L'orto è quello spazio di terreno chiuso, in campagna od in città, ove nascono e crescono le piante fruttifere, ma più propriamente le verdure e le civaje. Il suo nome, pervenutoci dal greco orthos, o dal latino orior, è dal nascervi dentro i semi e dalla sue posizione preferita ad oriente. Si vuole, che il primo che costrusse l'orto, fosse Epicuro in Atene, dove, come nota Laerzio, teneva scola ed insegnava con molta licenza, rimproveratagli da Cicerone nel trattato De natura Deorum. Ma è a notarsi, che fin dalla più remota età, era il costume de' grandi orti nelle città celebratissimi. Tali gli Esperidi, gli Alcinoi, quelli di Jerone, Adone, Attalo, quelli pensili, di meravigliosa arditezza a Babilonia, attribuiti a Semiramide, ed a Siro, re degli assiri. Simili orti erano chiamati dai greci paradisi, dal vocabolo caldeo pardes, e pomaria e viridaria dai latini. La Bibbia ci parla del paradiso terrestre, ove il Creatore pose i nostri primi parenti, il quale, e per bellezza dei frutti e per lusso di vegetazione era appunto un orto. Vi vengono ricordati gli orti di Salomone, del re Accab, Ocozia, Manasse, che vi volle essere se sepolto (Reg., c. 21, v. 18), di Assuero, che nell'orto dava i suoi famosi conviti. Nel Nuovo Testamento è pure menzionato l'orto degli Ulivi, e il Redentore che comparì la prima volta, resuscitato, a Maddalena, in figura d'ortolano. E, passando alla storia profana, Epicuro filosofava nell'orto, Teofrasto legò il suo orto, perchè servisse di scola, Apollonio Teaneo, a gratificare il suo precettore Erixemo, donogli un bellissimo orto. La prima letteraria adunanza, fu nell'orto d'Accademo, dal quale Accademia fu detta, e il nome pervenne fino a noi. Nè vo' tacere dell'ortolano Abdolamino, che appunto per tale sua qualità, fu fatto re dei Sidoni. Pressoi Romani, una brava ortolana, si teneva in concetto di bona ed economa madre di famiglia.
. Vi vengono ricordati gli orti di Salomone, del re Accab, Ocozia, Manasse, che vi volle essere se sepolto (Reg., c. 21, v. 18), di Assuero, che nell
Se però i vegetali non devono averlo tutto loro il monopolio della nostra nutrizione, possono e devono però concorrervi per una gran parte. I legumi offrono un alimento sano e meno riscaldante della carne. Forse, alla nostra tavola, si dà troppo poco posto alla verdura, la quale à quasi tutta un'azione diretta e salutare sul corpo umano. Le più umili erbe, che si mangiano in insalata, sono utili alla sanità. Non c' è erba che guardi in su, che non abbia la sua virtù, dice il proverbio. Facciamo dunque alla verdura la migliore e più simpatica accoglienza che possiamo, perchè la merita.
'azione diretta e salutare sul corpo umano. Le più umili erbe, che si mangiano in insalata, sono utili alla sanità. Non c' è erba che guardi in su, che
— Le credenze popolari! Oh! le credenze popolari non anno altro da fare che dare il gambetto al bon senso! Ed è vecchia come Matusalemme, la storia della guerra che il senso comune fa al bon senso. Lo dice anche il Manzoni là dove parla di peste, di untori, di monatti ed altre simili diavolerie. «Il bon senso c' era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.» — Del resto, in questo libriccino, non vi nasconderò le opinioni e le sentenze dei medici, antiche e moderne, sul valore igienico delle verdure, dei legumi e delle frutta. Se non accresceranno in voi la stima per questa, così detta, Scienza della Medicina e pe' suoi Sacerdoti, la colpa non datela a me.
. «Il bon senso c' era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.» — Del resto, in questo libriccino, non vi nasconderò le opinioni e le
È pianta erbacea annuale, sta tra il popone e la zucca e si coltiva come questa. Teme l'asciutta, ma la troppa acqua la rende ancora più insipida. La maturanza incomincia in luglio e continua a tutto agosto. Si propaga per seme che à virtù fino a 6 anni. Dal seme fresco nascono piante più grandi, ma da quello di due o tre anni, si ànno piante più fruttifere. Nel linguaggio dei fiori: Sei insipido. À frutto e carne zuccherata ed alquanto acidula, rinfrescante, frigida, estingue la sete. Ve ne sono varie qualità: la nostrana a semi neri, la napolitana a semi bianchi, dà frutto più piccino della nostrana, è di buccia più sottile e trasparente, à sapore più squisito, quanto più rossa ne è la polpa. V' è pure la specie moscatella, l'ovale, la gialla, ecc. L'anguria, o più propriamente cocumero (da Cucumis derivante pure dal celtico cucce, vaso, desunto dalla sua forma) non confà a tutti gli stomachi, è indigesta e dicono che regali quei casi di colera, che viene denominato sporadico. Alcuni medici vogliono che sia lassativo, rinfrescante, ma è certo che è frutto insipido, che mangiandone bisogna unirvi del rhum o qualche liquore, e che bisogna mangiarne poco. Negli Stati Uniti l'anguria è coltivata su vasta scala. A conoscere l'anguria quando sia matura, c' è il proverbio:
'anguria è coltivata su vasta scala. A conoscere l'anguria quando sia matura, c' è il proverbio:
Fra i lodatori dell'arancio è da ricordarsi il milanese Lodovico Settala, professore di medicina a Pavia, poi di filosofia morale a Milano, citato nei Promessi Sposi e del quale il Ripamonti, suo contemporaneo, dice che curava gratuitamente i poveri ed i letterati -pauperes et litteratos. Gli antichi scrittori confusero sempre l'arancio col limone e col cedro. In Roma, nel 1500, si chiamavano Melangoli. L'Ariosto nel Furioso, C. XVIII, p. 138, adopera la parola Narancio. Sulla prima vera provenienza dell'arancio ebbero molto seriamente a questionare i filosofi antichi. Alcuni, stando col re Giuba — che lasciò dei commentarii sulle cose di Libia — dicono che l'arancio, chiamato Pomo delle Esperidi, fosse portato in Grecia nientemeno che da Ercole. Difatti abbiamo statue di Ercole presso piante d'arancio e con aranci in mano. Ateneo col filosofo Teofrasto, lo fanno venire dalla Persia; il poeta Marrone, dalle Indie. Il fatto è che fu conosciuto in Europa prima del limone, e che la sua venuta rimonta a data antichissima. A coloro che dicono essere stato portato in Italia alla fine del secolo XIII da viaggiatori veneziani e genovesi, farò notare che Virgilio dice:
antichi scrittori confusero sempre l'arancio col limone e col cedro. In Roma, nel 1500, si chiamavano Melangoli. L'Ariosto nel Furioso, C. XVIII, p. 138
Ma fra tante lodi c'è pure la nota ingrata. Nelle Effemeridi dei curiosi della natura si legge che l'asparagio rende le donne sterili (Decad., III, an. V). Il celebre Fontanelle, segretario perpetuo dell'Accademia, che morì a cent' anni, andava matto per gli asparagi. Un dì invitò l'abate Teerasson a pranzo e siccome l'abate amava gli asparagi al burro e lui all'olio, fu convenuto che metà si dovessero cucinare al burro e l'altra metà all'olio. Ma, giunto l'abate alla sala da pranzo, fu colto da apoplessia. A tal vista Fontanelle s'alza di repente e corre alla scala gridando al cuoco: Tutti all'olio, tutti all'olio!
Ma fra tante lodi c'è pure la nota ingrata. Nelle Effemeridi dei curiosi della natura si legge che l'asparagio rende le donne sterili (Decad., III
I Trojani la mettevano nel vino, il che secondo loro ne aumentava il sapore e v' infondeva allegrezza ed esilarava il cuore. Apulejo scrive che i Lucani la chiamavano Coragine, perchè à gran proprietà nelle passioni del cuore, onde poi col tempo si mutò il C in B e fu detta Borragine. Marsilio Ficino assicura che l'uso dei fiori di borragine mantiene l'uomo giovine ed allegro, onde quel detto:
Lucani la chiamavano Coragine, perchè à gran proprietà nelle passioni del cuore, onde poi col tempo si mutò il C in B e fu detta Borragine. Marsilio
chiedono una speciale attenzione. Tostate il vostro caffè nel tamburino a carbone, non alla fiamma, adagio prima perchè si scaldi, poi in fretta perchè non bruci. Quando comincia a tramandare quel sudore che lo rende lucido, toglietelo in fretta dal tostino, perchè l'aroma, mercè il grado di calore subito, fa capolino dai tessuti legnosi, nella forma, comune a tutte le essenze, di olio essenziale, che è appunto quel sudore lucente. Se l'aroma, che è volatile, sorte, lo godrà il naso, non la bocca. Quel sudore non deve escire assolutamente. Non lasciatelo scappare, ritirate il vostro caffè che sia di un biondo foncè, color tabacco de' frati. Quando è nero, è bruciato, e bruciato è carbone, e col carbone non si fa caffè. Versatelo distendendolo, fatelo raffreddare più presto che potete. Più presto si raffredda, tanto meno aroma si disperde. Il freddo è nemico capitale dell'aroma. Tostato e freddato mettetelo chiuso in vaso o stagnata, in luogo asciutto e volta per volta macinatene il solo bisognevole, come volta Per volta tostatene solo il bisognevole. La bollitura è quella che dà l'ultima mano a sprigionare l'aroma, a separarlo dal seme. Aspettate che l'acqua sia bollente a mettervi il caffè, rimescolando un po' — pochi bolli solamente — e via dal fuoco, copritelo. Tre piccoli cucchiai ben colmi generalmente bastano per una tazza. Certo che con poco si fa poco, come con niente si fa niente. Più caffè adunque più aroma e sapore. Il caffè riesce come lo si fa — è un assioma. Il recipiente in cui deve subire l'ebollizione sia d'una pulitezza da cristallo, senza odore di sorta (guardatelo da quel tanfo di chiuso, che è una cosa orribile), non c'è cosa come il caffè per assumere qualunque piccolo odore è delicatissimo. Quando il caffè è buono, fresco, tostato convenientemente, messo in dose giusta e fatto bollire come sopra, farete un caffè squisitissimo anche nel paiolo della massaia. Ma più lo si custodisce e lo si rinchiude, più conserva la natia virtù. Furono inventate mille fogge di macchinette da caffè, a infusione ed a pressione, razionali ed irrazionali, ma quella a pressione atmosferica, quale attualmente si trova presso quasi tutte le famiglie, è la migliore per comodità, poco costo e semplicità. Tale macchinetta, divenuta popolare, fu perfezionata nel 1856 da monsignor Giuseppe Nicorini, Canonico Ordinario della Metropolitana di Milano. Mercè un tappo a smeriglio, si fa salire l'acqua bollente allo staccio superiore, dove s'è messo il caffè, lo vi si lascia bollire un po' e ritirata, mercè il vuoto successovi, precipita il caffè limpido, saporitissimo. Si abbia però avvertenza: 1.° a mettere il caffè sul piccolo staccio solo quando il vapore sorte a sbuffi dallo spiraglio; 2° a tappare lo spiraglio appena vi si è messo il caffè; 3.° a tappar bene e non levare il tappo avanti sia precipitato il caffè, perchè se penetra un po' d' aria, addio vuoto! Allora depone con tutto suo comodo. Ricordatevi dunque, che il caffè si fa col caffè, che il caffè è una cosa di lusso, non è necessario. Non fate caffè gramo, è un vero delitto. Bando assoluto a qualunque sorta di ciurmeria di caffè. Se litigate colla borsa, bevetelo di rado, ma bono, ma fresco, ma che sia vero caffè. Non offrite mai caffè gramo. Una tazza di caffè perfido, è un sacrilegio — e oltre l'insulto che reca alle papille olfatorie e gustatone, oltre i disturbi epatici dei quali può essere potentissima causa, può decidere moltissime volte dell'onorabilità di casa vostra, della stima di una persona, della rottura d'un'amicizia. Il caffè non deve essere mai fatto dalla servitù — deve essere esclusivo monopolio della padrona o della padroncina di casa. Pour la bonne bouche.— Sentite cosa ne disse Delille:
cosa orribile), non c'è cosa come il caffè per assumere qualunque piccolo odore è delicatissimo. Quando il caffè è buono, fresco, tostato
Il Cardone, da Cardo, punta, pianta provvista di aculei, è un caule biennale indigeno nostro e della Francia meridionale. Nel linguaggio dei fiori: Austerità. Fa una panocchia spinosa, non mangiabile, le cui punte rigide alquanto ricurvate servivano a cardare e garzare le saie e i panni, onde la parola scardassare. Ama terreno sciolto, grasso, profondo, si semina in marzo, aprile e maggio in luna vecchia; assai raro, si sarchia; s'irriga, se c'è l'asciutta. Il seme à produzione fino a sette anni. Si taglia in novembre e si riseppellisce nel terreno, perchè diventi bianco e tenero e si salvi dal gelo. Del cardo si cibano le coste delle foglie, in inverno. È delicatissimo cotto al burro con cacio parmigiano, se tenero anche crudo con olio, sale e pepe od in insalata. Dà alimento leggero e poco nutriente. Àvvene parecchie varietà: le più pregiate sono quelle del cardo bianco, o cardo di Milano e quella di Spagna senza spine. Anticamente era un prodotto della sola Sicilia. Oribasio nel libro 3 al Capo: Della Bontà et malitia dei cibi, dice, che chi cerca viver lungamente sano, deve fuggire l'uso dei cardi. Alcuni frati adoperavano i fusti colle foglie dei cardi per flagellarsi.
parola scardassare. Ama terreno sciolto, grasso, profondo, si semina in marzo, aprile e maggio in luna vecchia; assai raro, si sarchia; s'irriga, se c'è
Chi à vitello in tavola non mangia cipolle. Chi è uso alla cipolla non vada ai pasticci. Chi mangia scalogne c... vento. Chi mangia scalogna assai dorme e mal si sogna.
Chi à vitello in tavola non mangia cipolle. Chi è uso alla cipolla non vada ai pasticci. Chi mangia scalogne c... vento. Chi mangia scalogna assai
Questo non è il fiore educato nei giardini, il garofano diantus, ma un grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque e fatto indigeno nelle Indie orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc., venne chiamato garofano da noi, perchè à appunto il profumo di questo. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco carion, noce e phyllon, foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i fiorifrutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da settembre a febbraio, si fanno essiccare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche, ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar, da dove ne vengono importati in Europa circa 30.000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere sotto la pressione dell'unghia, si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi si condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi, e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi, si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri, d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani serviva anche a dare un bon alito alla bocca. Entra nella cucina a dar sapore ed aroma ai manicaretti, allo stufato, al manzo, al pesce, alla frutta — si adopera nella pasticceria, nella confezione del vino brulè.
parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani
Chiuda il suo desinare .... Dice Orazio Sat. IV. Ateneo riferisce al libro II, c. X, che essendo rimasti sterili i rovi per lo spazio di 20 anni, la podagra fe' strage non solo fra gli uomini, ma fra le donne e i fanciulli e inoltre fra gli armenti. Le môre si conservano lungo tempo nello stato di maturità, onde i Romani d'una donna che tardi si maritava o che campasse gli anni di Matusalemme, dicevano: Maturior mora, ch'era più matura della môra.
Chiuda il suo desinare .... Dice Orazio Sat. IV. Ateneo riferisce al libro II, c. X, che essendo rimasti sterili i rovi per lo spazio di 20 anni, la
. — Plinio asserisce che il lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi se ne cinsero i Sommi Poeti ed, ahimè ! se tornassero tutti quei Sommi e facessero una capatina alle feste di Natale ed in carnevale da noi, che direbbero vedendo il loro lauro intrecciato alle casseruole di cucina e posto sulle teste dei vitelli, dei majali o steso sopra i loro opulenti jambons ?
. — Plinio asserisce che il lauro era segno di pace fra i combattenti (lib. c. 30). Se ne cingevan nei trionfi gl'Imperatori e i Sommi Pontefici, poi
Il Noce è l'albero fruttifero più maestoso dei climi temperati. S' adatta a quasi tutti i terreni, tranne i molto umidi. Teme le brine, fiorisce a 12 gradi, matura il frutto da agosto a settembre. Si propaga per seme, e le varietà per innesto. Comincia a dar qualche prodotto a 8-10 anni, sino ai 25 non dà raccolto apprezzabile, lo dà dopo i 40. Ai 60 dà il massimo della produzione, ai 100 comincia a deperire, à vita di tre, quattro secoli. Se ne conoscono 16 varietà, a torto viene poco coltivata la nigra, oltre al rapido sviluppo, raggiungendo fino l'altezza di 50 metri, fornisce un legno nero durissimo che gli ebanisti preferiscono al noce comune. Il nome di juglans significa ghianda di Giove e, come dice Macrobio, prima si scriveva diuglandem, ghianda degli Dei, poi si lasciò il d, e restò juglandem, cibo di Giove, e a lui era dedicato il noce. Caio (de verborum significatione), dice, da Jovis glans, perchè la noce è la migliore delle ghiande, primo cibo degli Aborigeni e però da essi creduta cibo di Giove. Cloazio è dello stesso parere. Teofrasto crede invece che la ghianda di Giove è la nocciola. Plinio c' insegua che la noce si chiamava anticamente caryon karnon, da kara, testa, perchè à la forma d'una testa, e perchè l'odore che emana l'albero fa male alla testa. I grammatici sono del parere che la voce nux, da dove noce, tragga origine dal nuocere, perchè la sua ombra è nociva, e perchè rompendone i frutti coi denti, questi si guastano. Nel linguaggio delle piante: Durezza. Si riconosce la noce matura quando il mesocarpo, o corteccia verde, incomincia a screpolarsi e a staccarsi dal guscio. Si raccolgono, e sbucciate si stendono in locali ben ventilati per farle asciugare e rimovendole due volte al giorno. Dopo un mese, sono stagionate. La noce fresca contiene una specie di emulsione, che poi si cangia in olio. Per cavarne l'olio bisogna pazientare fino all'inverno, perchè l'olio si forma lentamente colla stagionatura; rotti i gusci, si torchiano subito, perchè soffrirebbero. Si conservano quasi per un anno, tenendole ben chiuse in luogo fresco. Per rinverdirle bisogna tenerle per 4 o 5 giorni nell'acqua pura. Mantegazza suggerisce di metterle a macerare nel latte tepido e lasciarcele raffreddare. L'olio fresco è commestibile, ma col tempo diventa essicativo. È certo che la noce è migliore fresca che secca, più digeribile spoglia della sua pellicola e che mangiandone in quantità si compromette la condotta degli organi digerenti e di quelli di secrezione, essiccando diventa un po' acre. Ma la noce fresca è saporita e salubre e compare allegra al dessert.
parere. Teofrasto crede invece che la ghianda di Giove è la nocciola. Plinio c' insegua che la noce si chiamava anticamente caryon karnon, da kara
. Ed anche da noi, principalmente in campagna, ànno moltissimi usi in cucina ed in pasticcieria. Ricordo il pieno di noci che faceva la mia nonna ai capponi. Ma l'uso più grande delle noci secche, è di ricavarne olio, il quale, estratto per pressione, è eccellentissimo in cucina per certe fritture e per arrostire il pesce. Essendo essiccativo, è adoperato molto dai pittori, verniciatori e serve anche per fabbricare sapone. Irrancidisce facilmente. Il mollo o scorza verde, fresco, appena staccato, facilmente annerisce e tinge in nera giallognolo la pelle di chi lo maneggia, è una vera ossidazione. «Un po' di scorza di noce mutò la mia pelle giallognola in una gentil pelle brunetta,» dice lo zio Tom nel romanzo della Beker. La fuliggine delle noci bruciate è uno dei principali ingredienti dell'inchiostro del Giappone. Fino dai tempi di Plinio era nota la maniera di tingere le lane colla scorza di noce. Se ne servono per conciare le pelli, per dar colore ai legnami. La decozione della scorza verde delle noci è specifico contro le cimici, libera i cani e i gatti dalle pulci, i cavalli, i muli ed i buoi dalle zanzare, ecc. L'ombra del noce è dannosa alla vegetazione sottostante per lo sgocciolamento delle foglie e dei rami, impegnato dì tannino e di sostanze non assimilabili, nuoce agli animali per l'esalazione graveolente e alquanto virosa delle foglie stesse, e produce, a chi vi dormisse sotto, gravezza di capo e cefalogia. Il legno di noce è assai pregiato per la sua durezza, forza e colore. Alla medicina il noce tutto, fino da Galeno, dà sicuri e risultati specifici. Col frutto se ne fa infuso, decotto, unguento ed un rimedio facile, sicuro, economico contro la scrofola principalmente. Colle foglie, ammaccate e ridotte in pasta, strofinandone la pelle agli scabbiosi se ne distrugge l'acaro. Se ne fanno detersioni, bagni, astringenti fortificanti. Servono a falsificare il tabacco. I nostri fratelli del Cantone Ticino ve ne possono dire qualche cosa. Dal tronco se ne può cavare, con opportune incisioni, sciroppo zuccherino. La corteccia della radice fresca, macerata in aceto, dà un rubefaciente e rivulsivo. In medicina è usato come antiemetico e purgativo internamente (il lungo uso però irrita gli intestini), esternamente nelle erpeti crostose ed ulcerose. Plinio e Columella accusavano le noci come callidae. Dioscoride le chiamava biliosae, tussientibus inimicae, e generalmente infatti, sono facile cagione di saburre e sono sconvenienti ai catarrosi, sicchè la Scuola Salernitana ebbe a sentenziare della noce: Unica nux prodest, nocet altera, tertia mors est. Fu creduto per molto tempo che il noce fosse originario della Persia, d'onde Plinio lo dice importato in Roma al tempo dei re, e le migliori qualità le chiama persica, ma secondo una memoria del dottor Heer, da alcuni avanzi fossili risulterebbe che sia spontanea anche in Italia da tempi remotissimi. In Grecia avevano vanto le noci di Thaso in Tracia, e presso i Romani quelle di guscio fragile, di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinae. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 60). Virgilio menziona le castagne e le noci che piacevano tanto alla sua Amarille:
, di Tarento, onde si chiamavano noci tarentinae. È ricordata la noce nell'Esodo (c. 25, 37), e da Salomone nel Cantico (c. 60). Virgilio menziona le
Se ne fa farina e pane misto a frumento. La si mangia sola, lessata, o cotta sotto la cenere. La patata si coce in mezz'ora. Non lasciarla, lavandola, molto nell'acqua, altrimenti diviene molle e pesante, e perde la farinosità. Meglio cocerla a vapore in 35 o 40 minuti, pelarla subito e servirla in piatto scoperto. Si deve sempre farla cocere nella sua pelle onde conservi il suo sale di potassa e tutto il suo sapore, nè dovrebbesi tagliarla con lama di ferro. In cucina serve in mille modi, a tavola fa capolino in tutte le vivande, in tutti i piatti; caccia il naso persino nella pasticceria. La patata è il pane degli Inglesi. Non si può immaginare Svizzera senza kartoffeln. La cucina tedesca è basata sulla patata. Non c'è brodo, minestra, intingolo o vivanda ove la patata non ne sia il principale costituente. Ogni città, ogni borgata le dà nomignoli particolari di tenerezza: Tüfken, Töffelken, Toffein, Tartuffein, Erdtuffeln, Erdäppel, Erdbirnen, Grundbirnen, Erdboknen, Batalen, Patatos, Potatos, Kartoffeln, Oebiswarzel, ecc. Se non ci fosse la patata bisognerebbe inventarla per loro.
. La patata è il pane degli Inglesi. Non si può immaginare Svizzera senza kartoffeln. La cucina tedesca è basata sulla patata. Non c'è brodo, minestra
Il cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis)a frutto piriforme ed oblungo molto grosso ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania), che è il migliore. In aprile e maggio dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. Il suo nome Cydonia, da Cydon, città dell'isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apollione, da dove venne in Italia. I Greci lo chiamavano: Crysomela, Catone:cortonea, Virgilio: mela aurea, perchè maturando acquista color giallo dorato (Buc, Egl. III, n. 73): aurea mala decem misi, cras altera mittam. Evvi chi vuole che il suo nome venga da coctognus, il che si potrebbe spiegare da ciò, che si mangia coctus, perchè crudo è insipido. La cotogna è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e si forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d' abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essiccazione, colla cottura, ed
Portogallo (C. lusitania), che è il migliore. In aprile e maggio dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in ottobre. Nel
(lib 3, c. 16). Si voleva guarisse dai calcoli urinari. Oggi, raschiato ed applicato come cataplasma attorno al collo, il popolo lo usa come risolvente nelle angine, e ne fa sciroppo che trova utile nella tosse ferina e nei catarri ostinati. Il ravanello rosso (Raphanus sativus rosea) à un'azione speciale, al dire del dottor Comi, sull'idropisia del globo dell'occhio e dice sia un antidoto alla mandarosi, ossia caduta delle ciglia, stropicciandole con esse due volte al giorno. Un proverbio dice: il ravanello fa il viso bello. I cronisti ci tramandano che il ramolaccio era la passione di Carlo Magno, passione ereditata da suo figlio Pipino. Dai nostri contadini viene chiamato: Salam de proeusa, e negli educandati: Polpett de magher.
(lib 3, c. 16). Si voleva guarisse dai calcoli urinari. Oggi, raschiato ed applicato come cataplasma attorno al collo, il popolo lo usa come
Satureja, santoreggia, savoreggia, coniella, peverella, erba acciuga è la medesima pianticella annuale, originaria della Spagna, vaga per la sua fioritura bianco-porporina. Si risemina da sè abbondantemente, e nasce facilmente dovunque, il suo seme germina fino a' tre anni. Nel linguaggio dei fiori: Ingenuità. Ve ne sono 8 varietà, tutta la pianta è aromatica. I cuochi la ricercano per rendere più grato il sapore delle fave, delle lenti, dei piselli secchi e degli altri legumi, ai quali si unisce assai bene come in tutte le salse. I Tedeschi la mettono nel loro Sauer-Kraut. Fu chiamata la salsa dei poveri. È utile in medicina, come stomatica, la sua decozione è buona per gargarismi e spruzzata nelle orecchie per le otiti, da qui forse il suo nome popolare di santoreggia, giova nelle affezioni vaporose. Colla satureja se ne profumano le abitazioni in tempo di epidemia e le stalle quando regnano le epizoozie. Il suo nome satureja, dall'antico satyreja, perchè di questa erba se ne cibavano volentieri i satiri, certi uomini che c' erano una volta e che avevano le corna e i piedi di capra. Era detta dai Romani cunila e coniza (da qui l'altro nome popolare di coniella), che il volgo chiamava anche pulicaria, perchè serviva a scacciare le pulci, virtù che conserva anche oggidì, emula della maggiorana. Sulle infinite virtù di questa erba, Strabone ebbe a dire:
regnano le epizoozie. Il suo nome satureja, dall'antico satyreja, perchè di questa erba se ne cibavano volentieri i satiri, certi uomini che c' erano
Nè lo zuccaro si estrae solo dall'arundo saccarifera. Abbiamo lo zuccaro di barbabietola, di castagne, d'uva, di latte, e trovasi pure nei succhi di molte piante, nelle radici, nei frutti e persino nelle carni di animali. Il diverso sapore o colore dipende dalla sua purezza, dal grado più o meno intenso di dolcezza, perchè da qualunque origine pervenga, quando è puro, è sempre la stessa cosa e non avvi differenza tra zuccaro e zuccaro. La scoperta dello zuccaro di barbabietola è dovuta al tedesco Margraff; il primo ad estrarlo in grande fu Achard di Berlino. Il metodo per ricavarlo, dopo ripetute esperienze, è stato perfezionato in Francia. Non si riduce che con estrema difficoltà alla bianchezza, asciuttezza e cristallizzazione di quello di canna. Anche da noi abbiamo tali fabbriche. Quello di castagne è di una cristallizzazione assai minuta, è molle, biondo, dolcissimo con legger sapore di castagna: si può ridurlo in pani. Lo zuccaro di latte si fabbrica in grande nella Svizzera, è bianchissimo, cristallizzato in piccoli cubi, poco solubile nell'aqua fredda, solubilissimo nella calda, di sapore dolciastro, senza odore quando è ben puro. Si adopera come alimento e come medicamento. Lo zuccaro di uva non à forma regolare, è in piccoli tubercoletti, in bocca produce prima una sensazione di fresco, indi un sapor zuccherino debole, così che ne abbisogna doppia quantità. Lo spirito di vino e l'aqua lo sciolgono più a caldo che a freddo. Questi zuccari ebbero interessante commercio in Europa al tempo del famoso blocco di Napoleone. Oggi quello solo di barbabietola à larga parte in commercio. Lo zuccaro si adultera con spato pesante, gesso, creta, farina, destrina, ma queste frodi sono possibili solo collo zuccaro in polvere od in pezzi (pile) e si devono in generale attribuire ai negozianti rivenditori. Del resto, tali materie si tradiscono facilmente, perchè sono insolubili. Acquistate il vostro zuccaro in pani, o madri di famiglia, perchè in pani, la frode è quasi incompatibile colle singole e molteplici operazioni di quest'industria. Lo zuccaro si sofistica pure col glucosio. Il glucosio è altra delle varietà di zuccaro e si prepara generalmente trattando l'amido, o fecola di patate con acido solforico o cloridrico. Quando è chimicamente puro, cioè affatto esente da sostanze eterogenee, non presenta altra differenza dello zuccaro di canna se non che nella sua virtù dolcificante, la quale sarebbe un terzo appena. Ma raramente il glucosio è purissimo, e spesso lo si trova nello zuccaro grasso, a cui si ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole; attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col glucosio è fatta su una scala enorme in America.
ricorre per economia. Oltre alla mancanza di sapore, c'è a temere sia nocevole; attenetevi dunque allo zuccaro in pani. L'adulterazione dello zuccaro col