Il Ribes è un arboscello europeo a foglia caduca, originario dell'Arabia. Il suo nome da Ribiz, parola araba, che significa cosa acidula. Vuole clima temperato, nei paesi caldi il frutto à poco sugo, nei freddi è troppo acido. Ama terreno sciolto e fresco. Si moltiplica per semi, margotte e talee. Si educa a spalliera ed a siepe. À fiori odorosi in Aprile e matura più o men tardi a seconda delle varietà. Di queste se ne conoscono 31, ma le principali sono: il ribes ordinario, (ribes rubrum) con frutto a grappolo rosso e bianco più o men grosso. L'uva spina o d'Inghilterra (ribes uva spina, ribes grossularia): Mil. Uga spina, Fr. Gadelier. Ted. Stachelbeere. Ingl. Roug Goosberry, che cresce a grappolo ed à frutti più grossi, e carnosi e meno acidi. Finalmente il ribes nero (ribes nigrum) di sapore più aromatico, odorifero in tutti i suoi organi, a foglia variagata. La più coltivata, è la prima specie il cui frutto vien conservato allo stato fresco e serve a far sciroppi e bevande spiritose. Se ne estrae anche acido citrico. La seconda specie, che conta pure le sue varietà, è coltivata con arte raffinata dagli Inglesi, che ne preparano il loro rinomato vino d'uva spina. Del ribes nero, gli Svizzeri ne fanno pure una bevanda spiritosa, una specie di ratafià detto Cassis. Nel linguaggio dei fiori: Tu fai la mia delizia. I frutti del ribes rosso, si mangiano crudi, si conservano in aquavite, si candiscono, se ne fanno giulebbi, e serve pure a far salsa, aque, sciroppi e sorbetti. Serapione ne parla, ed è lui che ne indica l'origine africana. Le donne e le ragazze amano molto questo frutto che dà l'aspretto del limone. L'uva spina, era detta da noi anche uva crispina e marina e la si metteva nelle minestre, guazzetti ed intingoli ai quali communicava un certo bruschetto grazioso, dice il Pisanelli. In medicina è considerato un rinfrescante ed un astringente.
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specie, che conta pure le sue varietà, è coltivata con arte raffinata dagli Inglesi, che ne preparano il loro rinomato vino d'uva spina. Del ribes
Conserva di grattaculi. — Prendete grattaculi maturi, metteteli al sole un pajo di giorni ad appassire. Indi poneteli in fusione per un pajo di giorni nel vino. Fateli bollire in caldaja nel medesimo vino a che siano disfatti. Se abbisogna aggiungetevi vino. Ridotti in poltiglia passateli allo staccio doppio, intanto che sono caldi. Mettete altrettanto peso di zuccaro in un padcllotto con un bicchiere d'aqua per chilo di zuccaro, e fate bollire. Purgate lo zuccaro con un chiaro d'ova e schiumate, e quando lo zuccaro è limpido e fila, unite la salsa, rimenate con spatula di legno incorporate il tutto a fuoco — fatene evaporare bene l'umido della pasta e versatela in un vaso di terra conservandola chiusa in luogo asciutto. Se amuffisce è segno che non è cotta abbastanza, rimettetela ancora sulla pentola. Si allunga, per gli usi, con vino, aceto, limone, tanto a freddo, come a caldo. È squisitissima col lesso, coll'arrosto e colle ova principalmente quelle in camicia. Nè voglio terminare senza suggerire; alle signorine, che anche colle altre rose, in ispecie quella comune (Rosa gallica, rosa fragrans), la rosa d'orto, la rosa rossa, quella di Maggio insomma della quale gli speziali fanno un'infusione per uso esterno nelle oftalmie principalmente, si fanno conserve e sciroppi. Ecco la ricetta. Prenda adunque la signorina dei bottoncini di detta rosa, li separi dal gambo, li ammacchi con pestello di legno in mortajo di marmo, finchè li riduca in massa molle e allora vi aggiunga due volte il loro peso, di zuccaro fino, polverizzato agitando e rimestando la massa onde formi un tutto omogeneo. Questa conserva à sapore dolce, ed odore di rose, è rinfrescante ed è leggermente astringente. Se invece dei bottoni di rosa si volessero adoperare per comporla le foglie fresche o secche, in allora invece di impastarla collo zuccaro, quale ò detto sopra, si userà lo zucchero stesso cotto a manuscristi, evaporando poscia la massa a lento calore fino a consistenza di conserva. Avvertite che le rose allora vanno colte prima che si aprano del tutto. Nel medesimo modo si prepara la conserva d'assenzio ecc.
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giorni nel vino. Fateli bollire in caldaja nel medesimo vino a che siano disfatti. Se abbisogna aggiungetevi vino. Ridotti in poltiglia passateli allo
Il Susino di macchia o Pruno selvatico; (Prunus selvatica, spinosa, Druparia spinosa) comune nelle selve, macchie e siepi dà fiori odorosi in Marzo ed Aprile, frutto nero violaceo in maturanza verso il Settembre, di sapore acido aspro. La scorza del suo tronco e della radice contiene tannino e viene usata nelle arti alla concia delle pelli e a farne inchiostro, è astringente febbrifuga. Le foglie pure sono astringenti. La sua aqua distillata à virtù deprimente quasi come il Lauro cereso, i bottoni e i fiori sono lassativi. Le drupe essendo aspre, danno bon aceto. Mature servono a colorire il sidro ed il vino, anzi a fabbricarne una specie che chiamasi piquette in Francia, Scheleckenwein in Germania, seccate al sole ed infuse in vero vino gli danno sapore austero. Colla distillazione soministrano un'aquavite abbastanza spiritosa, ed acconciandole con alcool zuccaro ed aromi se ne ottiene un grato rosolio.
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sidro ed il vino, anzi a fabbricarne una specie che chiamasi piquette in Francia, Scheleckenwein in Germania, seccate al sole ed infuse in vero vino
Susine secche al giulebbe. — Prendete delle susine di Provenza, od anche Damascene nella dose di otto ettogrammi, bagnatele con aqua tepida, e lasciatele rinverdire per un'ora. Cocete poi le susine in un bicchiere di vino rosso con 200 grammi di zuccaro, canella e qualche chiodo di garofano e una scorzetta gialla di limone, quando appariranno cotte e gonfie, toglietele dal loro sugo, e disponetele asciutte sul piatto. Concentrate a parte il sugo finchè assuma la consistenza del giulebbe e versatelo sulle susine.
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lasciatele rinverdire per un'ora. Cocete poi le susine in un bicchiere di vino rosso con 200 grammi di zuccaro, canella e qualche chiodo di garofano e una
Il profumo del tè, è volatile, non deve essere quindi esposto nè all'aria, nè alla luce: conservatelo in vasi chiusi ed opachi. Il tè, s'impregna assai facilmente degli odori anche i più deboli: non mettetelo a contatto con sostanze odorose, anche quando l'odore di queste è gradevole. Troppo vecchio — perde, è passato. Troppo fresco è acre ed amaro. I Chinesi lo colgono di un anno. Aquista ad essere trasportato per mare, come il vino. La falsificazione del tè, è antichissima ed incomincia in China e nel Giappone per essere perfezionata in Europa dagli Inglesi. Si falsifica, coll'addizione di materie minerali, per aumentarne peso e volume, colla colorazione artificiale, colla rivivificazione dei tè esauriti, cioè già spogliati dei loro principî solubili: è industria tutta inglese. A Londra lo si raccoglie già usato nei caffè, negli alberghi, nei mucchi di lordure dei più sporchi quartieri di Shang-Hai. Nel 1843 a Londra ve n'erano otto fabbriche che lo falsificavano con sostituzione di foglie straniere, frassino, pioppo nero, platano, quercia, faggio, olmo, spinobianco, alloro, sambuco ecc. Del resto molte piante danno foglie che possono surrogare benissimo il tè. A Sumatra si servono delle foglie del caffè. Nell'America del Sud e nel Paraguay sostituiscono al tè, il mate che chiamano tè mate. (Ilex paraguayensis). Nel Bacino delle Amazzoni col guaranà (Paullinia sorbilis), nella Bolivia colla coca (Erytroxylon coca), che venne messa in musica su tutti i toni, dal Mae.° Mantegazza. Volgarmente il tè, viene denominato dalla sua immediata provenienza — tè d'Olanda, di Russia ecc. Il tè fu primieramente introdotto dagli olandesi verso il 1610 che lo ricevevano dai chinesi in cambio della salvia (1). Il tè nei Paesi Bassi serviva a disegnare i fautori del Principe d'Orange e degli Inglesi, che lo preferivano al caffè.
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vecchio — perde, è passato. Troppo fresco è acre ed amaro. I Chinesi lo colgono di un anno. Aquista ad essere trasportato per mare, come il vino. La
L'Uva è il frutto della vitis fructifera, frutice perenne arrampicante, che può elevarsi a grande altezza e sostenersi, a foglia caduca, indigeno, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non matura bene al di là del 47° grado di latitudine, e la bianca del 49°, nè si eleva oltre i 600 metri. Vuole esposizione meridiana, teme l'umido soverchio, i continui venti, il freddo e le brine. Ama terreno sciolto calcareo argilloso, il terziario. Si propaga per seme, margotte, innesto, ma più comunemente per gemme. Numerose le sue varietà, essendo coltivata da molto tempo ed in condizioni svariatissime, onde si possono delineare i suoi frutti in uve bianche e nere, a sapore semplice e a sapore profumato, infine in uve da tavola e uve da vino. La vite dopo 40 anni comincia a deperire. Fiorisce in Maggio e matura a seconda della qualità e particolari condizioni da Agosto ad Ottobre. Si coglie a maturanza perfetta e perfettamente asciutta tanto per mangiarla, allo stato fresco, come per conservarla o farne vino. I più antichi botanici pretendevano che la vite fosse originaria dall'Asia, che i Fenicj l'avessero importata nelle Isole dell'Arcipelago, i Greci in Italia, i Francesi nelle Gallie, ecc. Ma il trovarla anche fra noi spontanea ed incolta nei boschi, fa perdere la fede a quel blasone di esotica nobiltà. Il nome vite vuolsi da parola celtica che significa albero, ma meglio lo si deriva dal latino vis, forza. Nel linguaggio delle piante significa: Ubbriachezza. Uva, viene da uvidus, pieno, pingue. L'uva, dice. Il Mantegazza, è frutto allegro, dolce, bello, galantuomo, rinfresca e nutrisce, l'uva è il più utile e proficuo dei frutti. Oltre il principale uso che si fà dell'uva — il vino, del quale dirò negli anni venturi, essa si mangia allo stato fresco, allegra la tavola, serve al cuoco nella cucina, al pasticciere per la credenza e la dispensa. I fiori ànno una fragranza gratissima, che ricorda quella del miglionetto, servono ad aromatizzare vini e liquori. Il succo dell'uva acerba, detto dai latini omphacium, e da noi agresto, esprime già col nome il suo sapore stittico. In sostituzione di agrumi e di aceto, lo si adopera a far salse, bevande rinfrescanti, e sciroppi in farmacia. Dai semi se ne cava un olio grasso di colore giallo verdognolo, di sapore spiacevole, che arde con fiamma brillante, senza molto fumo. Un ettolitro di semi può dare in media 8 kil. di olio. Si fa pure un rob o sciroppo d'uva, che i Romani chiamavano sapa, che si ottiene riducendo il mosto a due terzi od a metà mediante lenta ebollizione ed evaporazione. Distillando il vino e le vinaccie si ottiene, prima impuro, poi, con nove ripetute distillazioni, rettificato e purissimo l'alcool. Il primo risultato dà l'acquavite, il secondo lo spirito di vino. Il vino pure è suscettibile di una fermentazione acida, che lo converte in aceto — il tipo più galantuomo degli aceti e dei quali dirò pure negli anni venturi. L'uva matura è il più salubre dei frutti e se ne può mangiare e rimangiare senza pericolo, producendo tutt'al più un po' di mossa di corpo. I medici consigliano la cura dell'uva, e questa cura la chiamano ampeloterapia (dal greco ampelos, vite, e therapeyo, servire), che consiste nell'uso dietetico, sistematico dell'uva come alimento principale, per un tempo prolungato, onde possa produrre salutari modificazioni nell'organismo. Essa ingrassa, è sostanza nutriente, riconfortante nell'atonia-languore del ventricolo, nella gastrorrea, conviene nella plettorea addominale, calma l'irritazione degli organi respiratori, mitiga la tosse, facilita l'espettorazione ed è indicata nella tubercolosi. La cura dell'uva si schiera più simpatica, e fors'anche più sicura a fianco di quelle delle tante aque minerali, del siero e dell'olio di fegato di merluzzo.
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uve bianche e nere, a sapore semplice e a sapore profumato, infine in uve da tavola e uve da vino. La vite dopo 40 anni comincia a deperire. Fiorisce
La vite è una miniera d'oro e felice la terra ove prospera! Essa forma la principale ricchezza di molte regioni come la Francia, il Piemonte, la Sicilia, la Toscana, il Napoletano, la Valtellina, delle sponde del Reno e del Danubio. Platone nel 8° libro delle sue leggi, dice che si dovevano punire meno degli altri quelli che rubavano l'uva. Ed Ateneo spiegando questo articolo del codice penale di Platone, dice che Platone intendeva le uve primaticcie, quelle di Sant'Anna p. es., perchè queste non sono atte come le altre a far vino. Delle quali uve dice Ovidio nel 2°
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primaticcie, quelle di Sant'Anna p. es., perchè queste non sono atte come le altre a far vino. Delle quali uve dice Ovidio nel 2°
La canna vera dello Zuccaro è pianta gramignacea perenne, originaria delle Indie, dove è spontanea nei luoghi innondati e dove si coltiva ancora. Somiglia alle nostre canne, si alza portando una pannocchia setacea che dà fiori. Esternamente è verdiccia, articolata, interiormente bianca e ripiena di una mollica simile a quella del sambuco, pregna d'un sugo dolce, piacevole. À foglie strette, striate, verdi, che serve ad alimento delle bestie. La piantagione si fa per barbocchi da Marzo a tutto Aprile. Può essere coltivata in tutti i paesi caldissimi. Da noi è da serra. È matura quando diventa gialla, il midollo si è fatto bigio scuro e il sugo viscoso e dolcissimo. La parola zuccaro dal greco sacchar, zuccaro. Nel linguaggio delle piante: Dolcezza. La canna dello zuccaro, matura, si taglia al piede, se ne tronca la pannocchia, si sfoglia, si porta al mulino, che la schiaccia fra tre cilindri. Se ne raccoglie il sugo entro una caldaja sottoposta e tal sugo è chiamato dai negri vezù o vino di canna. Presto fermenta e perciò è necessario cocerlo prontamente, e depurarlo con un processo di evaporazione e filtrazione sinchè è ridotto allo stato di sciroppo d'onde il melazzo, o melassa. Gli zuccari della seconda e terza cristallizzazione sono sempre più grassi ed oscuri e passano sotto il nome di mascabadi. Quelli d'Avana che sono i migliori si chiamano terzieri o biondi. Lo zuccaro benchè di prima estrazione, bianchissimo ed asciutto, contiene impurità e vuol essere raffinato. Questa depurazione si fa nelle grandi raffinerie da dove sortono in pani. La bianchezza e solidità estrema dello zuccaro in pani dipende non solo dalla qualità degli zuccari che si adoperano, ma ancora dall'esito felice dell'operazione e dell'espertezza dell'operatore. Se i pani riescono friabili o macchiati qua e là, o troppo oscuri, e quindi da scarto, allora si pestano ed entrano in commercio sotto la denominazione di zuccaro raffinato in polvere, ossia pilè. Lo zuccaro raffinato in pane è bianchissimo, senza macchie, compatto, duro, sonoro — percosso con un ferro nell'oscurità tramanda della luce, la sua cristallizzazione è minutissima, serrata, e lucida, non à odore, è dolcissimo. Se si tiene in bocca diventa poroso e non si scioglie uniformemente. Cristallizzato lo zuccaro in forma cubica con altro processo di evaporazione si vende sotto il nome di zuccaro candito. Questo è sempre più o meno colorato, tramanda molta luce percosso nell'oscurità, è assai dolce, e si scioglie in bocca uniformemente come le caramelle. La melassa in America ed altrove si adopera per la fabbricazione del rhum e nel Brasile la impiegano per la concia del tabacco. Per ottenere il rhum si fa fermentare la melassa entro grandi vasi di terra, sepolti nel terreno fino all'orifizio, e ricoperti di paglia. Compiuta la fermentazione si passa alla distillazione.
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cilindri. Se ne raccoglie il sugo entro una caldaja sottoposta e tal sugo è chiamato dai negri vezù o vino di canna. Presto fermenta e perciò è necessario
Nè lo zuccaro s'estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo Io zuccaro di barbabietola (1), di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di molte piante, nelle radici, nei frutti, e persino nelle carni d'animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno intenso di dolcezza, perchè da qualunque origine pervenga, quando è puro, è sempre la stessa cosa e non avvi differenza tra zuccaro e zuccaro. La scoperta dello zuccaro di barbabietola è dovuta al tedesco Margraff — il primo ad estrarlo in grande fu Achard di Berlino. Il metodo per ricavarlo, dopo ripetute esperienze, è stato perfezionato in Francia. Non si riduce che con estrema difficoltà alla bianchezza, asciuttezza, e cristallizzazione di quello di canna. Anche da noi abbiamo tali fabbriche. Quello di castagne è di una cristallizzazione assai minuta, è molle, biondo, dolcissimo con legger sapore di castagna: si può ridurlo in pani. Lo zuccaro di latte si fabbrica in grande nella Svizzera, è bianchissimo, cristallizzato in piccoli cubi, poco solubile nell'aqua fredda, solubilissimo nella calda, di sapore dolciastro, senza odore quando è ben puro. Si adopera come alimento e come medicamento. Lo zuccaro d'uva, non à forma regolare, è in piccoli tubercoletti, in bocca produce prima una sensazione di fresco indi un sapor zuccherino debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante commercio in Europa al tempo del famoso blocco di Napoleone. Oggi quello solo di barbabietola à larga parte in commercio. Lo zuccaro si adultera con spato pesante, gesso, creta, farina, destrina, ma queste frodi sono possibili solo collo zuccaro in polvere od in pezzi (pilè), e si devono in generale attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto tali materie si tradiscono facilmente perchè sono insolubili. Aquistate il vostro zuccaro in pani, o madri di famiglia, perchè in pani, la frode è quasi incompatibile colle singole e molteplici operazioni di quest'industria. Lo zuccaro si sofistica pure col glucosio. Il glucosio è altra delle varietà di zuccaro e si prepara generalmente trattando l'amido, o fecola di patate con acido solforico o cloridico. Quando è chimicamente puro, cioè affatto esente da sostanze eterogenee, non presenta altra differenza dello zuccaro di canna se non che nella sua virtù dolcificante — la quale sarebbe un terzo appena. Ma raramente il glucosio è purissimo, e spesso lo si trova nello zuccaro grasso a cui si ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole — attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col glucosio è fatta su una scala enorme in America.
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debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante
Chiarificazione dello zuccaro e maniera di farne sciroppo vergine. — Lo sciroppo vergine serve a preparare qualunque altro sciroppo e a conservare ogni genere di frutta. Lo zuccaro più economico e conveniente è l'avana bruno — gli altri zuccari non danno quasi mai uno sciroppo di gusto schietto o se lo danno, viene a costare di più e vogliono maggior lavoro. Lo sciroppo perchè si conservi lungamente bisogna segni all'areometro dello sciroppo gradi 28 quando è caldo, e 32 freddo. L'areometro è uno strumento che fa conoscere la gravità specifica dei vari fluidi nei quali s'immerge — e chiamasi pure pesa sciroppo, pesa liquori, vino, acidi, pesa latte ecc.
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pure pesa sciroppo, pesa liquori, vino, acidi, pesa latte ecc.
Il Castagno è un albero a foglia caduca, indigeno, dall'Europa meridionale. Ama terreno sabbioso, argilloso non adombrato da altri alberi, e più d'ogni altro il montuoso. Non viene a più di 800 metri al disopra del livello del mare. Fiorisce in Luglio, dà frutti in Ottobre e per loro teme il freddo. Si propaga per semina, avendo cura di immergere prima il seme per 12 ore nell'aqua satura di fuliggine e noce vomica, o in olio bollito con aglio, acciò ri- mangano illese dagli animaletti. Nel linguaggio dei fiori: Sii giusto verso di me! Le varietà principali il Castagno propriamente detto, che fiorisce precocemente, il cui raccolto è quindi dubbio e dà un frutto piuttosto piccolo e poco saporito, ed il marrone che è più grosso, più saporito e nutriente. Il marrone si propaga per innesto sopra il castagno, perchè il marrone seminato produce nuovamente il castagno. Il castagno comincia a fruttificare cinque anni dopo l'innesto, e verso il 60° dà il massimo prodotto. Le piante non innestate, ritardano e sono meno produttive. A 150 anni comincia a deperire e raggiunge i 3-4 secoli. Il raccolto si fà quando alcuni pericarpi cominciano ad aprirsi, un ettolitro di castagne pesa 80 kilogrammi. La castagna fresca contiene 48 % d'aqua e 0,52 d'azoto — il marrone fresco, 54 d'acqua, e 0,53 d'azoto. — La castagna secca, contiene ancora dal 10 al 12 d'aqua, e 0,77 d'azoto ed il marrone secco contiene 1,17 ° d'azoto. Si conserva la castagna nel proprio involucro in locali asciutti e ventilati o dissecandola pei graticci. Le castagne messe sui mattoni delle camere, marciscono presto e sono preda degli insetti. Si conservano più a lungo e saporite facendole prima essicare alcun poco al sole. Il castagno dell'Etna avrebbe secondo alcuni 59 m. di circonferenza. La castagna, il qual nome si vuole venuto da Castano Magnesia, città della Macedonia è la sposa del focolare, la ghiottoneria dei fanciulli, la Dea delle chiacchere e delle mormorazioni, l'amica del vino generoso e nuovo, ed è maritata in nozze morganatiche al Dio Eolo. È eminentemente farinosa, dà una sana ed abbondante nutrizione. La lessata è più digeribile, irroratela di vino generoso se non confà al vostro stomaco non ditene male. Mille le maniere di far cocere le castagne. A lesso dette succiole o Ballotte, cotte in poc' aqua sale, finocchio, anice, o con una pianta di sedano. Lessate monde (peladei o pest) sbucciate e cotte con o senza la loro peluria in aqua, sale ed erba bona. Anseri o Vecchioni (Bellegott) quando cotte a lesso, si fanno dissecare al fumo nel serbatojo, sotto la cappa del camino (agraa). Il nome di Bellegott viene da bei e cott, (belli e cotti) Bruciate (Borœul) cotte nella padella a fiamma. Biscotti (Bescott) varietà dei Vecchioni, si mettono a seccare col guscio e poi si tengono alcun tempo nel mosto. A questi appartengano i cuni, da Cuneo, loro provenienza, cotte in forno spruzzate di vin bianco serbevoli per molti mesi, delicatissime. Le Veronesi (Veronès) così dette perchè tale maniera di cocerle, ci venne dal Veronese — e si cociono nel forno o nella stufa spruzzate di vino, o con poco burro in casserola. I marroni si fanno anche candire nello zuccaro dopo essere stati arrostiti e si chiamano marron glacès è confettura da dessert. La castagna forma l'alimento principale dei montanari. Nel Sienese se ne fa polenta, che nutrisce i più strenui faticatori, i quali non avendo che aqua da bere dicono scherzando che vivono: del pane dei boschi e del vino delle nuvole. Il Castagnaccio è una specie di pane fatto con farina di castagna, pinocchi ed uva. Fino dalla più remota epoca le castagne tennero il primato fra tutte le sorte di ghiande. Ateo, insigne medico di Antiochia, che le chiama Sardinias glandes, perchè le migliori qualità venivano dalla Sardegna, non si perita a rilasciar loro il brevetto di alimentum effatu dignum — cibo di straordinaria celebrità — ma, soggiunge che va alla testa — caput tamen tentare. Bello! quelle castagne che vanno alla testa... invece. Galeno, si capisce che non poteva digerirle e ne dice corna: Gastanœ sive elixentur, sive œstuantur, sine denique frigantur, semper sunt pravœ. Il che vuol dire comunque le ammaniate, sono porcherie. Plinio invece di visceri a prova di bomba, dopo aver detto che dai Greci i marroni erano chiamati Balani Sardi (da Balanos, ghianda) testifica che sono eccellentissime: — castanearum genere excellens; e che celerius transmittuntur che è quanto, di facilissima evacuazione. Virgilio, più sibarita, le mangiava col latte: Castanœ molles, et pressi copia lactis (Egl. 2). Tiberio adoperava la parola balanum per indicare i vegetali più saporiti. Anche i Romani adoperavano la castagna per farne la farina e pane, come si fa ancora oggidì presso alcune popolazioni. La castagna è da fuggirsi da chi patisce il mal di pietra, soffra di ernie o vada soggetto a coliche. Francesco Gallina, medico Piemontese, forse da Cuneo che fioriva all'alba del secolo XVII raccomanda di mangiare le più grosse, — perchè sono migliori di tutti li marroni, e se per lungo tempo si conservano si fanno più saporiti. E suggerisce alle ragazze bionde, di adoperare il decotto delle loro buccie per conservare il dorato dei loro capelli. È voce di scienza popolare, che mangiando le castagne crude, si popoli la capigliatura di cavalieri erranti. Raccolgo per ultimo la spiegazione chi mi fu data da un R. Padre Oblato di S. Sepolcro a Milano sulla espressione: far marrone. Egli dunque mi diceva, che viene da questo, che chi mangia i marroni difficilmente lo può nascondere e ne è quasi sempre sorpreso. Tutto per quello scandaloso matrimonio col Dio Eolo.
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mormorazioni, l'amica del vino generoso e nuovo, ed è maritata in nozze morganatiche al Dio Eolo. È eminentemente farinosa, dà una sana ed abbondante
Si conservano essicate per l'inverno, si fanno cocere e fresche ed essicate, se ne fà giulebbe e la così detta marennata, o zuppa di amarasche, che cotte nel vino con zuccaro e droghe, si versano sul pane. Facendole fermentare, se ne ottiene una specie di vino, non forte, ma gradevole. Distillandone il succo già fermentato misto a noccioli contusi e a qualche porzione di foglie ammaccate abbiamo il così detto Kirchen-wasser (aqua di ciliege). Il migliore è quello della Selva Nera e del Voralberg, dei quali luoghi se ne può dire il principale prodotto. Se ne fabbrica pure nella Savoja francese e nelle nostre Alpi. Unito a spirito di lamponi, alcool, zuccaro e ad una certa quantità d'aqua, si ottiene il maraschino specialità della Dalmazia e propriamente di Zara. Macerando le marasche e distillandole con vino aleatico, aromi e zuccaro, si fà pure dell'eccellente ratafià, celebre quello d'Andorno. I gambi o peduncoli, costituiscono un volgare rimedio diuretico. Se ne fà decotto in proporzione di 30 grammi in un litro d'aqua. Plinio asserisce che il primo che introdusse in Italia il ciliegio fu Lucullo l'anno 680 dalla fondazione di Roma, e ve lo portò da Ceresunto, città sulla spiaggia del Mar Nero: Cerasi ante victoriam Mithridaticam L. Luculli non fuere in Italia. Può essere che da Ceresunto, dove a detta degli scrittori il ciliegio era superlativo, avesse il suo nome. Ma che il ciliegio ce l'abbia portato Lucullo è una delle tante bale romane. Un certo Difilo Sifnio, ricordato da Ateneo, che viveva molto prima di Lucullo, sotto il regno di Lisimaco, uno dei generali di Alessandro il Macedone, parlava già delle ciliege della Campania coll'aquolina in bocca. Nelle torbiere di Dax, nelle Lande, si riconosce perfettamente il tronco del ciliegio. Chi ne volesse sapere di più, legga la Cersalogia medica (Basilea 1717), monografia scritta dal celebre Dollfuss. Ad indicare un individuo che si posa a uomo serio e d'importanza, il popolo milanese dice: el par quel che à taccaa el pìccol ai scires. E dalle ciliege abbiamo pure il proverbio:
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cotte nel vino con zuccaro e droghe, si versano sul pane. Facendole fermentare, se ne ottiene una specie di vino, non forte, ma gradevole
Vino di ciliegie nere. — Ogni chilo di ciliegie occorrono 800 grammi di zuccaro e 6 litri d'aqua. Si pestano le ciliege col nocciolo in un mortajo, dopo si mettono in un recipiente collo zuccaro e si lasciano fermentare per 8-10 giorni, indi si spilla il liquido e si passa allo staccio e si mette in bottiglie.
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Vino di ciliegie nere. — Ogni chilo di ciliegie occorrono 800 grammi di zuccaro e 6 litri d'aqua. Si pestano le ciliege col nocciolo in un mortajo
Il Coriandolo, o Coriandro, o Cimina, è pianta annua, originaria dell'Oriente e della Grecia, che passò in Italia e nella Francia Meridionale, ove si è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in Aprile, si raccoglie in Settembre, cresce dai 30 ai 90 centim. à foglie verdi chiare, fiori bianchi e porporini in Maggio e Giugno. Nel linguaggio dei fiori significa: Merito nascosto. Il suo nome Coriandolo dal greco coris, cimice, e da ambluno rintuzzare, perchè rintuzza la vista. I suoi grani freschi e le foglie verdi ànno un odore disgustoso di cimice, massime quando fà nuvolo e piove, per cui è anche chiamata: erba cimicina. Essicati sono gradevolissimi, aromatici, stimolanti. Entra il coriandolo nella composizione di molti liquori in ispecie del Gin; serve come droga di cucina ed è condimento aromatico presso i popoli del Nord. L'adoperano per aromatizzare la birra, lo mescolano al pane, lo masticano dopo il pasto, per facilitare la digestione, espellere le flattulenze e rendere gradevole l'alito della bocca. Gli Spagnoli mettono le foglie del coriandolo nella zuppa, alla quale danno un sapore molto forte, e le mangiano pure in insalata. I medici gli assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'aqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti. Pestati e fatti cocere nell'aqua a densa decozione, servono contro le pulci spruzzandone le lettiere ed il suolo. I coriandoli ànno dato il nome a' quei projettili di farina e gesso che negli ultimi giorni del Carnevalone, insudiciano le vie, le case e gli abiti dei Milanesi. Gli antichi consideravano il coriandolo allo stato verde come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo trito e misto ad aceto serviva per conservare le carni nell'estate presso i Romani. La manna degli Ebrei somigliava al seme bianco del coriandolo del quale ne aveva pure il gusto (Ex. 16. 31) il che è confermato anche nel libro dei numeri (11. 7) tranne che ivi si aggiunge che la manna aveva anche il sapore del Bdellio, albero Babilonese, trasudante una specie di gomma aromatica ricordato pure da Plauto (Curc. Sc. 2. a. 1). Tu crocum, tu casia, tu bdellium.
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assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'aqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti
Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne colla fermentazione un liquore inebriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. II calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma lavorati si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica, chiamata perciò delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d'allora si candivano perchè i freschi eran fin d'allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca.
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o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti
Svetonio ci riferisce che ad Augusto piacevano sommamente i fichi freschi, e che li mangiava anche prima di cena — Ficos virides biferas maxime appetebat vescebaturque ante cenam. Cap. 7. I fichi presso i Romani erano impiegati a provocare lo sviluppo del fegato nei volatili. Fra i piatti, che Orazio numera nella Satira del Banchetto, figura il fegato di un'oca bianca, nutrita da molto tempo con fichi grassi. Pierius sosteneva che il nettare, l'ambrosia degli Dei era il sugo del fico. Ippocrate nel lib. 2 De Dieta, dice: Est et ficus cum cibis bona et meracum vinum abipsa. Cioè di bergli sopra del vino — tutto all'opposto del nostro proverbio: al fico l'aqua ed alla pera il vino. La tradizione vuole che la calata dei Normanni si debba al fico - che erano golosissimi di provarne la tanto decantata bontà. Scrive, infine, il Savonarola, che al suo tempo, in Padova, un garzone mangiò 40 libbre di fichi al padrone, et poi si morì ethico. Castor Durante fece un poema sul fico nel 1617. La tradizione vuole che Giuda si appiccasse ad una pianta di fico.
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sopra del vino — tutto all'opposto del nostro proverbio: al fico l'aqua ed alla pera il vino. La tradizione vuole che la calata dei Normanni si debba al
Pianticella erbacea perenne, indigena, originaria delle Indie. Vuole terreno sciolto, fresco, concimato con materie vegetali, preferisce esposizione non molto soleggiata. Si moltiplica per rampolli. Se ne conoscono 9 varietà. Quella coltivata da noi è la bifera, spontanea dei nostri boschi e monti. Il suo nome dal secchio verbo latino fragare, (odorem emitio fragando) olezzare, d'onde la parola fragrantia e la nostra fragrante. Nel linguaggio dei fiori: Bontà perfetta, Delizia. Tutti conoscono, la bellezza graziosa, la bontà salubre, il delicato profumo di questo primo bacio del sole alla terra. È uno dei frutti più preziosi, che abbondanti e spontanei, somministrano i nostri monti. L'artificiale coltura ben riescì a produrne di più appariscenti e grossi e ad acclimatarne di esotici, come la Grandiflora del Surinam e la Chiloensis od Ananas (introdotta in Italia nel 1774 dal maresciallo conte Della Torre, di Rezzonico, castellano di Parma, ecc.) dell'America — ma non ad eguagliare le modeste, non meno, che soavissime fragole che apporta alla città la graziosa montanina. Si mangiano sole, con zuccaro, rhum, vino e latte, il quale è da sconsigliare perchè gli acidi del frutto facilmente lo coagulano. È molto digeribile la fragola, ma poco nutriente. Con opportuni processi se ne fabbricano conserve, sciroppi, per gelati, ecc un liquore vinoso ed un'aqua distillata usata come cosmetico e come aromatizzante. La radice, i gambi e le foglie ànno virtù astringente e può usarsene il decotto, nelle diarree e nell'ernaturia. Il dott. Klekzinsky di Vienna insegna che colle foglie della Fragaria sylvestris raccolte tosto dopo la maturanza del frutto, ed essicate al sole, o leggermente torrefatte, se ne ottiene un infuso verdastro di odore gradevole, di sapore astringente, che ricorda il tè e che fornisce una piacevole bevanda dietetica (W. Med. Wochenscrift, 1885) È da fuggirsi la fragola dai paralitici e da quelli che soffrono disturbi cardiaci, erutazioni, pirosi. L'uso smodato provoca eruzioni diverse alla pelle. Lobb osservò che diminuisce i calcoli e Linneo che scioglie il tartaro dei denti, che egli stesso guarì dalla gotta col suo uso e ne scrisse una dissertazione De fragaria vesca. Ma lo svedese Cullen non gliela mena buona nel suo trattato di Materia medica. Geoffroy compendia in queste parole le virtù della fragola: «Fraga refrigerant, sitim sedant, œstum ventriculi compescunt, alvum emolliunt, urinam provocant, arenulas expellunt, parum nutriunt, fugacemque alimoniam corpori exibent.» La fragola venne in ogni tempo tenuta in conto di frutto miracoloso. Non vanno d'accordo i Greci nel suo nome e cognome, ma ne parlano Dioscoride e Teofrasto con ammirazione. Myrepsi Alessandrino ne scrisse le glorie in 48 capitoli, tradotto ed illustrato da Leonardo Fuchsio e stampato a Basilea nel 1549. Virgilio nell'Egl. 3 non la dimentica: Qui legistis flores et umi nascentia fraga. Nè la dimentica quel sibarita d'Ovidio: Mollia fraga leges. Murat, il brillante delle battaglie napoleoniche, amava le fragole col sugo d'arancio.
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apporta alla città la graziosa montanina. Si mangiano sole, con zuccaro, rhum, vino e latte, il quale è da sconsigliare perchè gli acidi del frutto
Conservazione all'olio. Si scelgono sani, giovani, piccoli e freschi. Si mondano, si lasciano asciugare all'aria, si scottano nell'aceto bollente si lasciano sgocciolare e si rinchiudono in vasi di vetro ricoprendoli d'olio d'oliva. Vi si può aggiungere qualche aroma come canella, garofano, e foglie di lauro. Lo stesso si opera pei tartufi, soltanto che invece di scottarli nell'aceto, si fanno bollire per un quarto d'ora nel vino bianco e non vi si aggiunge droga.
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foglie di lauro. Lo stesso si opera pei tartufi, soltanto che invece di scottarli nell'aceto, si fanno bollire per un quarto d'ora nel vino bianco e non vi
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
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. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti
Piccolo arbusto perenne a foglia caduca, che cresce spontaneo in molti paesi d'Europa, e singolarmente nei climi temperati e freddi. Viene in piena terra, vuol terreno fresco, sabbioso, sostanzioso, esposizione di tramontana, ombreggiata alquanto. Dopo 8-10 anni comincia a deperire. Da Maggio a Giugno à fiori rossi o bianchi, pelosi, in piccoli corimbi, ai quali succedono frutti rossi, vellosi. Si moltiplica dividendo le radici in autunno. È detto Rubus idœus dal monte Ida dove i Greci, teste Dioscoride, asseriscono d'averlo scoperto i primi. Nel linguaggio dei fiori: Dolcezza di linguaggio. Deve essere colto appena sia maturo, perchè facilmente si guasta e cade. Il lampone è uno dei frutti più salubri e profumati — è succoso rinfrescante, di sapore gratissimo. Èsuscettibile di fermentazione vinosa, acida alcoolica. Contiene un olio essenziale solubile nell'alcool e nel vino, ma non nell'aqua. Se ne fa sciroppo col succo solo — unendovi l'aceto se ne à l'acetosa: che è gradevole e rinfrescante. Le foglie sono astringenti, i fiori diaforetici. I frutti si mangiano crudi col vino e la panna, collo zuccaro se ne compongono conserve, sorbetti, gelatine, ecc. Si candiscono, danno profumo ad aquavite e liquori — se ne fà aceto e si adoperano per aggiunger forza e fragranza a quello di vino. Il nome di Fambros viene da Ambrosia per il grato sapore che lascia in bocca. Dai Romani era chiamata Mora Vaticana, Sorella del Fambros è,
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, di sapore gratissimo. Èsuscettibile di fermentazione vinosa, acida alcoolica. Contiene un olio essenziale solubile nell'alcool e nel vino, ma non
Dice Orazio Sat. IV. Ateneo riferisce al libro 2°, c. X, che essendo rimasti sterili i rovi per lo spazio di 20 anni, la pedagra fè strage non solo fra gli uomini, ma fra le donne e i fanciulli e inoltre fra gli armenti. Parlando di un vino aromatico, e prelibato i milanesi dicono: lè una fambrosa.
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fra gli uomini, ma fra le donne e i fanciulli e inoltre fra gli armenti. Parlando di un vino aromatico, e prelibato i milanesi dicono: lè una fambrosa.
Il Màndorlo è pianta indigena a foglia caduca, originaria dall'Asia e precisamente dalla Siria e Barberia. Climatologicamente occupa il posto tra la vite e l'ulivo. Ama il caldo, terre leggere e calcaree — languisce e more nelle forti. — Si propaga per seme, ed innesto su sè stesso. Nasce spontaneamente nella Sicilia, Spagna, Provenza, a Tripoli e Marocco, vegeta con prosperità sulle riviere di Genova. Fiorisce in Marzo ed Aprile, teme le brine ed il freddo. Se ne contano 9 varietà. La migliore è il màndorlo fino o princesse, il cui guscio si rompe colle dita. Alcune di queste varietà ànno frutto dolce, altre amaro, ma dall'albero mal si distingue il sapore del frutto. La maturanza si riconosce dall'aprirsi del pericarpo carnoso, il quale serve pel bestiame. Il suo nome dall'ebraico suo appellativo che significa vigilante, perchè è il primo albero che si risveglia, e perciò in linguaggio delle piante significa: storditaggine. L'uso della màndorla a tavola è assai svariato. Sì verde che secca, si mangia come frutta da dessert al cui scopo la più ricercata è la qualità detta saccarelle. Si confettano, se ne fanno varie paste dolci, fra cui l'orzata, o semata di màndorle dolci che serve alla preparazione di una notissima bevanda. In Provenza si fanno essicare al forno e sono di un sapore gustoso. Entrano nel torrone, nei biscotti, marzapani, crocanti, ecc., dove si mischiano pure le amare. La màndorla si pela sempre, e se secca, lo si fà facilmente immergendola nell'aqua bollente. Anche delle dolci l'epidermide che riveste i semi, giallognola se verdi, imbrunita se essicati, à qualche cosa d'indigesto e di acre. Conservata a lungo la màndorla irrancidisce e per conservarla nella state vuol essere di quando in quando esposta all'aria. Colle màndorle amare si fà una pasta che tiene morbida la pelle delle mani e del viso delle donnine, cosmetici e saponi. Le amare schiacciate o pestate, uccidono il pollame ed i volatili, una volta si credeva fossero antidoto all'ubbriachezza. Plutarco riferisce che il medico di Druso, fratello di Tiberio, tremendo bevitore, gli faceva inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso, le mangiasse per eccitare la sete, dicendo Eupoli, che fanno venir voglia di bere: Da quas manducem Naxias amygdalas, da vinum, quod bibam e vilœ Naxia. Le màndorle migliori sono quelle di Spagna. Le dolci contengono molto olio fisso, 54 %, ed un principio di emulsina molto carico di azoto. La medicina ne prepara un'emulsione, bevanda gradevole sedativa nelle malattie flogistiche. Anche dalle amare si estrae un olio medicinale, che gela difficilmente, ma facilmente irrancidisce, lassativo, temperante nelle tossi, flogosi intestinali, stitichezza, nefrite, renella, serve pure alla confezione di diversi looch kermatizzati, balsamici, anodini. Esternamente l'olio di màndorle giova nelle dermatosi pruriginose, rigidità muscolari e tumori glandulosi. La sede principale del sapore amaro nelle màndorle amare, è nella loro pellicola gialla, che è micidiale alle bestie e possiede anche qualità deleterie per l'uomo, ingesta in dosi maggiori, perchè contiene acido idrocianico, che distrugge rapidamente l'irritabilità e la facoltà sensitiva. Nondimeno, pochissime màndorle amare, corroborano lo stomaco, provocano l'appetito e sono credute vermifughe e febbrifughe. Antidoto contro il loro avvelenamento è l'amoniaca e l'alcool — gli stimoli interni ed esterni. La polpa o pasta e la farina delle amare ridotta a cataplasma giova esternamente nelle nevralgie, coliche, nefrite, ecc. Con tale pasta si toglie pure qualunque ribelle ed inveterato odore ai vasi, sfregandoli internamente. Col guscio secco e sminuzzato delle dolci si confeziona un'emulsione teiforme che oltre al grato sapore, à una fragranza balsamica di violette e di vaniglia. Sull'origine del màndorlo, la tradizione greca racconta che Fillide, figlia di Licurgo, re di Tracia, era promessa a Demofoonte figlio di Teseo. Ma essendo già state fatte le pubblicazioni e vedendo come il suo promesso sposo non compariva, s'impiccò e fu da quei bonissimi Dei cambiata in màndorlo. Demofoonte, che aveva perduta la corsa, venne e versò amare lagrime su quell'albero, e fu sotto la pioggia di quel pianto che il màndorlo cominciò a mettere foglie e frutti — amari dapprima, dolci poi essendosi Demofoonte finalmente consolato. La màndorla da Plinio venne chiamata noce greca. Ma in Italia prima di Catone nessuno ne à parlato, ed ancora lo confusero colle noci. Fu dopo le crociate che la màndorla incominciò ad avere fama e che si trovò di comporne ghiottonerie culinarie. Palladio ci tramanda che i Greci divinando le macchine a vapore del Sonzogno, si servivano della màndorla come mezzo di pubblicazione. Ecco cosa dice: Greci asserunt nasci amygdala scripta, si, aperta testa, nucleum sanum tollas ed in eo quodlibet scribas et iterum luto et porcino stercore involutum reponas. Il che vuol dire, che essi aperta una màndorla vi scrivevano alcun che, e rinchiusala di novo così la seminavano, e le màndorle che faceva quell'albero erano altrettante edizioni di quella scritta. Se non ci credete pigliatevela con Palladio.
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inghiottire ad ogni bicchiere di vino, cinque màndorle amare, onde mitigarne gli effetti, ma pare che quel furbo di Druso, le mangiasse per eccitare
Il Melagrano è un alberetto originario dall'Africa, a foglia caduca, indigeno in Italia. Viene in piena terra, ma meglio adossato ai muri, ama esposizione soleggiata, calda, difesa dai venti. Teme l'umidità ed il gelo. Si propaga per seme, margotte, talloni. Se ne annoverano dal sapore dei frutti tre varietà, dolce, acido, ed agro dolce. Si coltiva molto in Spagna dove i frutti vengono grossissimi ed aromatici. Fiorisce in Giugno e Luglio, si raccolgono i frutti immaturi alla fine di Settembre, perchè aspettando più tardi la corteccia si apre per eccessiva umidità. Il vocabolo punica è da punicus, rosso scarlatto, il colore de' suoi fiori — e granatum dalla quantità dei grani. Onde da noi è detto melagranata e à dato pure il nome al rosso-violetto che si chiama pure granato. Nel linguaggio delle piante significa: Fatuità. Il pomo granato si conserva fresco e sano sino a metà inverno, cogliendolo in giornata serena, ed esponendolo al sole per due giorni. Poi si colloca, involto con carta, in qualche recipiente i cui vani si riempiono con sabbia ben asciutta e se ne tura l'orifizio con bon coperchio. Così conservato aquista anche maggior grado di maturanza. Questo frutto sferoideo, bellicato, è rivestito di scorza coriacea prima verde, poi rosso scuro che raccoglie in segmenti divisionali semi numerosi, involti in una polpa rosea, pelucida, succosa, gradevole, pochissimo nutriente, ma rinfrescante e salubre. Punica sub lento cortice grana rubent, dice Ovidio (Egl. 15). È frutto cercato ghiottamente, dalle signorine e dei ragazzi. Serve al dessert. I grani somigliante ai rubini, nettano i denti e movono l'appetito. Dal succo, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e conserve deliziose, confetture delicatissime, ghiotti giulebbi e gelati. I fiori del melagrano si usavano come astringenti in polvere e decotto — oggi macerati con allume nell'aqua danno un bell'inchiostro rosso, come la buccia, macerata con allume pure lo dà nero. La buccia o pericarpio detta malicorion, ricca di principio amaro, contiene moltissimo tannino e viene utilmente impiegata nella concia delle pelli. A Tunisi serve a tingere in giallo i così detti marocchini. In medicina viene somministrata per uso sì interno che esterno, come astringente e dei più energici. Arago, nella sua Promenade autour du monde, dice, che a Timor si usa nella dissenteria. In Persia al Thibet, nella China, fra gli Arabi ed anche in Russia al dire del Rehmann viene adoperata come succedaneo al chinino. Il seme risulta d'una buccia cartilaginea e di un mandorlo bianco, dolce da cui si può spremere olio. La radice, e precisamente la corteccia della radice, gialla all'interno, bigio-cenericcia all'esterno, à sempre goduto dall'antichità fino a' giorni nostri fama di tenifuga quando è fresca e caccia pure le ascaridi.
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, espresso e fermentato, se ne fà una specie di vino che una volta si chiamava: vino del Palladio. Se ne compongono più comunemente sciroppi e
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
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, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S'addatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da Agosto a Settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire — à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. La parola nux, da dove noce, viene da nocere perchè la sua ombra è nociva, perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura, rotti i gusci, si torchiano subito perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4, 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarvele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca, che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essicando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert. Pan e nôs, mangia de spôs dice un proverbio. Immatura ed intera, vien confettata collo zuccaro ed il miele e forma uno dei più grati componenti la mostarda. Brillat-Savarin ci racconta che le monache Visitandines di Bellay avaient pour les confire, une recette qui en faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di wermouth, e dietro infusione alcoolica se ne fabbrica un rosolio, o ratafià, che gode meritata fama di stomatico e roborante. Nella Virginia e nella Luigiana coi frutti di quelle noci si confeziona del pane. I Greci Mainotti, le fanno bollire col mosto del vino e ne compongono l'halvez che è uno dei più delicati loro manicaretti. In Francia ne fanno il nouga, espèce de conserve brulèe, avec les noix sèches et pelèe. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina, per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essicativo è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato facilmente annerisce e tinge in nero giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola, in una gentil pelle brunetta » dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare ecc. L'ombra del noce è dannoso alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impregnato di tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse — e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalalgia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza, e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno dà sicuri e riputati specifici. Col frutto, se ne fà infuso, decotto, unguento, ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco principalmente presso i nostri fratelli del Cantone Ticino. Dal tronco se ne può cavare con opportune incisioni sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. L'olio è usato come antielmitico, e purgativo internamente, (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidœ. Dioscoride le chiamava biliosœ, tussientibus inimicœ, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est . Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario, della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei Re, e le migliori qualità, le chiama persica, ma secondo una memoria del Dott. Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinœ. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 6.). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
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faisait un tresor d'amour et de friandise. Infondendole nel vino bianco con erbe amare ed aromatiche se ne ottiene una particolare, delicata varietà di
È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo a condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono, lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27. 20) e nel Levitico (cap. 24. 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumastro chiamato omphacium gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come rimedio preziosissimo contro un'infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche il frutto dell'olivo è mangiabile. Nella Bibbia è chiamato fruges. — Si fruges collegeris olivarum (Deut. 24. 20). Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di aqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'aqua, e finalmente si coprono con forte salamoja aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno de' suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa per essere felice, che un po' di olive, di cicoria, e di malva: Me pascant ulivœ, me cicorea, levesque malvœ. Tutti gli scrittori Greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama adirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri.
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rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche
Adde pyro potum, nux est medicina veneno Fert pyra nostra pyrus, sine vino sunt pyra virus. Si pyra sunt virus, sit maledicta pyrus. Dum coquis antidotum pyra sunt, sed cruda venenum. Cruda gravant stomachum, relevant sed cocta gravatum Post pyra potum, post ponum vade cacatum.
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Adde pyro potum, nux est medicina veneno Fert pyra nostra pyrus, sine vino sunt pyra virus. Si pyra sunt virus, sit maledicta pyrus. Dum coquis
Il che in due parole vuol dire, che la pera è migliore cotta che cruda e che bisogna inaffiarla di vino. Dagli scrittori Greci sappiamo che il Pelopponeso era ricchissimo di pera ed erano celebrate quelle dell'isola di Cea. Omero nell'Odissea descrivendo il giardino del Re Alcinoo ci parla di tre qualità di pera. A Roma erano celebre le Tiberiane, una specie che maturava in autunno e così dette, perchè erano le ricercate da Tiberio, così riferisce Plinio. La pera è celebrata pure da quel ghiottone d'Orazio. Napoleone preferiva la pera spadona e la butirra.
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Il che in due parole vuol dire, che la pera è migliore cotta che cruda e che bisogna inaffiarla di vino. Dagli scrittori Greci sappiamo che il
Il Pesco è pianta a foglia caduca, indigena, originaria dall'Asia e più propriamente, come lo indica il suo nome, della Persia. Cresce in terreni buoni, caldi, ad esposizioni meridionali, difese dai venti. Vive anche nei climi freddi, ma non dà frutti. Si moltiplica per seme ed innesto sul Mandorlo, sul Pruno e sul Cotogno. Vuolsi che dia frutti migliori e più belli piantando la pesca intera colla sua polpa. Cresce rapidamente, dopo due o tre anni dà frutto, ma presto invecchia e deperisce — pochi peschi passano i 20 anni. Si allunga la loro vita innestandoli sul mandorlo. A fiori rosei prima delle foglie, che sono distrutti facilmente dalle brine e dalle forti pioggie primaverili. Dà frutti maturi da Luglio ad Ottobre, a seconda delle varietà, che sono numerose assai. I botanici dividono il pesco in due famiglie, quello a frutto coperto di pelurie, e quelle a frutto liscio — ambedue suddividonsi alla lor volta, in frutto a polpa e carne succosa, spiccaciola, che facilmente abbandona il nocciolo, e in frutto a polpa consistente duracina, che non si stacca dal nocciolo. La pesca è matura, quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla — in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fà marcire. L'Erera, botanico spagnolo, dice che se si adaqueranno i persici, con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore — vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca, è frutto giocondo che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe. È squisitissimo, salubre, profumato di facile digestione, si mangia fresco e si fà seccare per l'inverno, e allora si chiamano da noi veggitt. I cuochi ne fanno fritture, polpettine, persicata, sorbetti, marmellate. Il loro delicato aroma è sì sfuggevole che invano si tenta fissarlo completamente nelle conserve, nei liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell'osso: Malum quod implicuit persicum nucleus explicat. Diceva un antico proverbio latino, il che vuol dire che bisogna mangiarne anche l'amanda. Certe signorine troppo schifiltose non possono soffrire la lanuggine della sua pelle ed è precisamente nella sua pelle che si conserva il massimo tesoro della sua fragranza, come è nella pellicola dalla sua amanda che maggiormente si raccoglie l'amaro che possiede. Si ricordino del proverbio: all'amico pela il fico, al nemico il persico. Per saporire la pesca va mangiata senza pelarla e senza tagliarla. Le foglie ed i fiori del pesco sono velenosi, contenendo acido idrocianico, tuttavia in medicina se ne fà uso qualche volta come contro stimolanti e vermifughi. I fiori e le foglie recenti, ànno inoltre una virtù purgativa, se ne fà infusione e sciroppo, perdono molto coll'essicazione. In caso di avvelenamento coi fiori, foglie o mandorle de' suoi frutti, si soccorre con etere al quale s'aggiungono una ventina di goccie di laudano. Coi frutti ben maturi, che passano facilmente alla fermentazione, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma arabica. La Scuola Salernitana sentenzia:
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, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma
Preparazione dei veggitt. Prendete pesche immature, tagliatele in quattro, toglietene il nocciolo e mettetele al sole finchè siano essicate, colla loro pelle. Fatele cocere con vino, zuccaro, canella, garofani — è il metodo più semplice ed economico. Anche i così detti persegh selvadegh, sono bonissimi.
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loro pelle. Fatele cocere con vino, zuccaro, canella, garofani — è il metodo più semplice ed economico. Anche i così detti persegh selvadegh, sono
I Greci, fatta astrazione di Dioscoride che la chiama frutto salubre, la tenevano come nociva, quasi velenosa. Plinio lo dichiarò salubre ed innocuo e ne insegnò a spremerne il succo nel vino. Erano celebri le pesche della Sabinia. I Romani amavano la specie duracina e la chiamavano pomo di Persia, malum persicum. Il pesco fu conosciuto ed acclimatizzato da noi dopo la spedizione di Alessandro e bisogna che fosse assai raramente coltivato, perchè al tempo di Plinio, le pesche valevano perfino trenta sesterzi l'una, cioè circa sei delle nostre lire. Non saprei dire perchè a certi gonzi, il popolo milanese, appiccò il nomignolo di persegh.
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e ne insegnò a spremerne il succo nel vino. Erano celebri le pesche della Sabinia. I Romani amavano la specie duracina e la chiamavano pomo di Persia
Pesche ripiene. — Aperte in due le pesche levatene la ghianda e mettetele a cocere fino a metà cottura in pentola di terra, con vino bianco, canella e scorza gialla di limone. Levate dal vino, deponetele in una tegghia unta di burro. Il sugo vinoso che resta unitelo a dello zuccaro e condensatelo a foco inspessandolo con qualche biscottino e colla polpa di qualche frutto o di una delle medesime pesche. Di questo denso giulebbo riempite le cavità delle pesche, mettendovi anche in mezzo la sua mandorla spogliata dalla pellicola, e mettete, al forno, o al testo. Di tal maniera si ammaniscono poma, pere ed altre frutta.
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Pesche ripiene. — Aperte in due le pesche levatene la ghianda e mettetele a cocere fino a metà cottura in pentola di terra, con vino bianco, canella
L'Ananasso, o anche Ananas coronato, è frutto della Bromelia, così detta dal botanico svedese Bromel, al quale fu dedicata. È frutto dei paesi caldi e lo si coltiva da noi nelle serre. Non fiorisce che il terzo anno dopo la piantagione e per maturare abbisogna da 4 a 6 mesi. Matura generalmente in Agosto. Nel linguaggio delle piante: Perfezione. Avvene molte varietà; che vengono indicate dal colore del frutto; dalla sua forma, ecc. Dalle foglie degli ananassi si ottengono fibre delicatissime per tessuti, dei quali se ne fa uso nella zona torrida. Nel Museo di Firenze si trovano belle vesti e finissimi fazzoletti ricamati, fatti di fibre di ananas. Fu Colombo il primo a portarlo in Europa. Il frutto che matura nelle nostre serre, non raggiunge mai la bontà di quelli coltivati in America. Fu chiamato il Re dei frutti ed è creduto il più saporito dei frutti della terra. Compare solamente alla mensa dei ricchi. Non è troppo digeribile, conviene sputarne fuori la parte stopposa, è utile accompagnarlo con vino generoso o liquori. Dall'America, ne arriva una confezione molto stimata Dà il sapore a vari liquori e rosoli. Se ne fa sciroppo delizioso.
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alla mensa dei ricchi. Non è troppo digeribile, conviene sputarne fuori la parte stopposa, è utile accompagnarlo con vino generoso o liquori. Dall
Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
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fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro
Charlotte di poma. — Pelate le poma, levatene il torso (caruspi) e lasciatele cocere con vino bianco, un pezzo di burro, zuccaro (sulla dose di un terzo del peso dei frutti) e pezzi di cedrato candito. Quando le poma cominciano ad asciugare, toglietele dal foco.
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Charlotte di poma. — Pelate le poma, levatene il torso (caruspi) e lasciatele cocere con vino bianco, un pezzo di burro, zuccaro (sulla dose di un
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
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coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne
Il Popone, volgarmente detto Melone, è una pianta erbacea, annua, indigena originaria dall'Asia. Vuol terreno sciolto, lavorato profondamente, grasso, fresco. Per la coltura forzata, si semina su letto caldo in Gennajo, Febbrajo, Marzo: solo in Aprile e Maggio all'aperto si trapianta. Ama la mezz'ombra e la pulitezza, il troppo umido gli è dannoso. Si svetta, a farlo più prolifico e ad impedirne una soverchia vegetazione. È maturo, quando il suo peduncolo è corto, grosso, à sapore amarognolo, e quando il frutto è pesante e resistente alla pressione. L'odore non deve essere molto pronunciato. La troppa sonorità del frutto, battuto colle dita, è indizio d'immaturità. Si conserva di più e riesce migliore quando non sia colto a maturanza innoltrata. Il cogliere un melone a suo tempo non è abilità di tutti — da qui il nostro proverbio: De melon ghe nè pocch de bon. Se si coglie acerbo non à sapore, se stramaturo lo à perso. Nel coglierlo si tagli un nodo sopra del frutto, non gli si sterpi la coda — il melone perde d'odore e traspira per quella parte. Vuolsi che colto e lasciato riposare 24 ore aquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Il seme si conserva per sei o sette anni, anzi si pretende che quanto più sia vecchio, produce meloni migliori. Generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà tanto precoci, che tardive — àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Popone dal greco pepto, maturare. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione — è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto coi salumi, per frutta da dessert, se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca (1), si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue mandorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essicate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e la famosa semata la prediletta dei nostri nonni.
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mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione — è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto coi salumi