L'Uva è il frutto della vitis fructifera, frutice perenne arrampicante, che può elevarsi a grande altezza e sostenersi, a foglia caduca, indigeno, originario incontestabilmente dei climi caldi, come tutti i frutti dolci. Non viene dovunque, nè dovunque produce bon frutto. Al piano l'uva rossa non matura bene al di là del 47° grado di latitudine, e la bianca del 49°, nè si eleva oltre i 600 metri. Vuole esposizione meridiana, teme l'umido soverchio, i continui venti, il freddo e le brine. Ama terreno sciolto calcareo argilloso, il terziario. Si propaga per seme, margotte, innesto, ma più comunemente per gemme. Numerose le sue varietà, essendo coltivata da molto tempo ed in condizioni svariatissime, onde si possono delineare i suoi frutti in uve bianche e nere, a sapore semplice e a sapore profumato, infine in uve da tavola e uve da vino. La vite dopo 40 anni comincia a deperire. Fiorisce in Maggio e matura a seconda della qualità e particolari condizioni da Agosto ad Ottobre. Si coglie a maturanza perfetta e perfettamente asciutta tanto per mangiarla, allo stato fresco, come per conservarla o farne vino. I più antichi botanici pretendevano che la vite fosse originaria dall'Asia, che i Fenicj l'avessero importata nelle Isole dell'Arcipelago, i Greci in Italia, i Francesi nelle Gallie, ecc. Ma il trovarla anche fra noi spontanea ed incolta nei boschi, fa perdere la fede a quel blasone di esotica nobiltà. Il nome vite vuolsi da parola celtica che significa albero, ma meglio lo si deriva dal latino vis, forza. Nel linguaggio delle piante significa: Ubbriachezza. Uva, viene da uvidus, pieno, pingue. L'uva, dice. Il Mantegazza, è frutto allegro, dolce, bello, galantuomo, rinfresca e nutrisce, l'uva è il più utile e proficuo dei frutti. Oltre il principale uso che si fà dell'uva — il vino, del quale dirò negli anni venturi, essa si mangia allo stato fresco, allegra la tavola, serve al cuoco nella cucina, al pasticciere per la credenza e la dispensa. I fiori ànno una fragranza gratissima, che ricorda quella del miglionetto, servono ad aromatizzare vini e liquori. Il succo dell'uva acerba, detto dai latini omphacium, e da noi agresto, esprime già col nome il suo sapore stittico. In sostituzione di agrumi e di aceto, lo si adopera a far salse, bevande rinfrescanti, e sciroppi in farmacia. Dai semi se ne cava un olio grasso di colore giallo verdognolo, di sapore spiacevole, che arde con fiamma brillante, senza molto fumo. Un ettolitro di semi può dare in media 8 kil. di olio. Si fa pure un rob o sciroppo d'uva, che i Romani chiamavano sapa, che si ottiene riducendo il mosto a due terzi od a metà mediante lenta ebollizione ed evaporazione. Distillando il vino e le vinaccie si ottiene, prima impuro, poi, con nove ripetute distillazioni, rettificato e purissimo l'alcool. Il primo risultato dà l'acquavite, il secondo lo spirito di vino. Il vino pure è suscettibile di una fermentazione acida, che lo converte in aceto — il tipo più galantuomo degli aceti e dei quali dirò pure negli anni venturi. L'uva matura è il più salubre dei frutti e se ne può mangiare e rimangiare senza pericolo, producendo tutt'al più un po' di mossa di corpo. I medici consigliano la cura dell'uva, e questa cura la chiamano ampeloterapia (dal greco ampelos, vite, e therapeyo, servire), che consiste nell'uso dietetico, sistematico dell'uva come alimento principale, per un tempo prolungato, onde possa produrre salutari modificazioni nell'organismo. Essa ingrassa, è sostanza nutriente, riconfortante nell'atonia-languore del ventricolo, nella gastrorrea, conviene nella plettorea addominale, calma l'irritazione degli organi respiratori, mitiga la tosse, facilita l'espettorazione ed è indicata nella tubercolosi. La cura dell'uva si schiera più simpatica, e fors'anche più sicura a fianco di quelle delle tante aque minerali, del siero e dell'olio di fegato di merluzzo.
addominale, calma l'irritazione degli organi respiratori, mitiga la tosse, facilita l'espettorazione ed è indicata nella tubercolosi. La cura dell'uva si
Ma pare servisse solo in medicina (Galeno. De Simpl. Med. Fac. cap. 120). L'epoca vera della prima introduzione dello zuccaro in Europa è oscura. Era ramo di commercio fra l'Indostan, la Persia e l'Arabia. Dalla Mecca per Bassora e Bagdad discese al basso Egitto, poi in Grecia e nell'Asia Minore, di là in Europa. Vogliono alcuni che gli Spagnoli e i Portoghesi lo scoprissero per la prima volta nelle Isole Canarie ed a Madera. Ma la cosa pare invece all'incontrario. L'arundo saccarifera, nel 996 fu portata la prima volta dall'Oriente a Venezia e prosperava dopo il mille in Sicilia, tanto che nel 1419 l'Università di Palermo assegnava aque per la sua coltivazione. Secondo Merini prima ancora nel 1319 se ne spedì da Venezia in Inghilterra per 100,000 libbre e 10,000 di candito. I Portoghesi prendendo possesso di Madera vi piantarono la canna dello zuccaro, facendola venire dalla Sicilia, da dove penetrò pure in Spagna. Nel 1449 Pietro Speciale, lo piantò nella campagna di Ficarazzi su quel di Palermo. Nel 1550 un viaggiatore descrive i trappeti (aje) dello zuccaro a Carini, Trabia, Casalbianco, Modica ecc. Ciò riferisce Albert Aqueus lib. V. 37. Dopo quell'epoca in Sicilia ne fu trascurata la coltivazione e fiorì invece grandemente nelle Indie che fornivano lo zuccaro a tutta Europa. In America fu portato dagli Spagnoli. Pier d'Atienza lo piantò nel 1520 presso Concezion della Vega, e già nel 1553 il Messico ne produceva tanto da fornirne il Perù e la Spagna. Gonzalo di Velosa vi costruì i primi cilindri. Il consumo si estese mano mano in Europa finchè propagatosi l'uso del caffè, del tè e della cioccolatta, lo zuccaro divenne indispensabile quanto il sale. Ciò rovinò il commercio del miele, fino allora vivissimo. Il raffinamento dello zuccaro fu inventato da un veneziano nel secolo XVII. Ed ora lo zuccaro è articolo di prima necessità anche pel povero. Entra padrone assoluto nella pasticcieria, nella Cucina, nella cantina, nella farmacia. È sano, facilita la digestione, riscalda ed ingrassa, è utile alla salute dei bambini. I dolci fanno loro male, non per lo zuccaro, ma per la farina e gli altri ingredienti. Lo zuccaro è la più dolce, innocente e proficua delle produzioni vegetali, fù ed è molto calunniato, ed è una viltà abusare della sua bontà, perchè non avendo fiele, non può far vendetta.
cantina, nella farmacia. È sano, facilita la digestione, riscalda ed ingrassa, è utile alla salute dei bambini. I dolci fanno loro male, non per lo
Il Popone, volgarmente detto Melone, è una pianta erbacea, annua, indigena originaria dall'Asia. Vuol terreno sciolto, lavorato profondamente, grasso, fresco. Per la coltura forzata, si semina su letto caldo in Gennajo, Febbrajo, Marzo: solo in Aprile e Maggio all'aperto si trapianta. Ama la mezz'ombra e la pulitezza, il troppo umido gli è dannoso. Si svetta, a farlo più prolifico e ad impedirne una soverchia vegetazione. È maturo, quando il suo peduncolo è corto, grosso, à sapore amarognolo, e quando il frutto è pesante e resistente alla pressione. L'odore non deve essere molto pronunciato. La troppa sonorità del frutto, battuto colle dita, è indizio d'immaturità. Si conserva di più e riesce migliore quando non sia colto a maturanza innoltrata. Il cogliere un melone a suo tempo non è abilità di tutti — da qui il nostro proverbio: De melon ghe nè pocch de bon. Se si coglie acerbo non à sapore, se stramaturo lo à perso. Nel coglierlo si tagli un nodo sopra del frutto, non gli si sterpi la coda — il melone perde d'odore e traspira per quella parte. Vuolsi che colto e lasciato riposare 24 ore aquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Il seme si conserva per sei o sette anni, anzi si pretende che quanto più sia vecchio, produce meloni migliori. Generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà tanto precoci, che tardive — àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Popone dal greco pepto, maturare. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione — è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto coi salumi, per frutta da dessert, se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca (1), si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue mandorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essicate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e la famosa semata la prediletta dei nostri nonni.
mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione — è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto coi salumi