, impresario della Scala al principio del secolo. Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice che Antonio Carletti fiorentino fù uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il Padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il Gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù, (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè pro e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa se la facevano servire perfino in Chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il R. Padre Escobar sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè liquida non frangunt. Fu importata nella Spagna verso il 17° secolo e mercè le donne e i frati l'uso ne divenne popolare. Anche oggi in tutta la Penisola si offre la cioccolatta come da noi il caffè. Passa i monti con Giovanna d'Austria. I frati spagnuoli la fecero conoscere a' loro confratelli di Francia e al tempo della Reggenza anche in Francia era più in uso del caffè. Madama d'Arestrel superiora del convento delle Visitandines a Belley raccomandava al celebre gastronomo suo compatriota, Brillat-Savarin questa maniera di far la cioccolatta: «Quand vous vou» drez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès » la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le » là. Le repos de la nuit concentre et lui donne » un veloutè qui le rend meilleur. Le bon Dieu » ne peut pas s'offenser de ce petite raffinement, » car il est lui-même tout excellence. » Il medesimo Brillat-Savarin suggerisce che una tazza di cioccolatta dopo il pranzo, invece del caffè è cosa che à il suo merito — e quel gastronomo la sapeva alla lunga. Non sò darmi pace, al pensare, come il fabbricante cioccolatta da noi sia stato preso come tipo di scempiaggine, sicchè ne rimase il proverbio: Fà una figura de ciccolattee, e come la parola ciccolatt serva al nostro popolo quale sinonimo di rabbuffo. La cioccolatta da noi è considerata come bevanda esclusivamente clericale.
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muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè pro e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America
Dolce di cioccolatta. —Tagliate un panetto francese in fette, bagnatele in due bicchieri di latte, e dopo due ore mettete il tutto a foco in casserola con un pezzo di burro e un terzo di tavoletta di cioccolatta, tagliata in piccoli pezzi. Fate cocere rimestando, finchè gli ingredienti siano incorporati, poi ritirata dal foco la casserola, rimestatevi dentro un pizzico di zuccaro e di vaniglia, tre rossi d'ova, e le tre chiare alla fiocca. Fate cocere a bagnomaria in stampo unto ed impanato. Si serve anche coperto di sabajone e cavollatte.
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Dolce di cioccolatta. —Tagliate un panetto francese in fette, bagnatele in due bicchieri di latte, e dopo due ore mettete il tutto a foco in
L'Olanda tiene il principale mercato del caffè di Giava, come la Germania di quello di Manilla, Londra e Liverpool di quello del Ceylan. Il Borbone à molta somiglianza col Moka dal quale ebbe origine, è una delle qualità più ricercate del mercato francese. Fra le mille varietà di caffè che ci manda l'America, la quale fornisce la metà del caffè che si consuma in tutto il mondo, quelle di Campinas, Jungas e Santos sono le migliori, le più scadenti quelle di Baja, Para, S.t Domingo. Il Caffè di Martinica gode riputazione universale, viene immediatamente dopo i migliori Moka. Il vero Martinica è raro però in commercio. Nel 1872 se ne esportarono, soltanto 6000 chilog. Sotto il nome di caffè di Martinica, oggi si vendono le qualità scelte ed accuratamente mondate di Guadalupa e Porto Rico. Questo è delle qualità più ricercate, ma si altera rapidamente se conservato in luogo non perfettamente asciutto. È impossibile dare una descrizione anche approssimativa del caffè buono: in generale dev'essere a grani uniformi. Il suo peso dipende dal grado di secchezza. Il caffè ci giunge tante volte, cattivo per vizio proprio, alterato per fermentazione, avariato dall'aqua marina. Oltre a ciò l'industria della sua falsificazione è delle più fiorenti: arriva a darci il caffè.... che non è caffè. Lo si bagna per accrescerne il peso, se ne sostituisce una qualità all'altra, lo si mischia, lo si colorisce, lo si sofistica in grana e crudo — in grana e torrefatto — torrefatto e macinato. Tutti i semi; tutte le radici, tutti i frutti, tutte le corteccie furono esperite a trovar materie da surrogare, mescolare al caffè. Abbiamo il caffè di cicoria, di carote, di tarassaco, caffè di fichi e di ghiande fabbricato in Germania, di lupini, di fecole, leguminose, caffè di dattoli, caffè di Mogdad (cassia occidentalis) altra particolarità tedesca, caffè d'orzo e di malto. Ne volete ancora? S'è arrivato fino alla lirica della falsificazione, a falsificare la falsificazione. Si falsifica anche quella porcheria di caffè di cicoria. Ma dove la falsificazione domina sovrana è nel caffè torrefatto e macinato. La più generale ed innocua è quella che si fà coi fondi di caffè, caffè già esaurito raccolto nei Caffè, Restaurants, negli Alberghi e particolare provento dei cuochi delle case signorili. In Francia abbiamo un'infinita serie di caffè, fabbricati con tutto quel che si vuole, meno il caffè. Fino dal 1718 Giorgio I, in Inghilterra multava i falsificatori del caffè da 20 a 100 sterline. Ora l'industria è libera.
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l'America, la quale fornisce la metà del caffè che si consuma in tutto il mondo, quelle di Campinas, Jungas e Santos sono le migliori, le più
Il caffè agisce sul cervello, eccita piacevolmente i nervi, rende più attiva la mente, più squisita la sensibilità, feconda la fantasia, e combatte il sonno. Il caffè non favorisce la digestione se non per questo che è caldo. Il caffè non fa mai male, anche il suo abuso non arreca gravi danni. Voltaire e Buffon ne bevevano molto. L'insonnia prodotta dal caffè non è penosa — percezioni luminose, e nessuna voglia di dormire, ecco tutto. Il caffè oltre il regalare del suo squisito aroma, liquori, confetture, paste, dà una bevanda allegra, deliziosa, ghiotta. Napoleone, che era quel che era, à detto del caffè: «Le cafè fort et beaucoup me ressuscite. Il me cause une cuisson, un rongement singulier, une douleur qui n'est pas sans plaisir. J'aime mieux souffrir que de ne pas sentir.» Parini lo cantò nel Mattino:
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. Voltaire e Buffon ne bevevano molto. L'insonnia prodotta dal caffè non è penosa — percezioni luminose, e nessuna voglia di dormire, ecco tutto. Il caffè
E prima di tutto fate aquisto d'un caffè sano, di vero caffè. Se il vostro droghiere ve lo somministra buono, non cercatene nè la provenienza, nè la qualità: chiudete gli occhi, che vi ingolfereste in un mare di assurdi e di difficoltà. Non comperate mai e poi mai il caffè tostato — peggio poi quello già macinato. Tostatevelo voi, macinatevelo voi. I semi del caffè non sono altro che una sostanza legnosa che nasconde in sè tutta una ricchezza d'aroma. È quell'aroma che si vuole e si deve cavare da quei semi. E il modo di cavarlo è — la tostatura prima, la bollitura poi. Nella prima operazione, la tostatura, si deve, condurre il seme allo stato di maturanza aromatica opportuno. Nella seconda, la bollitura, si segrega l'aroma, si spoglia la parte legnosa di quella sua graziosa proprietà, per dotarne l'aqua. Tutte e due queste operazioni richiedono una speciale attenzione. Tostate il vostro caffè nel tamburino a carbone, non alla fiamma, prima adagio perchè si scaldi, poi in fretta perchè non bruci. Quando comincia a tramandare quel sudore che lo rende lucido, toglietelo in fretta dal tostino, perchè l'aroma, mercè il grado di calore subíto, fa capolino dai tessuti legnosi, nella forma, comune a tutte le essenze, di olio essenziale, che è appunto quel sudore lucente. Se l'aroma, che è volatile, sorte, lo godrà il naso, non la bocca. Quel sudore non deve escire assolutamente. Non lasciatelo scappare — ritirate il vostro caffè che sia di un biondo foncè — color tabacco de' frati. Quando è nero, è bruciato, e bruciato è carbone e col carbone non si fà caffè. Versatelo distendendolo, fatelo raffreddare più presto che potete. Più presto si raffredda, tanto meno aroma si disperde. Il freddo è nemico capitale dell'aroma. Tostato e freddato mettetelo chiuso in vaso o stagnata, in luogo asciutto e volta per volta macinatene il solo bisognevole come volta per volta tostatene solo il bisognevole. La bollitura è quella che dà l'ultima mano a sprigionare l'aroma, a separarlo dal seme. Aspettate che l'aqua sia bollente a mettervi il caffè, rimescolatelo un po' — due bolli solamente — e via dal fuoco, copritelo. Tre piccoli cucchiaj ben colmi generalmente bastano per una tazza. Certo che con poco si fà poco, come con niente si fà niente. Più caffè adunque più aroma e sapore. Il caffè riesce come lo si fà — è un assioma. Il recipiente in cui deve subire l'ebollizione sia d'una pulitezza da cristallo, senza odore di sorta, (guardatelo da quel tanfo di chiuso, che è una cosa orribile) non c'è cosa come il caffè per assumere qualunque piccolo odore, è delicatissimo. Quando il caffè è buono, fresco, tostato convenientemente, messo in dose giusta e fatto, bollire come sopra, farete un caffè squisitissimo anche nel pajolo della massaja. Ma più lo si custodisce e lo si rinchiude, più conserva la natia virtù. Furono inventate mille fogge di macchinette da caffè, a infusione ed a pressione, razionali ed irrazionali, ma quella a pressione atmosferica, quale attualmente si trova presso quasi tutte le famiglie, è la migliore per comodità, poco costo e semplicità. Tale macchinetta, divenuta popolare, fu perfezionata nel 1856 da Monsignor Gius. Nicorini Canc. Ord.
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E prima di tutto fate aquisto d'un caffè sano, di vero caffè. Se il vostro droghiere ve lo somministra buono, non cercatene nè la provenienza, nè la
della Metropolitania di Milano. Mercè un tappo a smeriglio si fà salire l'aqua bollente allo staccio superiore, dove s'è messo il caffè lo vi si lascia bollire un po' e ritirata, mercè il vuoto successovi precipita il caffè limpido, saporitissimo. S' abbia però avvertenza: 1° a mettere il caffè sul piccolo staccio solo quando il vapore sorte a sbuffi dallo spiraglio; 2° a tappare lo spiraglio appena vi si è messo il caffè; 3° a tappar bene e non levare il tappo avanti sia precipitato il caffè, perchè se penetra un po' d'aria, addio vuoto e allora depone con tutto suo commodo. Ricordatevi dunque che il caffè si fà col caffè, che il caffè è una cosa di lusso, non è necessario. Non fate caffè gramo, è un vero delitto. Bando assoluto a qualunque sorta di ciurmeria di caffè. Se litigate colla borsa, bevetelo di rado, ma bono, ma fresco, ma che sia vero caffè. Non-offrite mai caffè gramo. Una tazza di caffè perfido, è un sacrilegio — e oltre l'insulto che reca alle papille olfattorie, e gustatorie, oltre i disturbi epatici dei quali può essere potentissima causa, può decidere moltissime volte dell'onorabilità di casa vostra, della stima di una persona, della rottura d' un'amicizia. Il caffè non deve essere mai fatto dalla servitù — deve essere esclusivo monopolio della padrona o della padroncina di casa. Pour la bonne bouche. — Sentite cosa ne disse Delille:
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levare il tappo avanti sia precipitato il caffè, perchè se penetra un po' d'aria, addio vuoto e allora depone con tutto suo commodo. Ricordatevi
Il Castagno è un albero a foglia caduca, indigeno, dall'Europa meridionale. Ama terreno sabbioso, argilloso non adombrato da altri alberi, e più d'ogni altro il montuoso. Non viene a più di 800 metri al disopra del livello del mare. Fiorisce in Luglio, dà frutti in Ottobre e per loro teme il freddo. Si propaga per semina, avendo cura di immergere prima il seme per 12 ore nell'aqua satura di fuliggine e noce vomica, o in olio bollito con aglio, acciò ri- mangano illese dagli animaletti. Nel linguaggio dei fiori: Sii giusto verso di me! Le varietà principali il Castagno propriamente detto, che fiorisce precocemente, il cui raccolto è quindi dubbio e dà un frutto piuttosto piccolo e poco saporito, ed il marrone che è più grosso, più saporito e nutriente. Il marrone si propaga per innesto sopra il castagno, perchè il marrone seminato produce nuovamente il castagno. Il castagno comincia a fruttificare cinque anni dopo l'innesto, e verso il 60° dà il massimo prodotto. Le piante non innestate, ritardano e sono meno produttive. A 150 anni comincia a deperire e raggiunge i 3-4 secoli. Il raccolto si fà quando alcuni pericarpi cominciano ad aprirsi, un ettolitro di castagne pesa 80 kilogrammi. La castagna fresca contiene 48 % d'aqua e 0,52 d'azoto — il marrone fresco, 54 d'acqua, e 0,53 d'azoto. — La castagna secca, contiene ancora dal 10 al 12 d'aqua, e 0,77 d'azoto ed il marrone secco contiene 1,17 ° d'azoto. Si conserva la castagna nel proprio involucro in locali asciutti e ventilati o dissecandola pei graticci. Le castagne messe sui mattoni delle camere, marciscono presto e sono preda degli insetti. Si conservano più a lungo e saporite facendole prima essicare alcun poco al sole. Il castagno dell'Etna avrebbe secondo alcuni 59 m. di circonferenza. La castagna, il qual nome si vuole venuto da Castano Magnesia, città della Macedonia è la sposa del focolare, la ghiottoneria dei fanciulli, la Dea delle chiacchere e delle mormorazioni, l'amica del vino generoso e nuovo, ed è maritata in nozze morganatiche al Dio Eolo. È eminentemente farinosa, dà una sana ed abbondante nutrizione. La lessata è più digeribile, irroratela di vino generoso se non confà al vostro stomaco non ditene male. Mille le maniere di far cocere le castagne. A lesso dette succiole o Ballotte, cotte in poc' aqua sale, finocchio, anice, o con una pianta di sedano. Lessate monde (peladei o pest) sbucciate e cotte con o senza la loro peluria in aqua, sale ed erba bona. Anseri o Vecchioni (Bellegott) quando cotte a lesso, si fanno dissecare al fumo nel serbatojo, sotto la cappa del camino (agraa). Il nome di Bellegott viene da bei e cott, (belli e cotti) Bruciate (Borœul) cotte nella padella a fiamma. Biscotti (Bescott) varietà dei Vecchioni, si mettono a seccare col guscio e poi si tengono alcun tempo nel mosto. A questi appartengano i cuni, da Cuneo, loro provenienza, cotte in forno spruzzate di vin bianco serbevoli per molti mesi, delicatissime. Le Veronesi (Veronès) così dette perchè tale maniera di cocerle, ci venne dal Veronese — e si cociono nel forno o nella stufa spruzzate di vino, o con poco burro in casserola. I marroni si fanno anche candire nello zuccaro dopo essere stati arrostiti e si chiamano marron glacès è confettura da dessert. La castagna forma l'alimento principale dei montanari. Nel Sienese se ne fa polenta, che nutrisce i più strenui faticatori, i quali non avendo che aqua da bere dicono scherzando che vivono: del pane dei boschi e del vino delle nuvole. Il Castagnaccio è una specie di pane fatto con farina di castagna, pinocchi ed uva. Fino dalla più remota epoca le castagne tennero il primato fra tutte le sorte di ghiande. Ateo, insigne medico di Antiochia, che le chiama Sardinias glandes, perchè le migliori qualità venivano dalla Sardegna, non si perita a rilasciar loro il brevetto di alimentum effatu dignum — cibo di straordinaria celebrità — ma, soggiunge che va alla testa — caput tamen tentare. Bello! quelle castagne che vanno alla testa... invece. Galeno, si capisce che non poteva digerirle e ne dice corna: Gastanœ sive elixentur, sive œstuantur, sine denique frigantur, semper sunt pravœ. Il che vuol dire comunque le ammaniate, sono porcherie. Plinio invece di visceri a prova di bomba, dopo aver detto che dai Greci i marroni erano chiamati Balani Sardi (da Balanos, ghianda) testifica che sono eccellentissime: — castanearum genere excellens; e che celerius transmittuntur che è quanto, di facilissima evacuazione. Virgilio, più sibarita, le mangiava col latte: Castanœ molles, et pressi copia lactis (Egl. 2). Tiberio adoperava la parola balanum per indicare i vegetali più saporiti. Anche i Romani adoperavano la castagna per farne la farina e pane, come si fa ancora oggidì presso alcune popolazioni. La castagna è da fuggirsi da chi patisce il mal di pietra, soffra di ernie o vada soggetto a coliche. Francesco Gallina, medico Piemontese, forse da Cuneo che fioriva all'alba del secolo XVII raccomanda di mangiare le più grosse, — perchè sono migliori di tutti li marroni, e se per lungo tempo si conservano si fanno più saporiti. E suggerisce alle ragazze bionde, di adoperare il decotto delle loro buccie per conservare il dorato dei loro capelli. È voce di scienza popolare, che mangiando le castagne crude, si popoli la capigliatura di cavalieri erranti. Raccolgo per ultimo la spiegazione chi mi fu data da un R. Padre Oblato di S. Sepolcro a Milano sulla espressione: far marrone. Egli dunque mi diceva, che viene da questo, che chi mangia i marroni difficilmente lo può nascondere e ne è quasi sempre sorpreso. Tutto per quello scandaloso matrimonio col Dio Eolo.
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nascondere e ne è quasi sempre sorpreso. Tutto per quello scandaloso matrimonio col Dio Eolo.
Pianta sempre verde, della famiglia degli aranci e dei limoni, coi quali divide l'origine e la maniera di coltura. Coltivasi molto in Italia, nella Provenza e nel Portogallo. Resiste al freddo più dell'arancio e del limone. Nel linguaggio delle piante significa: Costanza. Il frutto del cedro, altrimenti detto cedrato, è più grosso del limone, è oblungo, rugoso, di color giallo-verdognolo, à scorza spessa aromatica e tenera, polpa alcun poco acidula. Ve ne ànno cinque varietà. La parte usata è la scorza, che si candisce e si confetta in grossi spicchi, che tagliati in piccoli pezzi servono in cucina per condire frutte giuleppate, per mettere nello scharlotte, e al confetturiere per regolarne il panettone ed altre paste dolci. Lo si unisce pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò, celebrata come cardiaca, aromatica antispasmodica e indicata maggiormente nelle affezioni nervose, che le signore del secolo passato poetizzavano col nome di vapori. Dalla scorza si cava anche un olio essenziale prezioso e grato come l'essenza di Neroli. I semi, al pari di quelli del limone e dell'arancio, servono a far emulsioni amare. Il nome suo vuolsi derivi dal torrente Cedron della Palestina. Secondo Teofrasto Eresio sarebbe originario dalla Persia; Dioscoride chiamandolo cedro-mela lo farebbe venire dalla Media e dalla Siria e lo suggerisce alle puerpere. Vetruvio tramanda che dal cedro se ne cavava un olio, che serviva a preservare dalla carie e dalle tignuole i libri e le altre cose che con quello si ungevano, onde quel verso di Ovidio: «Nec titulus minio, nec cedro cartha notetur, (Trist. 1).» Del resto la storia del cedro si confonde con quella dell'arancio e del limone. I famosi cedri del Libano nulla ànno a che fare con questo cedro, essendo essi della famiglia del pino (pinus cedrus).
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pure ai pezzi duri dei gelati e nella mostarda. Crudo non è buono. Dal frutto intero si distilla l'acqua di tutto cedro che si fabbrica a Salò
Zuppa di ciliege o marasche. — Fate sciogliere in un litro di vin rosso due ettogrammi di zuccaro se trattasi di ciliegie, e tre se marasche, un po' di canella, qualche chiodo di garofano e la scorza verde di mezzo limone. Al primo bollore toglietene la schiuma, e con essa le droghe ed il limone. Addensato il sugo, gettatevi dentro le ciliegie o le marasche (nella dose di un chilo) dopo d'aver loro tolto i noccioli. Dopo alcuni subbogli versate il tutto su delle fette di pan francese. Servite questa zuppa fredda o ghiacciata.
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il tutto su delle fette di pan francese. Servite questa zuppa fredda o ghiacciata.
Svetonio ci riferisce che ad Augusto piacevano sommamente i fichi freschi, e che li mangiava anche prima di cena — Ficos virides biferas maxime appetebat vescebaturque ante cenam. Cap. 7. I fichi presso i Romani erano impiegati a provocare lo sviluppo del fegato nei volatili. Fra i piatti, che Orazio numera nella Satira del Banchetto, figura il fegato di un'oca bianca, nutrita da molto tempo con fichi grassi. Pierius sosteneva che il nettare, l'ambrosia degli Dei era il sugo del fico. Ippocrate nel lib. 2 De Dieta, dice: Est et ficus cum cibis bona et meracum vinum abipsa. Cioè di bergli sopra del vino — tutto all'opposto del nostro proverbio: al fico l'aqua ed alla pera il vino. La tradizione vuole che la calata dei Normanni si debba al fico - che erano golosissimi di provarne la tanto decantata bontà. Scrive, infine, il Savonarola, che al suo tempo, in Padova, un garzone mangiò 40 libbre di fichi al padrone, et poi si morì ethico. Castor Durante fece un poema sul fico nel 1617. La tradizione vuole che Giuda si appiccasse ad una pianta di fico.
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sopra del vino — tutto all'opposto del nostro proverbio: al fico l'aqua ed alla pera il vino. La tradizione vuole che la calata dei Normanni si debba al
Il nome di Fungo — dal greco Sphongos, sponga, a cagione della loro sostanza spongiosa, d'onde il Fongus dei latini — è dato a certe vegetazioni che si allontanano dalla comune, per natura, sostanza, forma, mancanza di foglie, di fiori. Ve ne sono d'ogni grandezza, d'ogni forma, filamentosi, membranosi, schiumosi, tuberosi, a carne consistente, spongiosa, coriacea, sugherosa, compatta. Alcuni danno seme, altri no. Infinito il numero delle specie: se ne conoscono più di 3000 varietà, ve ne sono in famiglia, a gruppi, solitari. Aderiscono al suolo o sul corpo sul quale vengono, per mezzo di fibrille, che non sono radici. Esalano un odore particolare ed umido, che è comune a tutti, con alcune gradazioni fra le diverse specie. Il sapore non è meno variabile — ordinariamente è sapido, acre, bruciante, stittico acido nauseante, aromatico a seconda del sugo del quale sono imbevuti. Amano luoghi boschivi umidi e grassi, vengono sulle sostanze vegetali ed animali in decomposizione. L'umidità calda ne genera lo sviluppo e la moltiplicazione principalmente in Autunno e Primavera. Vogliono i climi delle zone temperate. Le stesse specie di funghi non compariscono indifferentemente in tutte le stagioni. L'Asia boreale, la Cina, l'America settentrionale abbondano di funghi. Ànno sviluppo rapido, istantaneo compariscono da prima come piccoli filamenti o fibre che poi si tumefanno e s'ingrossano e crescono tosto a vista d'occhio a formare il fungo perfetto. Questo primo stato si chiama carcite o bianco di fungo. Una sola notte vede apparire migliaja di funghi, alcune ore, alcuni minuti bastano, a diverse specie per pervenire al loro ultimo sviluppo. L'assenza della luce e un'atmosfera tranquilla accelerano singolarmente la loro moltiplicazione. Pervenuti alla maturità emettono de' piccoli corpuscoli tondi, chiamati seminoli, è l'ultimo loro prodotto, come i semi nei vegetali. Sono finissimi, quasi polvere e situati sia nell'intera superficie, sia nella superficie superiore, sia internamente e vengono alla luce per laceramento o morte del fungo. La pioggia li fà deperire facilmente. Sono preda degli insetti e di alcuni animali erbivori, e i più avanzati in età, sono preferiti dagli insetti. E annesso dai chimici che sono potentissimi agenti d'ossidazione, e d'azotazione. I commestibili contengono secondo le varietà da 84 a 94 parti d'acqua, il resto è un composto di sali e sostanze organiche, vale a dire olii essenziali, materie resinose, grasse, coloranti, zuccherine, acidi organici diversi, materie gelatinose, gommose, raramente fecula-cellulosa, di composti azotati albumine ecc. Altri sono eduli, altri velenosi. Teoreticamente è impossibile dare una ragione, un indizio che distingua sicuramente gli eduli dai velenosi. Bisogna affidarsi, più che al medico alla conoscenza pratica locale delle specie, della forma, taglio, colore, aspetto, odore e sapore. A migliaja sono gli scienziati che ne parlarono, e tra questi il milanese Vittadini (1), ma fin ora la scienza non à detto l'ultima sua parola. S'è bensì trovata la maniera di coltivarli, ma su tante specie di funghi saporiti, appena s'è riescito di coltivarne le meno pregiate. Il progresso verrà non dubitiamone. Ma frattanto occhio alla padella! In generale rifiutare tutti i funghi non sani, o che cominciano a decomporsi, quelli che rotti tramandano un'umore lattiginoso, che crudi sono acri, che tingono in rosso la carta azzurra, che presentano una superficie viscosa, od umida, o macchiata, o brinata, che cambiano di colore rompendosi. Non vi affidate mai ai volgari esperimenti, che i funghi velenosi anneriscono il cucchiale d'argento, la cipolla, ed il prezzemolo ecc. Non acquistate mai funghi secchi sulla piazza, nè dal droghiere. Non mangiate funghi alle osterie, alberghi, principalmente di campagna. Se la vostra golaccia vi à pigliato nel trabocchetto e avete mangiato funghi velenosi — eccovi la ricetta del Mantegazza. Prima di tutto sappiate che il più delle volte i sintomi dell'avvelenamento compajono molto tardi, magari sette od otto ore dopo il delitto. Appena v'accorgete vomitate, cercate liberarvi subito delle materie velenose col vomito e col secesso. Cacciatevi due dita in bocca, la barba di una penna, aqua tepida molta — e se non vi riesce: solfato di rame o di zinco: mezzo grammo in cento grammi di aqua comune, — a cucchiaj ogni 5 minuti: purganti forti. Calmate i dolori con cataplasmi sul ventre — e se vi coglie stupefazione, cognac, rhum e frizioni secche ed aromatiche. Non prendete mai latte, compireste l'opera del veleno.
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— eccovi la ricetta del Mantegazza. Prima di tutto sappiate che il più delle volte i sintomi dell'avvelenamento compajono molto tardi, magari sette od otto
Modo di fabbricare l'acetosa. — Si empie un vaso di lamponi ben maturi e vi si aggiunge quanto aceto può contenere. Dopo otto giorni di macerazione, si passa tutto allo staccio e il liquore aromatico che ne risulta si pone in bottiglie che si chiudono ermeticamente.
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, si passa tutto allo staccio e il liquore aromatico che ne risulta si pone in bottiglie che si chiudono ermeticamente.
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
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dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S'addatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire — à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. La parola nux, da dove noce, viene da nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura, rotti i gusci, si torchiano subito perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4, 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarvele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca, che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essicando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert. Pan e nôs, mangia de spôs dice un proverbio. Immatura ed intera, vien confettata collo zuccaro ed il miele e forma uno dei più grati componenti la mostarda. Brillat-Savarin ci racconta che le monache Visitandines di Bellay avaient pour les confire, une recette qui en faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di wermouth, e dietro infusione alcoolica se ne fabbrica un rosolio, o ratafià, che gode meritata fama di stomatico e roborante. Nella Virginia e nella Luigiana coi frutti di quelle noci si confeziona del pane. I Greci Mainotti, le fanno bollire col mosto del vino e ne compongono l'halvez che è uno dei più delicati loro manicaretti. In Francia ne fanno il nouga, espèce de conserve brulèe, avec les noix sèches et pelèe. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina, per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essicativo è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato facilmente annerisce e tinge in nero giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola, in una gentil pelle brunetta » dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare ecc. L'ombra del noce è dannoso alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impregnato di tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse — e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalalgia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza, e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco principalmente presso i nostri fratelli del Cantone Ticino. Dal tronco se ne può cavare con opportune incisioni sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. L'olio è usato come antielmitico, e purgativo internamente, (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidœ. Dioscoride le chiamava biliosœ, tussientibus inimicœ, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est . Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario, della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei Re, e le migliori qualità, le chiama persica, ma secondo una memoria del Dott. Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinœ. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 6.). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico
Conservazione delle noci. Colte le noci al punto della loro maturanza, dovete subito riporle sotto la sabbia asciutta ed in luogo fresco. Con questo modo conserverete le noci fresche per tutto l'anno.
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modo conserverete le noci fresche per tutto l'anno.
La Myristica moscata è pianta ramosa, sempre verde, che si eleva fino a 15 metri, rassomigliante l'alloro, originaria delle Molucche, ora coltivata nell'Isola di Banda, a Cajenna, alle Antille, Brasile e Perù. Nel 1864 Banda, ne possedeva 266,000 piante. Si propaga per semi, ed alcune specie di colombe, segnatamente la carpaphora concinna, ànno una parte attiva nella sua disseminazione trangugiando il frutto, ed evacuando il seme che conserva e forse è favorito nella sua facoltà germinativa, dal passaggio per i loro intestini. À fiori piccoli, biancastri, che lasciano il posto a drupe, o frutti carnosi, grosse quanto un'albicocca, che si aprono in due valve, e lasciano vedere un seme ovoidale nerastro, duro, che è la sua vera noce. Essa è circondata da una pellicola o arilla di color rosso arancio, e frangiata quando è recente, ma che diventa gialla colla essicazione ed è ciò che noi denominiamo macis. Nel linguaggio delle piante: Potenza. La raccolta di queste noci si fa in Aprile, Luglio e Novembre, le qualità migliori sono colte a mano quando sono mature. Sul mercato inglese si valutano le noci moscate dalla loro grossezza, quelle che anno circa 2 centim. e mezzo di lunghezza, sopra 2 di larghezza, e dalle quali bastano soltanto quattro a formare un'oncia, sono tenute in alto pregio. Il macis lo si separa dal seme, lo si fa essicare al sole, dopo averlo immerso nell'aqua salata, ciò che gli conserva morbidezza ed impedisce la volatilizzazione del principio aromatico. È d'uso molto frequente in cucina e nella pasticceria. Le noci ispogliate del loro arillode, vengono rapidamente essicate in camere affumicate, sino a che lasciano il loro sottile inviluppo. Così essicate vengono in commercio, subendo però prima ancora un bagno di latte di calce, ciò che in China si omette. Le migliori noci moscate, sono quelle rotonde, pesanti, fresche, odorose, tramandano un sugo oleoso, aromatico, grasso. La noce moscata ed anche il macis contengono olio volatile, nel quale risiede tutta la loro energia, un'olio fisso, una sostanza buttirosa volatile, ed un principio estrattivo solubile nell'alcool molto odoroso ed attivo. Questa sostanza buttirosa che forma circa il quarto del suo peso, è conosciuto sotto il nome di burro di noce moscata. Viene falsificato con miscela di cera gialla, sego e polvere di curcuma. La noce moscata viene essa pure falsificata con quella tarlata dagli insetti, quella vecchia, amuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro di noce moscata. A Marsiglia, certi industriali la preparano con crusca, argilla e detriti di noce moscata, ma nell'aqua si stemperano completamente. Jobard di Bruxelles riferisce, che, or sono una ventina d'anni circa, è arrivato da Canton un bastimento inglese, carico di.... noci moscate di legno bianco, perfettamente modellate ed imitate. La noce moscata è fra gli aromi uno dei più potenti ad eccitare l'inerzia del ventricolo, a dar vita al cuore. Regala di graditissimo sapore molti manicaretti, sì di carne, che di verdure e d'ova. Entra graticciata non solo in cucina e nella pasticceria, ma nella distilleria, fà parte di varj elisiri, tinture rosolii ecc. Il macis è uno dei componenti l'aceto dei tre ladri. I medici assegnano alla noce moscata virtù toniche ed eccitanti. Se ne adopera l'olio in frizioni delle parti paralizzate. Averroè vuole, che la noce moscata non fosse conosciuta dai Greci e dai Romani. Avicenna antico medico Arabo (n. 980+1037) la conosceva e dice che gli Arabi la chiamavano Jausiband, cioè noce bandese, e doveva essere noto anche agli antichi Egizi, perchè ne abbiamo trovati alcuni frammenti nelle loro mummie e si crede fosse ingrediente dei loro balsami a conservare i cadaveri. Serapione, nel 2º libro dei semplici, la descrive appoggiato all'autorità dei Greci. Galeno la chiama crisobalano.
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tarlata dagli insetti, quella vecchia, amuffita, esaurita colla distillazione e con quella fabbricata di tutto punto con pasta di farina, polvere e burro di
Il pepe lungo (piper lungum, macro piper) nasce nel Bengala e nelle Isole Molucche, à gettini lunghi un pollice circa, grossi come una piccola penna da scrivere di color cenere. Il loro sapore è più acre e meno grato del pepe nero e di un odore perfettamente simile. Entra nella composizione di alcuni elettuarj, ma il consumo maggiore si fa dagli acetai, i quali lo infondono nell'aceto debole per renderlo acre. Gli Indiani poveri lo macerano nell'aqua e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoja e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne pure chiamato pepe lungo il nostro peperone. Il pepe della Giammaica, o pimento degli inglesi, o pepe garofanato, è della grossezza d'un pisello, d'un color grigio rossastro, rugoso. À odore aromatico analogo a quello della canella e del garofano, sapore piccante quanto il pepe. Questa droga è di gran uso nei paesi caldi in Germania ed in Inghilterra per condire le vivande ed è uno dei principali ingredienti per la composizione delle spezie. Quello che si usa sotto il nome di pepe di Cajenna (1), non è altro che il seme e la capsula seminale di una pianta selvaggia del Sud dell'America, che è coltivata nelle Indie e che si chiama Capsicum baccatum, annuum et fructescens. Poche sostanze fino dai tempi remotissimi furono oggetto di tante falsificazioni quanto il pepe. Una buona regola è quella di comperar sempre pepe in grana, e di polverizzarlo da voi a norma del bisogno, valendosi di quei piccoli macinatoi di pepe, oggi molto diffusi. Per falsificare il pepe nero servono farine d'ogni genere, segatura di legno, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo si falsifica in polvere ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma Chevallier, v'à una fabbrica che produce annualmente 1500 chilogrammi di una miscela che si vende unicamente per adulterare il pepe. Riesce facile riconoscere il falso pepe in grana, mettendolo nell'aqua, che allora i falsi grani vanno prontamente al fondo e si sciolgono in poltiglia. Il pepe è un'aroma potente e popolare che condisce la minestra del povero e rende pizzicanti gli intingoli del ricco. Eccita la salivazione, favorisce la digestione, ma irrita preso, smodatamente, gli intestini delicati. È veleno per gli emorroidarj, gli erpetici, conviene ai flemmatici. Da Aristotile, Egineta, Dioscoride, Serapione, era tenuto avente benefici effetti sulla vista e nei giramenti di capo. Se non rinfresca, scioglie ed abbassa molti umori e non è del tutto stramba la lezione della scuola Salernitana:
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tutto stramba la lezione della scuola Salernitana:
Il Pesco è pianta a foglia caduca, indigena, originaria dall'Asia e più propriamente, come lo indica il suo nome, della Persia. Cresce in terreni buoni, caldi, ad esposizioni meridionali, difese dai venti. Vive anche nei climi freddi, ma non dà frutti. Si moltiplica per seme ed innesto sul Mandorlo, sul Pruno e sul Cotogno. Vuolsi che dia frutti migliori e più belli piantando la pesca intera colla sua polpa. Cresce rapidamente, dopo due o tre anni dà frutto, ma presto invecchia e deperisce — pochi peschi passano i 20 anni. Si allunga la loro vita innestandoli sul mandorlo. A fiori rosei prima delle foglie, che sono distrutti facilmente dalle brine e dalle forti pioggie primaverili. Dà frutti maturi da Luglio ad Ottobre, a seconda delle varietà, che sono numerose assai. I botanici dividono il pesco in due famiglie, quello a frutto coperto di pelurie, e quelle a frutto liscio — ambedue suddividonsi alla lor volta, in frutto a polpa e carne succosa, spiccaciola, che facilmente abbandona il nocciolo, e in frutto a polpa consistente duracina, che non si stacca dal nocciolo. La pesca è matura, quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla — in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fà marcire. L'Erera, botanico spagnolo, dice che se si adaqueranno i persici, con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore — vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca, è frutto giocondo che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe. È squisitissimo, salubre, profumato di facile digestione, si mangia fresco e si fà seccare per l'inverno, e allora si chiamano da noi veggitt. I cuochi ne fanno fritture, polpettine, persicata, sorbetti, marmellate. Il loro delicato aroma è sì sfuggevole che invano si tenta fissarlo completamente nelle conserve, nei liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell'osso: Malum quod implicuit persicum nucleus explicat. Diceva un antico proverbio latino, il che vuol dire che bisogna mangiarne anche l'amanda. Certe signorine troppo schifiltose non possono soffrire la lanuggine della sua pelle ed è precisamente nella sua pelle che si conserva il massimo tesoro della sua fragranza, come è nella pellicola dalla sua amanda che maggiormente si raccoglie l'amaro che possiede. Si ricordino del proverbio: all'amico pela il fico, al nemico il persico. Per saporire la pesca va mangiata senza pelarla e senza tagliarla. Le foglie ed i fiori del pesco sono velenosi, contenendo acido idrocianico, tuttavia in medicina se ne fà uso qualche volta come contro stimolanti e vermifughi. I fiori e le foglie recenti, ànno inoltre una virtù purgativa, se ne fà infusione e sciroppo, perdono molto coll'essicazione. In caso di avvelenamento coi fiori, foglie o mandorle de' suoi frutti, si soccorre con etere al quale s'aggiungono una ventina di goccie di laudano. Coi frutti ben maturi, che passano facilmente alla fermentazione, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma arabica. La Scuola Salernitana sentenzia:
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liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell
Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
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il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi
Cotognata. Prendete 4 chili di cotogni, fateli cocere in 10 litri d'aqua tagliati in quattro — ridotti in pasta passateli allo staccio, aggiungetevi 3 chili di zuccaro, fate bollire a foco lento e ridotto il tutto in pasta consistente versate nelle forme.
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3 chili di zuccaro, fate bollire a foco lento e ridotto il tutto in pasta consistente versate nelle forme.
Conserva. Si riducono in sciroppo due chili di zuccaro entro al quale si farà cocere un chilo di mele cotogne, monde della pelle e dei semi. Indi si levano le dette mele dallo sciroppo, si pestano in un mortajo di marmo e si passa allo staccio. Eseguito ciò si unisce di novo la polpa delle mele allo sciroppo e si fa cocere il tutto sino a giusta consistenza di conserva.
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allo sciroppo e si fa cocere il tutto sino a giusta consistenza di conserva.