ALMANACCO IGIENICO POPOLARE DEL Dott. PAOLO MANTEGAZZA ANNO DECIMOSETTIMO 1882 PICCOLO DIZIONARIO DELLA CUCINA MILANO LIBRERIA GAETANO BRIGOLA Corso Vittorio Emanuele, 26
ALMANACCO IGIENICO POPOLARE DEL Dott. PAOLO MANTEGAZZA ANNO DECIMOSETTIMO 1882 PICCOLO DIZIONARIO DELLA CUCINA MILANO LIBRERIA GAETANO BRIGOLA Corso
Orduvre = Tritate fine due provature fresche, uniteci un poco di parmigiano, provatura marzolina, e cascio cavallo grattato, una fetta di prosciutto trita, che abbia prima sudato un poco dentro una cazzarola sopra il fuoco, petrosemolo trito, niente sale, pepe schiacciato, noce moscata, due uova crude; mescolate il tutto bene. Stendete una sfoglia di pasta brisè fatta col butirro, o collo strutto poco importa, alla grossezza di un paolo, formateci sul bordo dei piccioli mucchietti colla composizione suddetta, indorateli all'intorno con uovo sbattuto, ripiegateci sopra la pasta, saldatela bene e tagliatela collo sperone, a guisa di piccioli Ravioli a mezza luna. Nel momento di servire fateli friggere nello strutto ben caldo, e serviteli subito di bel colore. In Napoli sono chiamate queste Rissole Panzarotti.
crude; mescolate il tutto bene. Stendete una sfoglia di pasta brisè fatta col butirro, o collo strutto poco importa, alla grossezza di un paolo
Orduvre = Fate cuocere due palati di manzo in una Bresa; quando saranno freddi tagliateli sottili, e della grandezza di un paolo; metteteci sopra, e sotto un poco di farsa cotta di Pollo, formatene dei piccioli mucchietti sopra la pasta brisè, come le Rissole alla Napolitana, e finitele, e servitele nella stessa maniera.
Orduvre = Fate cuocere due palati di manzo in una Bresa; quando saranno freddi tagliateli sottili, e della grandezza di un paolo; metteteci sopra, e
Antremè Rifreddo = Sventrate quattro Pernici, trussatele colle zampe nel corpo, fatele rinvenire sulle bracie di un fornello, lardatele con lardelli di lardo conditi con sale, e spezie fine. Fate una farsa alla Perigord con tre libbre di lardo, i fegati delle Pernici, ed una libbra di tartufi, il tutto pesto assai fino nel mortajo, e condito con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere. Stendete cinque fogli di carta da mezzo bajocco il foglio sopra la tavola della Pasticciera, incollateli uno sopra all'altro con un poco di pastella fatta con farina, poco di acqua, uova e sale, e lasciategli all'intorno circa otto dita di spazio senza colla, non dovendo essere incollati detti fogli, che fin dove giunge il ripieno; stendeteci nel mezzo in forma riquadrata la metà della farsa, aggiustateci sopra le quattro Pernici con una quantità di tartufi interi e mondati, condite sopra con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere, coprite con il resto della farsa, e fette di lardo; ripiegateci quindi sopra la carta foglio per foglio, a guisa di una papigliotta riquadrati; ma siccome non giungerà detta carta a coprire del tutto il Pasticcio supplite con altri fogli di carta, andando sempre incollando colla pastella suddetta. Questo Pasticcio, si fa ordinariamente con cinque fogli di carta sotto, e cinque mezzi sopra, incollati bene, cioè quelli di sopra come quelli di sotto tramezzandoli e vicenda, e riportando nell'ultimo tutto all'intorno delle striscie di carta larghe tre dita, bene incollate, e poste con qualche simmetria; fategli quindi un buco nella sommità, largo come la moneta di un paolo, formategli un caminetto di carta lungo più di mezzo palmo, bene incollato da piedi e all'intorno, che farete star diritto mediante uno stecchetto di legno, che gli infilarete dentro sino alla carne del Pasticcio; indi copritelo tutto all'intorno colla pastella suddetta; fatelo cuocere sopra una lastra di rame, ad un forno temperato cinque, o sei ore. Subito cotto levategli il caminetto, turategli il buco con una rotella di carta bene incollata, e che averete fatto prendere colore al forno con sopra un poco di pastella; e servitelo sopra una salvietta allorchè sarà del tutto rifreddo. Questi Pasticci si conservono lungamente, e sono ottimi per viaggio.
dita, bene incollate, e poste con qualche simmetria; fategli quindi un buco nella sommità, largo come la moneta di un paolo, formategli un caminetto di
bito ci passerete sopra un foglio di carta suga a più doppj, onde ce ne resti quasi niente attaccata; stendete la pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo. Vedetela nel Tom. IV. pag. 229. tagliatene con un taglia paste rotondo, tanti tondi grandi come la circonferenza delle barachiglie, aggiustatecili sopra, fateli cuocere di un bel color d'oro ad un forno assai temperato; quindi lasciateli un pochino raffreddare, e levateli dalle stampe. Potete far cuocere anche de' coperchi, della medesima pasta, alquanto traforati, qualora vogliate servire le Tartelette coperte, come quelle di Fravole, all'Agresto etc.., ed ancora quando le riempite di qualunque marmellata, gelatina, o composta di Frutta; ma per Sorbetti gelati, Fravole al naturale, cioè semplicemente lavate con vino bianco, scolate bene, e condite con zucchero in polvere; con pere intere tornite cotte e servite con porzione del proprio sciroppo debbono essere scoperte. Tutte queste Tartellette le potete anche apprestare, e servire con pasta croccante, o frolla di magro alle mandorle, come ho detto di sopra.
moneta da un paolo. Vedetela nel Tom. IV. pag. 229. tagliatene con un taglia paste rotondo, tanti tondi grandi come la circonferenza delle barachiglie
Antremè = Intagliate della pasta di mandorle stesa sottile come una moneta di un paolo, a guisa di qualunque sorta di fiori colle loro foglie, fateli cuocere sopra carta da servire ad un forno temperato; quindi coloriteli al naturale, e serviteli tramezzati con diversa pasticcieria.
Antremè = Intagliate della pasta di mandorle stesa sottile come una moneta di un paolo, a guisa di qualunque sorta di fiori colle loro foglie, fateli
Antremè = Abbiate della pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo, tagliatene de fondi tondi, larghi poco più di uno scudo, e delle strisce alte tre dita, rifilate un pochino queste strisce da una sola parte, lasciandogli il sito da formare due buchi uno incontro all'altro, e che questi buchi sopravanzino l'orlo del Mastello, collate con un poco di bianco d'uovo queste strisce alla intorno del fondo suddetto, e unite ben insiemi i lembi de' bordi, decorateli al di fuori di piccioli fioretti della stessa pasta ma colorirà, e fatali cuocere sopra fogli di carta da scrivere ad un forno assai temperato, o asciugare alla stufa. Abbiate tanti piccioli bastoncelli della stessa pasta lunghi quattro dito traversi, e grossi a proporzione de' buchi de' Mastelli, fateli cuocere egualmente. Nel momento di servire riempite i Mastelli di ciò che vorrete, come Gelatina, o Composta di frutta, Crema gelata, Sorbetto gelato etc., e infilateci i loro bastoncelli.
Antremè = Abbiate della pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo, tagliatene de fondi tondi, larghi poco più di uno scudo, e delle
Antremè = Pestate nel mortajo ben fine otto oncie di mandorle dolci, aspergendole di tempo in tempo con un poco di bianco d'uovo; quindi aggiungeteci ott'oncie di zucchero in polvere, e tre bianchi d'uova, seguitate a pestare, acciò il tutto si mescoli insieme. Scaldate due o tre lastre di rame ben pulite, passateci sopra un pezzetto di cera bianca, e subito un foglio di carta suga piegato a più doppi. Quando saranno fredde stendeteci sopra col coltello la pasta di mandorle suddetta alla grossezza di una moneta di un paolo, e quindi stendete sopra a detta pasta del bianco d'uovo sbattuto in fiocca, spolverizzate bene sopra di zucchero in polvere, e seminateci degli anacini; fate cuocere ad un forno temperato, e di un bel color d'oro; poscia tirate fuori dal forno, e col coltello tagliate de' quadretti larghi tre dita traversi, abbiate pronta una canna, e a mano, a mano avvolgeteli ben caldi a detta canna, e serviteli sopra una salvietta, o per guarnizione.
coltello la pasta di mandorle suddetta alla grossezza di una moneta di un paolo, e quindi stendete sopra a detta pasta del bianco d'uovo sbattuto in
Antremè = Ungete con butirro chiarificato e rifreddo il di fuori di un rame ben pulito, di quella forma che volete fare la Croccante. Abbiate della pasta di mandorle ben fatta. Vedetela nel Tom. IV. pag. 229., che sia maneggievole, e non troppo disseccata; stendetela alla grossezza di una moneta da un paolo, tagliatela secondo il disegno che volete fate, cioè a fascie, foglie, fioretti etc. aggiustate tutti questi pezzi sopra la stampa con disegno e simetria, facendo tenere gli uni cogli altri con bianco d'uovo, e che non formino che un solo pezzo; fate quindi cuocere di un colore d'oro pallido ad un forno assai temperato, e poscia raffreddare. Per tirare poscia la Croccante dalla stampa, ponetela sopra un fornello con sotto cenere calda, allorchè vedete che si distacca, alzatela leggermente; quindi glassatela sopra con una glassa Reale, o di diversi colori, ovvero lasciatela nel suo color naturale; posatela sopra un fondo della medesima pasta, cotto di bel colore, con sotto diversa sorta di pasticcieria. In questa maniera potete fare qualunque sorta di Canestre, Vasi, Urne etc., basta che abbiate le forme di rame, che corrispondino a si fatte cose. Colla pasta Croccante, o alla Condè potete fare lo stesso.
un paolo, tagliatela secondo il disegno che volete fate, cioè a fascie, foglie, fioretti etc. aggiustate tutti questi pezzi sopra la stampa con
Antrcmè = Coprite tutto il di fuori di un same unto come sopra, di pasta Croccante, o alla Condè, grossa come un paolo. Vedete ambedue queste paste nel Tom. IV. pag. 127.; indi col coltello intagliatela propriamente, facendogli qualche bel disegno; fatela cuocere di bel colore, levatela dal rame come l'altra, e servitela egualmente. Queste Croccanti le potete fare con fiori, fronde, e filetti di pasta riportati, e aggiustati a gratella, o in altra maniera sopra il rame. Potete anche colorire la pasta Croccante, mescolandoci quando l'impastate il colore che volete. Vedete i diversi colori alla pasta di Mandorle pag. 227.
Antrcmè = Coprite tutto il di fuori di un same unto come sopra, di pasta Croccante, o alla Condè, grossa come un paolo. Vedete ambedue queste paste
Orduvre = Tritate fine due provature fresche, uniteci un poco di parmigiano, provatura marzolina, e cascio cavallo grattato, una fetta di prosciutto trita, che abbia prima sudato un poco dentro una cazzarola sopra il fuoco, petrosemolo trito, niente sale, pepe schiacciato, noce moscata, due uova crude; mescolate il tutto bene. Stendete una sfoglia di pasta brisè fatta col butirro, o collo strutto poco importa, alla grossezza di un paolo, formateci sul bordo dei piccioli mucchietti colla composizione suddetta, indorateli all'intorno con uovo sbattuto, ripiegateci sopra la pasta, saldatela bene e tagliatela collo sperone, a guisa di piccioli Ravioli a mezza luna. Nel momento di servire fateli friggere nello strutto ben caldo, e serviteli subito di bel colore. In Napoli sono chiamate queste Rissole Panzarotti.
crude; mescolate il tutto bene. Stendete una sfoglia di pasta brisè fatta col butirro, o collo strutto poco importa, alla grossezza di un paolo
Orduvre = Fate cuocere due palati di manzo in una Bresa; quando saranno freddi tagliateli sottili, e della grandezza di un paolo; metteteci sopra, e sotto un poco di farsa cotta di Pollo, formatene dei piccioli mucchietti sopra la pasta brisè , come le Rissole alla Napolitana, e finitele, e servitele nella stessa maniera.
Orduvre = Fate cuocere due palati di manzo in una Bresa; quando saranno freddi tagliateli sottili, e della grandezza di un paolo; metteteci sopra, e
Antremè Rifreddo = Sventrate quattro Pernici, trussatele colle zampe nel corpo, fatele rinvenire sulle bracie di un fornello, lardatele con lardelli di lardo conditi con sale, e spezie fine. Fate una farsa alla Perigord con tre libbre di lardo, i fegati delle Pernici, ed una libbra di tartufi, il tutto pesto assai fino nel mortajo, e condito con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere. Stendete cinque fogli di carta grande, detta Imperiale sopra la tavola della Pasticciera, incollateli uno sopra all'altro con un poco di pastella fatta con farina, poco di acqua, uova e sale, e lasciategli all'intorno circa otto dita di spazio senza colla, non dovendo essere incollati detti fogli, che fin dove giunge il ripieno; stendeteci nel mezzo in forma riquadrata la metà della farsa, aggiustateci sopra le quattro Pernici con una quantità di tartufi interi e mondati, condite sopra con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere, coprite con il resto della farsa, e fette di lardo; ripiegateci quindi sopra la carta foglio per foglio, a guisa di una papigliotta riquadrati; ma siccome non giungerà detta carta a coprire del tutto il Pasticcio supplite con altri fogli di carta, andando sempre incollando colla pastella suddetta. Questo Pasticcio, si fa ordinariamente con cinque fogli di carta sotto, e cinque mezzi sopra, incollati bene, cioè quelli di sopra con quelli di sotto tramezzandoli e vicenda, e riportando nell'ultimo tutto all'intorno delle striscie di carta larghe tre dita, bene incollate, e poste con qualche simmetria; fategli quindi un buco nella sommità, largo come la moneta di un paolo, formategli un caminetto di carta lungo più di mezzo palmo, bene incollato da piedi e all'intorno, che farete star diritto mediante uno stecchetto di legno, che gli infilarete dentro sino alla carne del Pasticcio; indi copritelo tutto all'intorno colla pastella suddetta; fatelo cuocere sopra una lastra di rame, ad un forno temperato cinque, o sei ore. Subito cotto levategli il caminetto, turategli il buco con una rotella di carta bene incollata, e che averete fatto prendere colore al forno con sopra un poco di pastella; e servitelo sopra una salvietta allorchè sarà del tutto rifreddo. Questi Pasticci si conservono lungamente, e sono ottimi per viaggio.
, bene incollate, e poste con qualche simmetria; fategli quindi un buco nella sommità, largo come la moneta di un paolo, formategli un caminetto di
Antremè = Nettate bene il di fuori delle stampe da pasticcetti, scaldatele, e ungetele leggiermente con un pezzetto di cera bianca, che subito ci passerete sopra un foglio di carta suga a più doppj, onde ce ne resti quasi niente attaccata; stendete la pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo. Vedetela nel Tom.
Antremè = Intagliate della pasta di mandorle stesa sottile come una moneta di un paolo, a guisa di qualunque sorta di fiori colle loro foglie, fateli cuocere sopra carta da servire ad un forno temperato; quindi coloriteli al naturale, e serviteli tramezzati con diversa pasticcieria.
Antremè = Intagliate della pasta di mandorle stesa sottile come una moneta di un paolo, a guisa di qualunque sorta di fiori colle loro foglie, fateli
Antremè = Abbiate della pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo, tagliatene de fondi tondi, larghi poco più di uno scudo, e delle strisce alte tre dita, rifilate un pochino queste strisce da una sola parte, lasciandogli il sito da formare due buchi uno incontro all'altro, e che questi buchi sopravanzino l'orlo del Mastello, collate con un poco di bianco d'uovo queste strisce alla intorno del fondo suddetto, e unite ben insiemi i lembi de' bordi, decorateli al di fuori di piccioli fioretti della stessa pasta ma colorita, e fateli cuocere sopra fogli di carta da scrivere ad un forno assai temperato, o asciugare alla stufa. Abbiate tanti piccioli bastoncelli della stessa pasta lunghi quattro dita traverso, e grossi a proporzione de' buchi de' Mastelli, fateli cuocere egualmente. Nel momento di servire riempite i Mastelli di ciò che vorrete, come Gelatina, o Composta di frutta, Crema gelata, Sorbetto gelato ec., e infilateci i loro bastoncelli.
Antremè = Abbiate della pasta di mandorle grossa come una moneta da un paolo, tagliatene de fondi tondi, larghi poco più di uno scudo, e delle
Abbiate della pasta di mandorle ben fatta. Vedetela nel Tom. IV. pag. 251., che sia maneggievole, e non troppo disseccata; stendetela alla grossezza di una moneta da un paolo, tagliatela secondo il disegno che volete fare, cioè a fascie, foglie, fioretti ec. aggiustate tutti questi pezzi sopra la stampa con disegno e simetria, facendo tenere gli uni cogli altri con bianco d'uovo, e che non formino che un solo pezzo; fate quindi cuocere di un colore d'oro pallido ad un forno assai temperato, e poscia raffreddare. Per tirare poscia la Croccante dalla stampa, ponetela sopra un fornello con sotto cenere calda, allorchè vedete che si distacca, alzatela leggermente; quindi glassatela sopra con una glassa Reale, o di diversi colori, ovvero lasciatela nel suo color naturale; posatela sopra un fondo della medesima pasta, cotto di bel colore, con sotto diversa sorta di pasticcieria. In questa maniera potete fare qualunque sorta di Canestre, Vasi, Urne ec., basta che abbiate le forme di rame, che corrispondino a si fatte cose. Colla pasta Croccante, o alla Condè potete fare lo stesso.
di una moneta da un paolo, tagliatela secondo il disegno che volete fare, cioè a fascie, foglie, fioretti ec. aggiustate tutti questi pezzi sopra la
Antremè = Coprite tutto il di fuori di un same unto come sopra, di pasta Croccante, o alla Condè, grossa come un paolo. Vedete ambedue queste paste nel Tom. IV. pag. 249.; indi col coltello intagliatela propriamente, facendogli qualche bel disegno; fatela cuocere di bel colore, levatela dal rame come l'altra, e servitela egualmente. Queste Croccanti le potete fare con fiori, fronde, e filetti di pasta riportati, e aggiustati a gratella, o in altra maniera sopra il rame. Potete anche colorire la pasta Croccante, mescolandoci quando l'impastate il colore che volete. Vedete i diversi colori alla pasta di Mandorle pag. 244.
Antremè = Coprite tutto il di fuori di un same unto come sopra, di pasta Croccante, o alla Condè, grossa come un paolo. Vedete ambedue queste paste
La contessa Maria Fantoni, ora vedova dell'illustre professor Paolo Mantegazza, mi fece la inaspettata sorpresa di onorarmi della infrascritta lettera, la quale serbo in conto di gradito premio alle mie povere fatiche:
La contessa Maria Fantoni, ora vedova dell'illustre professor Paolo Mantegazza, mi fece la inaspettata sorpresa di onorarmi della infrascritta
Finalmente dopo tante bastonature, sorse spontaneamente un uomo di genio a perorar la mia causa. Il professor Paolo Mantegazza, con quell'intuito pronto e sicuro che lo distingueva, conobbe subito che quel mio lavoro qualche merito lo aveva, potendo esser utile alle famiglie; e, rallegrandosi meco, disse: — Col darci questo libro voi avete fatto un'opera buona e perciò vi auguro cento edizioni.
Finalmente dopo tante bastonature, sorse spontaneamente un uomo di genio a perorar la mia causa. Il professor Paolo Mantegazza, con quell'intuito
FARNESE. ILlustre famiglia italiana che oltre guerrieri diede un Papa (Paolo III) e gli duchi di Parma. — Le denominazioni “ à la Farnese ,, si riferiscono a questa famiglia e non al Farnese, figlio di Mitridate il Grande (a. 47 a. C.)
FARNESE. ILlustre famiglia italiana che oltre guerrieri diede un Papa (Paolo III) e gli duchi di Parma. — Le denominazioni “ à la Farnese ,, si
Chi non ricorda ad esempio i monumentali panettoni di Paolo Biffi e dei figli Francesco e Natale, panettoni di 15 a 25 chilogrammi cadauno, cotti alla perfezione, che destarono l'ammirazione delle principali città d'Europa?
Chi non ricorda ad esempio i monumentali panettoni di Paolo Biffi e dei figli Francesco e Natale, panettoni di 15 a 25 chilogrammi cadauno, cotti
2. MASSIMO BONTEMPELLI, scrittore, collaboratore della Gazzetta del Popolo; 3. G. A. BORGESE, scrittore, critico, collaboratore del Corriere della Sera; 4. Gr. uff. PAOLO BUZZI, poeta, scrittore, Segretario Generale della Provincia di Milano; 5. Comm. CARLO FOA', professore di fisiologia all'Università di Milano; 6. On. FERRUCCIO LANTINI, Presidente della Confederazione Generale Fascista del Commercio. 7. S. E. FILIPPO TOMMASO MARINETTI, della Reale Accademia d'Italia; poeta, scrittore, Segretario Generale della Confederazione Fascista degli Intellettuali; 8. UMBERTO NOTARI, scrittore, direttore della Finanza d'Italia; 9. Comm. DARIO NUNES FRANCO, direttore della Banca Commerciale Italiana; 10. S. E. ETTORE ROMAGNOLI, della Reale Accademia d'Italia; scrittore, drammaturgo. 11. M. ALCEO TONI, musicista, critico del Popolo d'Italia. ———
Sera; 4. Gr. uff. PAOLO BUZZI, poeta, scrittore, Segretario Generale della Provincia di Milano; 5. Comm. CARLO FOA', professore di fisiologia all
Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne colla fermentazione un liquore inebriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. II calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma lavorati si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica, chiamata perciò delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d'allora si candivano perchè i freschi eran fin d'allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca.
— è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della
cap. 25, e Marco Paolo Veneziano al 120 lib. c. 38. Presso i Romani serviva anche a dar bon alito alla bocca. Da noi lo si unisce alla frutta in giulebbe, a quella conservata nell'alcool, entra nella confezione del vin brulè, e nella pasticceria.
cap. 25, e Marco Paolo Veneziano al 120 lib. c. 38. Presso i Romani serviva anche a dar bon alito alla bocca. Da noi lo si unisce alla frutta in
È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo a condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono, lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27. 20) e nel Levitico (cap. 24. 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumastro chiamato omphacium gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come rimedio preziosissimo contro un'infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche il frutto dell'olivo è mangiabile. Nella Bibbia è chiamato fruges. — Si fruges collegeris olivarum (Deut. 24. 20). Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di aqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'aqua, e finalmente si coprono con forte salamoja aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno de' suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa per essere felice, che un po' di olive, di cicoria, e di malva: Me pascant ulivœ, me cicorea, levesque malvœ. Tutti gli scrittori Greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama adirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri.
olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano
In medicina tali semi danno emulsioni emollienti, e rinfrescanti. I Greci lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni colerose. In Francia per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre, onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il Papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato era il solo, cibo che gradisse. Il melone a Roma, era chiamato melangolo. Le qualità del buon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon, de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
Papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato era il solo, cibo che gradisse. Il melone a Roma, era chiamato
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della palma oriente, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America meridionale e di molte parti dell'Africa. È diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 chilogrammi di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Non dà frutti che dopo moltissimi anni. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche, i frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale. I migliori sono quelli d'Alessandria d'Egitto. Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne, colla fermentazione, un liquore inebbriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane, e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente. Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. Il calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma, lavorati, si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica chiamata delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. È questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Senofonte nel 2.° libro della Spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d' allora si candivano perchè i freschi eran fin d' allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca. Dei datteri si dice:
Paolo Egineta e Senofonte nel 2.° libro della Spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di
Questo non è il fiore educato nei giardini, il garofano diantus, ma un grosso albero sempre verde, che cresce nelle Molucche, dove si chiama Chanque e fatto indigeno nelle Indie orientali, a Zanzibar, nella Guajana, ecc., venne chiamato garofano da noi, perchè à appunto il profumo di questo. Raggiunge talvolta l'altezza di 12 metri, à la forma dell'alloro e vita secolare. Il nome di questo albero, rarissimo in Europa, viene dal greco carion, noce e phyllon, foglia. Nel linguaggio delle piante è l'emblema della dignità, del lusso. I così detti chiodi o punte di garofano, sono i fiorifrutti del Cariophyllus aromaticus, disseccati prima che siano maturi. I suoi fiori odorosissimi, dapprima bianco-latte, più tardi prendono un color rosso vivacissimo, per modo che l'albero è di un effetto sorprendente. Si raccolgono i fiori innanzi che si aprano, da settembre a febbraio, si fanno essiccare al sole, e sotto l'influenza dell'aria e della luce, l'essenza che in abbondanza contengono li imbrunisce e loro comunica quella tinta bruno-rossa caratteristica, che si chiama bruno di garofano. Ànno la forma di un piccolo chiodo (d'onde il loro nome), sapore forte, piccante, piacevole. Sono coronate da quattro punte ed il peziolo capolino che trovasi nel mezzo è il fiore risecco. In commercio si conosce il garofano di Borbone e di Cajenna, ma il migliore è quello delle Molucche, ed è perciò che sotto questo nome passa quello di Zanzibar, da dove ne vengono importati in Europa circa 30.000 quintali annualmente. Le buone punte di garofano devono essere rigonfie, tenere sotto la pressione dell'unghia, si deve vedere escir l'olio essenziale, e ciascuna punta dev'essere provveduta della sua testa intera. Se l'ànno perduta, se sono leggere, dure, la merce è vecchia o già spogliata della sua sostanza con la distillazione. Il garofano si falsifica principalmente in Olanda. I chiodi di garofano si adoperano più come aroma nella cucina e nella distilleria, che come medicamento. Sono per altro stimolanti e si possono amministrare sotto diverse forme a dosi misurate. Dai Molucchi allorchè sono verdi si condiscono con aceto e sale. L'olio di garofano è usato come profumo, e per calmare come cauterizzante i dolori dei denti offesi. Si falsifica con olii, grassi, e allungato con alcool. I frutti del garofano sono conosciuti sotto il nome di Antofli. Sono mandorle quasi secche contenenti un nocciolo duro — ànno sapore e odore di garofano, ma leggero. Freschi, si condiscono con zuccaro e si mangiano dopo il pasto per facilitare la digestione. I peduncoli rotti vengono chiamati griffi di garofano, sono piccoli branchi minutissimi, grigiastri, d'un sapore e odore fortissimi. S'impiegano nella distilleria per liquori e profumi. Era conosciuto il garofano dai Greci e dai Latini come droga e come medicamento e ne era celebratissimo. Ne parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani serviva anche a dare un bon alito alla bocca. Entra nella cucina a dar sapore ed aroma ai manicaretti, allo stufato, al manzo, al pesce, alla frutta — si adopera nella pasticceria, nella confezione del vino brulè.
parla Serapione e Plinio al 12.° lib., c. 7. Ne parlò Lodovico Romano al G.° lib., c. 25, e Marco Paolo Veneziano al 12.° lib., c. 38. Presso i Romani
(Deut., 24, 20): Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele, che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivia, del principio amaro, si conservano in salamoia e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di acqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'acqua, e finalmente si coprono con forte salamoia aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno dei suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa, per esser felice, che un po' di olive, di cicoria e di malva:
(Deut., 24, 20): Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto
Solone aveva ordinato che alla mensa delle nozze fossero apprestati dei pomi cotogni, agli sposi. Questo frutto non dura molto. Si candisce, se ne fa sciroppo ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni catarrali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto la cenere, ne fa torte, pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine che, Pareira, chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago, prodotti da qualche acre, corrodente sostanza; esternamente, a modo di colirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive; questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca; anzi, Plinio insegna a cocerli nel miele, Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis, ma anche come medicamentum.
lisciare e fissare i capelli. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca; anzi, Plinio insegna a cocerli nel miele, Galeno e Paolo Egineta
quella parte. Vuolsi che cotto e lasciato riposare 24 ore, acquisti di bontà. Se affonda nell'aqua è buono. Del seme generalmente si sceglie quello dell'anno antecedente, maturato sul proprio stelo, si toglie dall'interno del frutto e si fa asciugare senza lavarlo. Moltissime le sue varietà, tanto precoci, che tardive. Àvvene a polpa rossa, bianca, verde, gialla e sono caratterizzate dalle loro coste. Boni, anche i rampichini. Alcune varietà raggiungono enormi proporzioni e sono oltremodo profumate e gustose. La sua coltura riesce perfettamente in Italia, celebri quelli di Caravaggio, precoci, carnosi, tondi, a polpa gialla, ma non paragonabili a quelli dell'Italia Meridionale e singolarmente a quelli d'inverno, che ci vengono dalla Sicilia e dalla Basilicata. Fra le migliori specie si distinguono: il moscato di Spagna ed i cantaloup di Francia. Nel linguaggio dei fiori: Silenzio benevolo. La parola melone, da mela, quasi una grossa mela, ci venne dai Latini. Il popone è frutto saporito, aromatico, ma non è digeribile da tutti. I ghiottoni lo mangiano con zuccaro e pepe, il che ne facilita la digestione; è utile l'accompagnarlo con vino generoso o rhum. Si serve a tavola, per antipasto, coi salumi, per frutta da dessert; se ne fanno anche sorbetti. In cucina serve come la zucca, si taglia a bocconi in minestra e brodo grasso, si lega con ova e formaggio, e se di magro, si condisce con latte delle stesse sue màndorle. Le scorze si condiscono al miele, si candiscono e si confettano nell'aceto. Spogliate di quella prima pelle rustica tubercolosa, si fanno bollire col vino, e fatte asciugare al sole o al forno, si mettono in conserva, in mostarda. A fette sottili, essiccate, si conserva per l'inverno, che rinvenute nell'aqua tepida si conciano in minestra e se ne coprono i lessi. Dicesi che un pezzo di melone messo nella pentola acceleri la cottura delle carni. I semi si mangiano pure e sono dolcissimi, saporiti in confettura. Pestati, servono a fare lattate e da famosa semata, la prediletta dei nostri nonni. In medicina, tali semi danno emulsioni emollienti e rinfrescanti. I Greci, lo avevano per frutto nocevole, e producente febbri miasmatiche ed affezioni cholerose. In Francia, per molto tempo fu il cibo dei soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII li prediligeva sì, che malato, era il solo cibo che gradisse. Il melone a Roma era chiamato melangolo. Le qualità del bon melone sono descritte nella seguente epistola di Antonio Bauderon de Senecè, poeta famoso e dottore illustre della Sorbona:
soli muli. In Spagna ed Italia fu sempre onorato: nel 1600 erano celebri quelli di Ostia. Il papa Paolo II morì per indigestione di melone. Clemente VII
Intanto, la polemica dilagava attraverso centinaia di articoli. Ricordiamo, a caso, gli scritti di Massimo Bontempelli, Paolo Monelli, Paolo Buzzi, Arturo Rossato, Angelo Frattini, Salvatore di Giacomo, ecc.
Intanto, la polemica dilagava attraverso centinaia di articoli. Ricordiamo, a caso, gli scritti di Massimo Bontempelli, Paolo Monelli, Paolo Buzzi
Paolo Monelli, nella difesa della pastasciutta la dichiara l'ideale vivanda dei combattenti. Ciò era forse vero per gli alpini che, fra tutti i combattenti, sono i più pronti, dopo battaglie, scalate e valanghe, ad improvvisare perfetti equipaggiamenti, comodi rifugi, forniti e ben arredati baraccamenti e cucine sapienti. Ciò non è vero per le truppe che combattono in pianura. I futuristi che combattevano a Doberdò, a Selo, sulla Vertoibizza, a Plava e alle case di Zagora e dopo a Casa Dus, a Nervesa e a Capo Sile sono pronti a testimoniare che mangiarono sempre delle pessime pastasciutte, ritardate, congelate e trasformate dai tiri di sbarramento nemici che separavano gli attendenti e i cuochi dai combattenti. Chi poteva sperare in una pastasciutta calda e al dente? Marinetti ferito alle Case di Zagora nell'offensiva del Maggio 1917, trasportato giù a Plava in barella, ricevette da un soldato ex-cuoco del Savini un miracoloso brodo di pollo: quel sagace opportuno cuoco, per quanto zelante e devoto al simpatico cliente di una volta, non avrebbe potuto con la maggior buona volontà offrirgli una pastasciutta mangiabile, poiché sulla sua cucina di battaglione crollavano di quando in quando tremendi barilotti austriaci a sconquassargli i fornelli: Marinetti dubitò allora per la prima volta della pastasciutta come vivanda di guerra. Per i bombardieri della Vertoibizza, come Marinetti, la vivanda comune era del cioccolato sporco di fango e talvolta una bistecca di cavallo cotta in un pentolino lavato con l'acqua di Colonia.
Paolo Monelli, nella difesa della pastasciutta la dichiara l'ideale vivanda dei combattenti. Ciò era forse vero per gli alpini che, fra tutti i