Avverto qui una volta per tutte che nella mia cucina non si fa questione di nomi e che io non do importanza ai titoli ampollosi. Se un inglese dicesse che questo piatto, il quale chiamasi anche con lo strano nome di piccion paio, non è cucinato secondo l'usanza della sua nazione, non me ne importa un fico; mi basta che sia giudicato buono, e tutti pari. Prendete:
Avverto qui una volta per tutte che nella mia cucina non si fa questione di nomi e che io non do importanza ai titoli ampollosi. Se un inglese
La gran questione dei Bianchi e dei Neri che fece seguito a quella dei Guelfi e dei Ghibellini e che desolò per tanto tempo l'Italia, minaccia di riaccendersi a proposito dei tartufi; ma consolatevi, lettori miei, che questa volta non ci sarà spargimento di sangue; i partigiani dei bianchi e dei neri, di cui ora si tratta, sono di natura molto più benevola di quei feroci d'allora.
La gran questione dei Bianchi e dei Neri che fece seguito a quella dei Guelfi e dei Ghibellini e che desolò per tanto tempo l'Italia, minaccia di
Io mi schiero dalla parte dei bianchi e dico e sostengo che il tartufo nero è il peggiore di tutti; gli altri non sono del mio avviso e sentenziano che il nero è più odoroso e il bianco è di sapore più delicato; ma non riflettono che i neri perdono presto l'odore. I bianchi di Piemonte, sono da tutti riconosciuti pregevoli, e i bianchi di Romagna, che nascono in terreno sabbioso, benchè sappiano d'aglio, hanno molto profumo. Comunque sia, lasciamo in sospeso la gran questione per dirvi come si preferisce di cucinarli a Bologna, Bologna la grassa per chi vi sta, ma non per chi vi passa.
, lasciamo in sospeso la gran questione per dirvi come si preferisce di cucinarli a Bologna, Bologna la grassa per chi vi sta, ma non per chi vi passa.
La cucina è estrosa, dicono i fiorentini, e sta bene perchè tutte le pietanze si possono condizionare in vari modi secondo l'estro di chi le manipola; ma modificandole a piacere non si deve però mai perder di vista il semplice, il delicato e il sapore gradevole, quindi tutta la questione sta nel buon gusto di chi le prepara. Io nell'eseguire questo piatto costoso ho cercato di attenermi ai precetti suddetti, lasciando la cura ad altri d'indicare un modo migliore. Ammesso che un cappone col solo busto, cioè vuoto, senza il collo e le zampe, ucciso il giorno innanzi, sia del peso di grammi 800 circa, lo riempirei nella maniera seguente:
; ma modificandole a piacere non si deve però mai perder di vista il semplice, il delicato e il sapore gradevole, quindi tutta la questione sta nel
La minestra di semolino fatta nella seguente maniera mi piace più dell'antecedente, ma è questione di gusto. Per ogni uovo: Semolino, grammi 30. Parmigiano grattato, grammi 20. Burro, grammi 20. Sale, una presa. Odore di noce moscata.
La minestra di semolino fatta nella seguente maniera mi piace più dell'antecedente, ma è questione di gusto. Per ogni uovo: Semolino, grammi 30
Lo si fabbricherà più o meno bene, questa è un'altra questione, ed anche Milano a seconda del prezzo lo si fa cattivo o buono, a incominciare da quello che i fornai donano agli avventori nel giorno natalizio, a quello che i pasticceri fabbricano per l'esportazione a L. 2 al chilogramma, per finire all'ottimo panettone già specialità assoluta del Biffi.
Lo si fabbricherà più o meno bene, questa è un'altra questione, ed anche Milano a seconda del prezzo lo si fa cattivo o buono, a incominciare da
E se noi non ne facciamo uso è pel semplice disgusto o ribrezzo, non essendo abituati a tal sorta d'alimenti. La principale questione è il sorpassarne le difficoltà come ben si vede che tali alimenti che noi ripudiamo formano la delizia d'altri.
E se noi non ne facciamo uso è pel semplice disgusto o ribrezzo, non essendo abituati a tal sorta d'alimenti. La principale questione è il
Zucchero in pezzi e zucchero in polvere. — La questione discussa più e più volte, e nella quale fu coinvolto in qualità di testimonio anche Napoleone I, è questa: «Lo zucchero in polvere è meno dolce dello zucchero a pezzi».
Zucchero in pezzi e zucchero in polvere. — La questione discussa più e più volte, e nella quale fu coinvolto in qualità di testimonio anche Napoleone
La cucina in sè stessa non presenta difficoltà reali, vere. Per farla bene ci vuole un po' di roba buona, un briciolino di giusto criterio e molta, oh, moltissima cura! Si sa; fare una cucina sana, gustosa e... a buon mercato, non è mica un pregio comune a tutte le donne e tanto meno a tutti gli uomini. Ma neppure è universale al sesso femminile la prerogativa di avvelenare il prossimo con le loro detestabili ratatouilles. Anzi, è più facile di riscontrare nella donna, che nell'uomo, la capacità di ammanire a perfezione quelle pietanze semplici e sane, che sole, o quasi, allietano la mensa di chi non è ricco. Vedete; è questione di amor proprio. "L'uomo cuoco poco o punto si cura dello stomaco e della borsa di chi lo paga per... mangiar bene; a lui, al cuoco, basta posare da artista; egli cerca un nome; vuole la gloria, l'alloro, anche a rischio di guastare il ventricolo altrui, predisponendolo alle gastriti croniche con i manicaretti succolenti preparati dalla sua scienza.
chi non è ricco. Vedete; è questione di amor proprio. "L'uomo cuoco poco o punto si cura dello stomaco e della borsa di chi lo paga per... mangiar
Setacciate la farina sulla tavola e disponetela a fontana, mettetevi nel centro il sale, l'acqua ed un pezzetto di burro; manipolate con la mano il burro e l'acqua; incorporate a poco a poco la farina, riconducendola verso il centro per evitare che l'acqua sfugga dalle parti. Quando la maggior parte d'acqua sarà assorbita, incorporate vivamente la farina col rimanente, per formare una pasta morbida e molle, adatta ad essere rotolata sulla tavola senza attaccarvisi; una volta riunita, non dovrà rimanere sulla tavola alcuna parte di pasta o di farina il che sarà l'indizio evidente della sua perfetta confezione. È impossibile precisare la quantità d'acqua che una data quantità di farina assorbirà perchè non tutte le farine sono identiche; è tutta questione di pratica, quando non foste sicure di voi vi converrà stemperare la farina bagnandola a poco a poco osservando che la pasta risulti morbida e ben liscia. Copritela con un tovagliolo e lasciatela riposare in luogo fresco per un quarto d'ora. Frattanto manipolate il burro dopo averlo distribuito in piccole parti spremendolo attraverso un pannolino e dandogli forma quadrata così da formarne un panetto dello spessore di tre centimetri, ravvolgetelo in un pannolino e tenetelo al fresco; nella stagione estiva converrà congelarlo sul ghiaccio da ambo le parti e manipolarlo ancora in un pannolino perchè al momento di impiegarlo deve avere la stessa consistenza della pasta. Dopo un quarto d'ora di riposo collocate la pasta sulla tavola infarinata, spianatela battendola con la mano (spessore un centimetro) dandole forma quadrata, su questa ponete il burro, ripiegate gli orli per farli congiungere sul centro, in modo di inviluppare completamente il burro; spolverizzate di farina la superficie della pasta. Col matterello stendetela in una lista rettangolare che insensibilmente ridurrete tre volte tanto lunga che larga; per ottenere ciò il matterello deve scorrervi sopra spingendo in avanti la pasta e distendendola, assieme al burro che racchiude, liscia e di eguale spessore, conservandole sempre la forma rettangolare e tenendo specialmente gli angoli ben diritti e regolari. Bisogna evitare che durante questa operazione il burro si separi dalla pasta. Quando la pasta sarà ridotta dello spessore di 7 od 8 millimetri piegatela in tre sulla sua lunghezza incominciando dalla parte più vicina e riconducendola fino a due terzi della lunghezza del rettangolo; riconducete poi l'estremità opposta della pasta sulla parte piegata in modo di coprirla esattamente; a questo punto dovrà formare un quadrato leggermente allungato, questo costituisce il primo giro. Eseguito ciò assicurate la pasta dandole un colpo di matterello, fategli fare un mezzo giro a destra per spianarla nel senso opposto a quello in cui fu piegata, ma sempre procedendo nello stesso modo, piegatela di nuovo in tre e lasciatela riposare in luogo fresco o sul ghiaccio per 10 o 12 minuti. Trascorso questo tempo spolverizzate la tavola di farina, date di nuovo due giri alla pasta, operando sempre col medesimo sistema; lasciatela riposare ancora e, io minuti dopo, datele gli ultimi due giri sempre con io stesso metodo. La sfogliata avrà allora 6 giri. In estate la sfogliata richiede speciali cure perchè la influenza del calore può nuocere all'operazione. Per evitare questo pericolo bisogna ricorrere all'uso del ghiaccio, ma occorrono nondimeno alcune precauzioni dovendosi anzitutto impedire il contatto del ghiaccio colla pasta, collocandola su un pannolino ripiegato e messo su uno staccio od un « plafond », il quale sarà posto sul ghiaccio.
tutta questione di pratica, quando non foste sicure di voi vi converrà stemperare la farina bagnandola a poco a poco osservando che la pasta risulti
Perchè, poi, vedete, molto, di quello che vi spaventa o vi turba, è questione di forma. In tutto il mondo i giovani parlano un linguaggio diverso, agiscono in modo diverso dai genitori. Da noi, in Italia, grazie a Dio, questo è molto meno sensibile che fuori di qui. I nostri figli sono di buona razza. E vedete che, oggi, essi accorrono a contrastare il passo al nemico con lo stesso entusiasmo, con lo stesso anelito di sacrificio, con cui i nostri padri correvano a combattere con Garibaldi, e i nostri mariti e i nostri fratelli davano il loro sangue nell'altra grande guerra.
Perchè, poi, vedete, molto, di quello che vi spaventa o vi turba, è questione di forma. In tutto il mondo i giovani parlano un linguaggio diverso
Le lievi differenze esistenti fra di loro sono più dipendenti, a parità digestiva, dal sesso e dall'età dell'animale ucciso, che dalla razza e dalla specie a cui esso appartiene: preferire quindi l'una o l'altra è questione di gusto o di tradizione e non certo di valore nutritivo.
specie a cui esso appartiene: preferire quindi l'una o l'altra è questione di gusto o di tradizione e non certo di valore nutritivo.
Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco spino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri. Non abbiamo note sul modo con cui gli antichi dessero la caccia al tartufo. Fu nel medio Evo e in Italia, che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina del secolo XVI nel suo libro De honesta Voluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato con stile poetico porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il Conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II Re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia 10 che costarono 100 talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano trüffel-hunde, e canes tuberario-venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure di fine odorato può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi e se non troverete il tubero troverete certamente... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria survolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca ed altre sue parenti prossime che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee, e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da Novembre a Marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. In Piemonte i più precoci maturano alla fine di Giugno e li chiamano fioroni, e viene quasi sempre a' piedi dei salici e dei pioppi in terreno argilloso, ma la raccolta incomincia in Agosto. In Francia ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitou. Il tartufo nero o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettata dal commercio. V'à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella. Cecilio Apicio il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De Re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o
Mettete un pochino d'olio in una casseruola insieme ad uno spicchio d'aglio schiacciato ed a una cucchiaiata di prezzemolo tagliuzzato grossolanamente. Fate soffriggere a gran fuoco, ma senza far prendere colore, poi gettate dentro le vongole ben lavate. Circa la quantità di vongole è questione di gusto e di mezzi; potrete metterne un kg. ed anche uno e mezzo. Fate soffriggere bene le vongole a fuoco forte, ed aggiungete due cucchiai di salsa di pomodoro fresco o in scatola, poco sale e pepe, ed allungate poi con un litro d'acqua. Dopo due minuti di bollore, scolate le vongole in una scolabrodo raccogliendone accuratamente il loro brodo, e togliendo a ciascuna di esse il frutto. Avrete preparato un bicchiere abbondante di salsa di pomodoro ed in essa porrete le vongole sbucciate, tenendole in caldo, ma senza però farle più bollire.
grossolanamente. Fate soffriggere a gran fuoco, ma senza far prendere colore, poi gettate dentro le vongole ben lavate. Circa la quantità di vongole è questione di
In Inghilterra, Germania, Svizzera e Francia i vegetariani proclamano, sia per principio di morale, o di religione, sia a scopo sanitario l'astinenza d'ogni sorta di carne. Invocano, in loro aiuto, la conformazione naturale dei denti e della mascella umana, e vogliono che l'uomo possa viver bene, anzi meglio e più lungamente, contentandosi puramente di quanto la Provvidenza fornisce nel regno vegetale. Abborro ogni disputa e lascio il mondo come l'ò trovato, tanto più, che l'esperienza mi convince, che ogni disputa non serve che a far perdere l'appetito, ci arrischia il regalo d'una malattia di fegato e poi ci lascia più cretini di prima. Nè, vo' soffermarmi un solo secondo alla questione dei denti e della mandibola umana. Se, da che mondo è mondo, si mangia carne e verdura, è segno che la Provvidenza ci à dato denti sì per l'una che per l'altra. Chi ama la carne non disprezzi il fratello che vuol nutrirsi di erba, e costui tolleri cristianamente che l'altro appaghi l'appetito col manzo e si divori delle costolette. La teoria e la pratica sono due sorelle che non si sono mai vedute e che forse, in questo mondaccio, sono destinate a non incontrarsi nè abbracciarsi mai. Peccato, perchè la prima è bella, affascinante, da far perder la testa, la seconda d'una bontà e d'una utilità impareggiabile! Ma lasciamola lì, che ognuno viva, dunque, a suo modo, in santa pace e che Domineddio ci benedica tutti!
di fegato e poi ci lascia più cretini di prima. Nè, vo' soffermarmi un solo secondo alla questione dei denti e della mandibola umana. Se, da che mondo
Il tartufo è un tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. Nel linguaggio delle piante: Tesoro. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma, concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon'ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui cammelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Questo squisito tubercolo compariva già fra le più prelibate ghiottonerie dei Faraoni. Le conquiste, le emigrazioni ed il commercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinarono la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris, che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, eh' egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un escremento della terra, vitium terrae. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gènègès, ossia figli della terra e degli Dei. Et faciunt lautas optata tonitrua coenas, cantava dei tartufi il Poeta d'Aquino. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di certe radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa, chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo duemila anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia, la notizia, e Micheli, pochi anni dopo, ne dava il disegno. Ammessi i semi, nacque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale fu sostenuta tra gli altri dal milanese Vittadini (Monographia tuberculorum, Milano, 1831). «Se volete dei tartufi, seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo del conte De Gasparin riassume l'esperienza di oltre sessantanni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre, fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers il fatto, allora paradossale, della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta a un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo, se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso, calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'llex, la Peduncolata, la Ruber (rovere). Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, il ginepro, la rosa, il pino silvestre, la pescia (Abies), per il pruno, il biancospino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico, vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione, come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri.
il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di
I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è
Nell'arte della cucina si chiamano chenelle delle piccole preparazioni fatte con farcia. Ottenuta la farcia, servendosi di un cucchiaino se ne prende una piccola quantità e si mette a rassodare nell'acqua bollente: qualche cosa di simile a quello che accade per i gnocchi; ed infatti questi piccoli gnocchi di carne appena rassodati vengono tolti dall'acqua con una cucchiaia bucata e servono a guarnire le pietanze. Notiamo qui incidentalmente che le chenelle possono anche farsi entro piccole stampe imburrate. Ma di ciò a suo tempo, non avendo voluto intanto che spiegare alle lettrici quel che s'intende con la parola chenella. E a questo proposito ci sia consentito di sfiorare una piccola questione linguistica.
'intende con la parola chenella. E a questo proposito ci sia consentito di sfiorare una piccola questione linguistica.
Questa ricetta tradizionale costituiva l'invariabile punto di partenza dei pranzi di Pasqua del bel tempo antico. La confezione è delle più facili. Si prepara, come di consueto, un brodo di manzo, aggiungendo nella pentola — ciò che è di rigore — un pezzo di petto o di spalla di agnello. Si rompono in una terrinetta dieci torli d'uovo, si diluiscono col sugo di un limone e si sbattono. Poco tempo prima di mandare la zuppa in tavola si mettono le uova sbattute in una casseruola grande e vi si versa pian piano il brodo bollente, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno. Questa operazione va fatta fuori del fuoco. Quando avrete versato nella casseruola la quantità di brodo occorrente per dieci porzioni, mettetela vicino al fuoco e senza smettere mai di mescolare fate addensare leggermente il brodo. Badate che il calore non sia eccessivo e il liquido non bolla, altrimenti l'uovo si straccia e invece del brodetto otterreste una «stracciatella» la quale, come sapete, è un'altra cosa. La ricetta tradizionale vuole si aggiunga al brodetto anche una pizzicata di foglioline di maggiorana fresca: è questione di gusti. Tagliate delle fettine di pane sottili, abbrustolitele sul fuoco e distribuitene tre o quattro per scodella. A parte fate servire del parmigiano grattato.
brodetto anche una pizzicata di foglioline di maggiorana fresca: è questione di gusti. Tagliate delle fettine di pane sottili, abbrustolitele sul fuoco
Alcune volte in una colazione o in un pranzo, pur riconoscendo la necessità di un primo piatto di pasta asciutta, si vorrebbe presentare ai nostri ospiti qualche cosa di nuovo e di fine. Il seguente millefoglie risolve la questione ed offre un piatto di pasta ricco e di bell'aspetto. Un altro vantaggio del millefoglie di pasta è quello che si può preparare qualche tempo prima del pasto, che anzi esso guadagna ad attendere un poco. Mentre si ottiene un risultato migliore, si evita quell'incomodo affannarsi all'ultimo momento per presentare il primo piatto al suo giusto punto di cottura. Per sei persone impastate sul tavolo di cucina sei uova intere con circa seicento grammi di farina. Dosi esatte per la farina non se ne possono dare dipendendo l'impasto dalla grandezza delle uova e dalla qualità della farina stessa. Ad ogni modo tenete la pasta molto dura e lavoratela energicamente. Dividete questa pasta in otto pezzi uguali e stendete ogni pezzo col matterello procurando di mantenere la pasta in forma rotonda e piuttosto spessa. Quando avrete stesa tutta la pasta, lasciatela asciugare un po' e intanto mettete sul fuoco una teglia molto grande con acqua e sale. Quando l'acqua bollirà prendete un disco alla volta e procedendo con garbo immergetelo nell'acqua in ebollizione. Fate cuocere per qualche minuto in modo da tenere la pasta piuttosto dura di cottura e poi, procedendo con cautela e aiutandovi con due larghe cucchiaie bucate, o meglio, con un largo coperchio di casseruola, prendete su il disco cotto e deponetelo aperto su una tovaglia bagnata. Cuocete uno alla volta tutti gli altri dischi. Avrete preparato un buon sugo di carne, con o senza pomodoro secondo i gusti, e questo sugo, che dovrà essere piuttosto abbondante, arricchirete di carne pesta, piccole polpettine, regaglie di pollo, funghi, animelle, tartufi ecc.: dipenderà naturalmente dalla ricchezza che vorrete dare alla vostra pietanza e conseguentemente dalla spesa che vorrete incontrare. Prendete adesso una teglia poco più grande dei dischi di pasta, ungetela di burro e cospargetene il fondo con un ramaiolo di sugo. Mettete giù il primo disco e su questo cospargete altro sugo con una parte del condimento preparato. Seminate su tutto del parmigiano grattato e continuate così alternando dischi di pasta e sugo, regaglie e parmigiano. Potrete mettere anche, se credete, qualche pezzettino di burro. Sull'ultimo disco versate tutto il condimento rimasto, mettete ancora qualche pezzetto di burro e del parmigiano, e finalmente passate il vostro millefoglie in forno leggerissimo o su della brace. Lasciate stufare così per circa un quarto d'ora, poi estraete la teglia dal forno, copritela con un largo coperchio, mettete su questo un po' di cenere calda e lasciate così fino al momento di mangiare. Allora dividete il millefoglie in sei parti, mettete ogni spicchio su un piatto e fate portare in tavola.
ospiti qualche cosa di nuovo e di fine. Il seguente millefoglie risolve la questione ed offre un piatto di pasta ricco e di bell'aspetto. Un altro
Queste tagliatelle, vanto della succolenta cucina bolognese, sono poco conosciute fuori della cerchia delle due torri. A differenza di tutte le abituali paste all'uovo che si confezionano in famiglia, codeste tagliatelle sono colorate in verde mediante una piccola aggiunta di spinaci passati al setaccio i quali, oltre all'assicurare alla pasta il caratteristico colore, le comunicano anche un sapore tutto particolare. Di spinaci non ne occorrono molti. Dopo aver lessato come al solito un mazzo di spinaci ne prenderete, per la pasta, una quantità come una piccola mela, li spremerete energicamente per liberarli il più possibile dall'acqua e li passerete a setaccio. Molti si accontentano di tritare gli spinaci lessi sul tagliere, ma in questo caso la pasta non risulta abbastanza fine. Mettete sulla tavola di cucina da trecento a quattrocento grammi di farina, fate la fontana, rompete nel mezzo tre uova, aggiungete gli spinaci passati, un pizzico di sale e impastate il tutto come per la solita pasta all'uovo. È difficile precisare dosi esatte per la farina perchè alcune qualità assorbono più ed altre meno. Regolatevi per il meglio, cercando di ottenere una pasta piuttosto dura e ben lavorata. Stendetela in una o due sfoglie non troppo sottili e mettete ad asciugare le sfoglie su una tovaglia leggermente infarinata. Siccome gli spinaci comunicano un po' di umidità alla pasta, ci vorrà un pochino più di tempo prima che questa asciughi in modo che si possa tagliare senza che si attacchi. Quando dunque vedrete che la pasta è bene asciutta, spolverizzatela di farina, arrotolatela su se stessa e ritagliatela in tante fettuccine di un mezzo centimetro abbondante. Aprite le tagliatelle, e raccoglietele in un vassoio con salvietta perchè finiscano di asciugare. Fatte le tagliatelle bisogna preparare il sugo alla bolognese, il quale, anche, è un po' diverso dal solito sugo di umido. Per la quantità di pasta da noi data e che può bastare a quattro o cinque persone, prendete 150 grammi di carne magra di manzo e tritatela sul tagliere, o meglio passatela alla macchinetta con 50 grammi di pancetta salata (ventresca). Mettete sul fuoco una casseruola con 50 grammi di burro, una cipolla, una carota gialla e una costola di sedano, il tutto minutamente tritato, aggiungete la carne col grasso di maiale, un chiodo di garofano, e fate rosolare finchè carne e legumi abbiano preso un colore piuttosto scuro. Bagnate allora con un po' di brodo o acqua, condite con un po' di sale, aggiungete un cucchiaino da caffè — non più — di conserva di pomodoro, mescolate, coprite la casseruola e fate cuocere pian piano su fuoco moderato. C'è una tradizione bolognese più raffinata che consiglia di bagnare l'intingolo con latte invece che con brodo o acqua. È questione di gusti... e di spesa. Certo è che l'aggiunta di latte comunica alla salsa una maggiore finezza. Quando l'intingolo avrà sobollito per una mezz'ora si potranno aggiungere qualche fegatino di pollo, qualche dadino di prosciutto, qualche fungo secco fatto rinvenire in acqua fredda e qualche fettina di tartufo bianco. Ma tutte queste aggiunte sono facoltative e se ne potrà fare benissimo a meno, ottenendo ugualmente un ottimo risultato. Ultimata anche la salsa, lessate le tagliatelle, scolatele e conditele con l'intingolo, aggiungendo ancora qualche pezzetto di burro e del parmigiano grattato. Potrete mangiarle subito, o meglio lasciarle stufare un pochino nella terrina, coperte e vicine al fuoco affinchè possano insaporirsi meglio. Potendo disporre di qualche cucchiaiata di crema di latte, si può unire alla salsa al momento di condire le tagliatelle. In questo caso non è necessaria l'aggiunta del burro. Ci sono infine altri che dopo aver fatto arrosolare legumi e carne, prima di bagnarli col brodo, l'acqua o il latte, aggiungono nella casseruola una cucchiaiata di farina che serve a legare di più l'intingolo. Queste, le tagliatelle verdi. Crediamo inutile soffermarci sulle comuni tagliatelle alla bolognese, poinon differiscono dalle precedenti che per essere fatte con pasta all' uovo senza spinaci, fermo restando tutto il resto.
consiglia di bagnare l'intingolo con latte invece che con brodo o acqua. È questione di gusti... e di spesa. Certo è che l'aggiunta di latte comunica alla
La pasta con le sarde è uno dei famosi piatti della cucina siciliana, ed è una preparazione caratteristica che non trova riscontri in nessun'altra cucina regionale. I siciliani sono orgogliosi di questa loro specialità, e non hanno torto, poichè un tegame di pasta con le sarde ben fatta è veramente una cosa squisita. Chi non è addentro nei segreti di questa pietanza, leggendone la ricetta può trovare che l'insieme di elementi così disparati possa condurre ad una dissonanza culinaria; ma è proprio il caso di ripetere che, come nei più acclamati poemi sinfonici moderni, queste apparenti dissonanze vengono a creare un insieme armonico di prim'ordine. La pasta con le sarde è una specie di mosaico in cui ogni pezzetto ha la sua ragion d'essere nel risultato finale. Errerebbe dunque chi volesse portarvi delle modificazioni personali per quel gusto di variare, semplificare, che molte persone hanno, senza aver prima esperimentato la ricetta vera. La pasta con le sarde, essendo diffusissima, ha nella stessa Sicilia parecchie ricette, le quali variano però soltanto in qualche accessorio; ed è logico che la ricetta preparata dai grandi cuochi siciliani, che, fin dall'antichità furono i più grandi cuochi del mondo, potrà essere un pochino più dispendiosa di quella eseguita nelle modeste case e nelle taverne, ma, ripetiamo, è questione di nuances.
grandi cuochi del mondo, potrà essere un pochino più dispendiosa di quella eseguita nelle modeste case e nelle taverne, ma, ripetiamo, è questione di
Si possono usare tutte le qualità di uccelli, da quelli detti di becco sottile fino ai tordi e ai beccaccini. Agli uccelli si spuntano le zampine e si tolgono gli occhi. I veri buongustai non li sventrano, che questa operazione suonerebbe come una vera e propria profanazione. È una questione tutta personale nella quale ognuno si regolerà come meglio crede. Nel bresciano e nel bergamasco si preparano anche tante fettine sottilissime di lombo di maiale per quanti sono gli uccelli, si arrotolano queste fettine racchiudendovi dentro una foglia di salvia, e si alternano allo spiede con gli uccelli. In altre regioni invece dei pezzi di maiale si mettono delle fettine di prosciutto, piuttosto abbondanti, alternandole con gli uccelli e con delle foglioline di salvia. Guarniti lo spiede o gli spiedi si fa un buon fuoco mettendo sotto gli uccelli la leccarda nella quale si sarà messo qualche fetta di lardo ritagliata in dadini, un pezzo di burro proporzionato al numero degli uccelli da arrostire e qualche foglia di salvia. Per quattro o cinque minuti si fa girare il girarrosto senza mettere alcun condimento sugli uccelli. Trascorsi questi 4 o 5 minuti, con un pennello o con un cucchiaio si incomincia a far cadere sugli uccelli il grasso della leccarda, che intanto si sarà sciolto, e si continua così ad ungere di quando in quando. Il tempo preciso di cottura dipende dalla vivacità del fuoco e anche dalla qualità degli uccelli, i quali dovranno risultare nè troppo cotti, nè troppo crudi e di un bel color d'oro all'esterno. A questo punto salate gli uccelli facendo piovere il sale dappertutto mentre lo spiede gira. Dopo la salatura lasciateli ancora pochi altri minuti, ma senza più ungerli, e avendo l'avvertenza di diminuire il fuoco. Intanto avrete preparato la polenta, in quantità proporzionata al numero delle persone e... dell'appetito. Anche la polenta necessita cure speciali dovendo risultare nè troppo dura, nè troppo molle. Riguardo alla polenta si usano diversi procedimenti riguardanti il modo di servirla. C'è infatti chi la riversa sull'asse di cucina spianandola all'altezza di un dito, la ricopre con un panno bagnato e dopo un po' la ritaglia in fette che vengono distribuite nei piatti. Su ogni fetta si fa un piccolo incavo col cucchiaio, ci si versa un poco di sugo della leccarda per terminare con gli uccellini, le cui zampette vengono infisse nella polenta. Altri invece — e questo ci sembra il sistema migliore anche perchè più sbrigativo e più elegante — nei riguardi della presentazione in tavola, usano il seguente sistema. Quando la polenta sarà arrivata a perfetta cottura, si prende una stampa da bordura ampia e non troppo frastagliata, si imburra abbondantemente e vi si versa dentro la polenta. Si batte la stampa affinchè non restino vuoti e poi si tiene la stampa a bagno maria, in caldo, fino al momento di andare in tavola. Giunta loia di servire si sforma la bordura nel mezzo del piatto, si contorna con gli uccellini e sulla polenta e nel vuoto della bordura si versa il sugo della leccarda. Questo è il procedimento esatto e caratteristico dello «spiede». Ed infatti in Alta Italia dalle cucine più povere a quelle più ricche è lo spiede che trionfa per questa preparazione. Da alcuni si usa talvolta cuocere gli uccellini anche in padella accompagnandoli ugualmente con la polenta e relativo sugo di cottura, ma il procedimento tradizionale è quello da noi ampiamente descritto.
si tolgono gli occhi. I veri buongustai non li sventrano, che questa operazione suonerebbe come una vera e propria profanazione. È una questione tutta
Nonostante i pareri discordi, il brodo è un alimento di cui molti non sanno privarsi. Ma c'è una grave questione: quella del bollito. Passi per il brodo, ma rimane poi quell'ingombrante pezzo di manzo lesso che raccoglie, sia pure ingiustamente, un suffragio cordialissimo di antipatie. Vi insegneremo un nuovo modo di utilizzarlo, il quale, oltre ad essere assai sbrigativo, vi permetterà di presentare una pietanzina che ha anche essa una certa sua particolare eleganza. Questa ricetta sarà specialmente utilizzabile nelle famiglie un po' numerose, in cui, dovendo fare il brodo, si usa una notevole quantità di carne. Mettete in una casseruola un paio di cipolle affettate sottilmente, con un dito d'olio e fate soffriggere adagio adagio, fino a che le cipolle siano leggermente imbiondite. Aggiungete allora un paio di bicchieri di aceto, un cucchiaino di zucchero, due spicchi d'aglio, una foglia di alloro, un ciuffo di prezzemolo tritato, un pizzico di rosmarino, una foglia o due di salvia, un po' di pepe e lasciate bollire pian piano sull'angolo del fornello, fino a che l'aceto sia quasi completamente evaporato. Bagnate allora con un bicchiere di vino bianco e due bicchieri di brodo o acqua. Affettate il manzo bollito in fette regolari, accomodatele in una terrinetta e versateci sopra la marinata calda con tutti gli aromi. Mettete la terrina in un luogo fresco e lasciate ogni cosa fino al giorno dopo. Il giorno dopo estraete le fette dal bagno, liberandole dagli aromi, e disponetele una sull'altra su un piatto lungo. Intorno intorno mettete dei piccoli monticelli di cetriolini in aceto affettati, olive conciate, peperoncini sotto aceto tagliati in listerelle, funghi sott'olio, carciofini e patate condite in fettine. Alternate con buon gusto i varii monticelli, dividendoli con dei ciuffetti di prezzemolo trito, e per ultimo fate sgocciolare su tutto un leggerissimo filo d'olio.
Nonostante i pareri discordi, il brodo è un alimento di cui molti non sanno privarsi. Ma c'è una grave questione: quella del bollito. Passi per il
Qual'è il miglior taglio per l'arrosto ? quale il miglior sistema per confezionarlo ? Il miglior taglio di porco per l'arrosto è, senza dubbio, la lombata, la quale ha, sul prosciutto il pregio indiscutibile di una maggior finezza. In quanto al modo migliore per eseguire questo arrosto è questione di gusti. Ma, secondo noi, si devono bandire dalla carne ogni sorta di aromi e preparare la lombata disossandola. L'arista, è senza dubbio gustosa, ma certo l'aggiunta degli aromi come il rosmarino, l'aglio ecc. non sono fatti per conferire finezza all'arrosto. Quella di maiale è una carne così saporita, che non ha bisogno di nessun artifizio di condimenti. Disossate dunque un pezzo di lombata — per sei persone ne occorreranno circa 600 grammi — facendo passare il coltello accanto accanto alle ossa. Queste ossa rimaste, essendo ancora utilizzabili, perchè non completamente spolpate, potranno essere ottime per preparare minestroni. Legate la carne con dello spago affinchè cuocendo non si deformi, mettetela in una piccola teglia, dove vada esattamente, con un po' di strutto, sale e pepe, e cuocetela nel forno per circa un'ora. Da mangiarsi preferibilmente calda, ma buonissima anche fredda. In quanto ai contorni possono essere: una purè di patate, una purè di castagne o meglio ancora una purè di mele.
lombata, la quale ha, sul prosciutto il pregio indiscutibile di una maggior finezza. In quanto al modo migliore per eseguire questo arrosto è questione
Nella galantina, come in tutte le vivande molto lavorate, entra un coefficiente non trascurabile: quello che potrebbe definirsi la questione della fede. Infatti, in gran parte delle galantine che si vendono sotto il titolo pomposo di galantine di pollo, il pollo — povera bestia calunniata — entra soltanto nominalmente. Eseguendo la galantina in casa, non solamente sarete sicuri di quello che mangerete, ma spenderete la metà di quello che dovreste spendere dal salsamentario o al restaurant, col vantaggio di avere un prodotto sceltissimo e di gusto infinitamente superiore. Praticamente la galantina consta di tre elementi principali: il mosaico, ossia quell'insieme di dadi di petto di pollo, tartufi, prosciutto, lingua, ecc., che danno alla galantina il suo caratteristico aspetto; il pesto o, come si dice in linguaggio di cucina, la farcia, che serve a cementare i vari pezzi del mosaico, e finalmente la pelle del pollo, che racchiude tutta la preparazione. Prendete un pollo o una gallina non troppo vecchia, badando che non abbia lacerazioni sulla pelle, fiammeggiatela per liberarla dalla peluria e poi collocatela sul tagliere col petto in giù. Tagliate il collo a due dita dalla attaccatura e spuntate le ali e le zampe. Poi con un coltellino a punta fate una lunga incisione sul mezzo del dorso, dal collo fino alla estremità opposta. Sollevate la pelle e aiutandovi con le dita e col coltellino, staccatela pian piano dalla cassa, prima da un lato e poi dall'altro. Arrivate che sarete alle ali rovesciate la pelle e cercate di farla uscire nè più nè meno si trattasse di un corpetto a maglia, e ugualmente fate per le cosce. Per far ciò facilmente, aiutatevi col coltellino, staccando man mano i piccoli nervi che trattengono la pelle. Continuate il vostro lavoro fino a che avrete tolto per intero la pelle. Prendete allora una terrinetta, arrotolate la pelle e mettetela dentro, bagnandola con un bicchierino di marsala e in questa terrinetta col marsala metterete anche i seguenti ingredienti che comporranno il mosaico interno della galantina: 1° Tutto il petto del pollo, staccato dalla cassa e tagliato in dadi. 2° Un ettogrammo di prosciutto — solo magro — tagliato in una sola fetta spessa e ritagliato in dadi. 3° Un ettogrammo di lingua allo scarlatto, anche tagliata in dadi; 4° Un pizzico di pistacchi, che terrete in bagno in un po' d'acqua tiepida, sbuccerete e lascerete interi. 5° Due o tre tartufi neri di buona qualità. Se adopererete tartufi in scatola basterà tagliarli in pezzi secondo la loro grossezza. Se invece adopererete tartufi freschi, dovrete prima spazzolarli accuratamente con un spazzolino e dell'acqua tiepida per poterli liberare bene dalla terra e poi toglier via anche qualche po' di corteccia dove la terra non si fosse potuta snidare perfettamente. 6° Un ettogrammo di lardo imbianchito. Per imbianchire il lardo farete così. Ne prenderete una fetta spessa del peso di un ettogrammo e la metterete sull'angolo del fornello in acqua bollente per una ventina di minuti. Trascorso questo tempo, l'estrarrete, la passerete in acqua fresca, l'asciugherete e la taglierete in dadi come il prosciutto e la lingua. Il lardo così preparato perde il suo sapore grasso e fa inoltre migliore effetto nel mosaico. Preparata tutta questa roba, conditela con pochissimo sale, un pizzico di pepe e un nonnulla di noce moscata e poi mescolate ogni cosa affinchè tutti gli ingredienti possano essere bagnati dal marsala. Coprite la terrinetta e lasciatela da parte. Ottenuto così il mosaico, passiamo alla confezione della farcia, ossia, come abbiamo già detto, al pesto che deve riunire i vari pezzi del mosaico. Prendete 400 grammi di vitello magro e tritatelo minutamente sul tagliere insieme con 400 grammi di lardo di buona qualità, e sopratutto non rancido. A questo pesto unirete tutta la carne rimasta attaccata al pollo e che staccherete accuratamente, privandola dei nervi e dei tendini, che abbondano specialmente nelle cosce. Pestate il più fino possibile e impastate col coltello in modo che carne e lardo non formino che un tutto unico, perfettamente amalgamato. Per maggiore economia od opportunità, potrete mettere nel trito metà carne di vitello e metà carne magra di maiale. Ma in questo caso, essendo la carne di maiale un poco più grassa, converrà fare quattro parti di carne mista e tre parti di lardo: ossia, nel nostro caso, duecento grammi di vitello, duecento di maiale e trecento di lardo. La farcia ben tritata sul tagliere può essere sufficientemente adatta per la galantina. Chi però volesse eseguire la preparazione a perfetta regola d'arte, dovrebbe dopo il tritamento sul tagliere, prendere un po' di farcia alla volta, pestarla in un mortaio di pietra, e dopo averla tutta pestata, passarla dal setaccio. È un supplemento di lavoro non assolutamente necessario in una cucina di famiglia, ma che permette di ottenere una lavorazione finissima e perfetta. Ultimata anche la farcia, estraete dalla terrinetta la pelle del pollo e tenetela da parte. Mettete allora nella terrinetta la farcia e impastando con le mani fate che i dadi di petto di pollo, lingua, prosciutto, ecc., vadano a distribuirsi nella carne trita. Non vi preoccupate del marsala rimasto nella terrinetta, perchè verrà assorbito nell'impasto. Svolgete sul tavolo la pelle del pollo, allargatela e su essa ponete l'impasto, al quale cercherete di dare una forma leggermente allungata come un polpettone. Tirate su i lembi della pelle, racchiudete l'impasto, e poi con un ago e del filo cucite intorno intorno la pelle sempre cercando di dare alla galantina una forma corretta. Se qualche pezzetto di pelle si fosse lacerata riprendetela con un punto. Per ultimo date coll'ago cinque o sei punzecchiature alla pelle, qua e là. Prendete adesso un tovagliolo e avvolgete in esso la galantina. Attorcigliate le due estremità del tovagliolo, come se doveste incartare una grossa caramella, e nei due punti di torsione fate due legature con lo spago, una di qua e una di là. Finalmente, fate un altro paio di legature nel mezzo della galantina. La parte più difficile del lavoro è fatta.
Nella galantina, come in tutte le vivande molto lavorate, entra un coefficiente non trascurabile: quello che potrebbe definirsi la questione della
Deponete la galantina così preparata in una casseruola ovale, ricopritela di acqua e poi aggiungete nel recipiente una cipolla, con un chiodo di garofano, una carota gialla, un mazzolino di prezzemolo, tutti i cascami del pollo: testa, collo, zampe e pezzi di carcassa, nonchè un paio di piedi di vitello ben nettati e spaccati in due, i quali ultimi vi serviranno per la gelatina. Mettete la casseruola sul fuoco e schiumate il brodo man mano che ce ne sarà bisogno. Appena il liquido avrà levato il bollore, mettete il recipiente sull'angolo del fornello, salate moderatamente il brodo e lasciate bollire insensibilmente la galantina per un'ora e mezzo. La salatura del brodo è importante perchè, se sarà troppo salato anche la galantina riuscirà salata e viceversa riuscirà insipida se il liquido non avrà quel grado di salatura necessario. Ad ogni modo, è meglio metterne poco in principio e correggere poi man mano, tenendo presente che nella galantina ci sono già il prosciutto e il lardo salati di per sè. Nè meno importante è la questione dell'ebollizione, perchè se essa avverrà troppo tumultuosamente la pelle della galantina con tutta probabilità si romperà, compromettendo la buona riuscita dell'operazione.
correggere poi man mano, tenendo presente che nella galantina ci sono già il prosciutto e il lardo salati di per sè. Nè meno importante è la questione
Su questi carciofi c'è tutta una leggenda di difficoltà, assolutamente immaginarie, poichè non c' è forse una preparazione più semplice. Uno solo è il punto su cui si basa la riuscita: la quantità d'olio necessaria per friggere. Chi ha paura di mettere olio nella padella rinunzi a fare i carciofi «alla giudìa» in casa, e si accontenti di andarli a mangiare in uno dei tanti locali romani che la moda ha consacrato. I carciofi vengono mondati, leggermente battuti sulla tavola per allargarne un po' le foglie, spolverizzati di sale nell'interno, e messi in padella, col torsolo in alto, in modo che l'olio li ricopra quasi interamente. Man mano che cuociono si schiacciano leggermente, e se ce n'è bisogno, si voltano. Debbono diventare color d'oro scuro, e ben croccanti all'esterno. Come vedete, una cosa di una semplicità primordiale. Del resto la questione dell'olio è in gran parte apparente. Adoperando infatti una discreta quantità d'olio, questo non si brucierà come accade quando ce n'è troppo poco ma vi servirà per molte volte, permettendovi, a rigor di logica, di realizzare anzi una piccola economia.
scuro, e ben croccanti all'esterno. Come vedete, una cosa di una semplicità primordiale. Del resto la questione dell'olio è in gran parte apparente
La melanzana è originaria dell'India, e si è naturalizzata felicemente, da tempo remotissimo, nei nostri orti occidentali. La melanzana, non ha avuto mai un consenso unanime di simpatie: portata alle stelle da alcuni, sprezzata da altri; consumata copiosamente in alcune provincie, rifiutata o adoperata con grande parsimonia e diffidenza in altri mercati. Nell'Italia meridionale, nella Sicilia, se n'è sempre fatto un consumo grandissimo in confronto delle altre provincie; a Roma, per esempio, fino a poco tempo fa veniva scarsamente usata ed anche ora alcuni buoni romani conservano per la melanzana la tradizionale ed ingiustificata avversione. Intorno alla melanzana c'è una grande leggenda da sfatare: quella delle difficoltà per la sua preparazione. Secondo alcuni autori di cucina per preparare un piatto di melanzane c'è da fare tale una fatica e da superare un tale complesso di complicazioni che ne passa la voglia. Gli autori culinari consigliano di mettere le melanzane sotto sale per qualche ora, poi di risciacquarle, asciugarle, ecc., ecc. Tutte fatiche inutili e tutto tempo sprecato. La salatura delle melanzane è uno dei tanti procedimeni della cucina empirica, che le nostre lettrici debbono assolutamente abbandonare. Uno solo è il punto importante: scegliere delle melanzane di buona qualità: preferibilmente le napolitane. Risolta questa principale questione, non vi sono altre difficoltà: tagliate le melanzane e cucinatele subito, senza timore che vi riescano di sapore acre o amarognolo. Noi crediamo anzi che una delle ragioni del cattivo gusto che prendono talvolta le melanzane sia dovuto appunto alla salatura.
. Risolta questa principale questione, non vi sono altre difficoltà: tagliate le melanzane e cucinatele subito, senza timore che vi riescano di sapore
Le gelatine al liquore rappresentano un dolce della cucina classica; e ancora adesso, in occasione di qualche grande buffet, è frequente il caso di vedere far bella mostra di sè codesti dolci, nei più svariati colori. Diremo subito che l'oblìo in cui queste gelatine sono un po' cadute è affatto ingiustificato, in quanto che alla loro preparazione non concorrono difficoltà di procedimenti, nè spesa eccessiva, mentre il risultato è attraentissimo alla vista e molto accetto al palato. Si tratta di fare una gelatina dolce, ben chiarificata, alla quale si aggiunge un profumo a piacere o un liquore. Si potranno dunque confezionare gelatine al limone o all'arancio, o alla vainiglia, oppure alla chartreuse, all'alckermes al rhum o, come più comunemente si fa, al maraschino. Scegliamo dunque un liquore a piacere, ad esempio del rhum, e vediamo quale è il procedimento per la confezione del dolce. Basandosi sul procedimento che descriveremo, le nostre lettrici potranno poi a loro piacere variare il liquore o l'essenza, e quindi anche il colore della gelatina. Premettiamo che le gelatine dolci vanno confezionate in stampe col buco in mezzo e piuttosto lavorate, ciò che le rende assai eleganti. Le dosi di base sono queste: acqua litri uno; zucchero grammi 400; 50 grammi di gelatina «marca oro»; 3 bianchi d'uovo; 4 bicchierini di liquore. Le dosi di base che noi abbiamo dato sono sufficienti per fare una grandissima gelatina dolce. Se vorrete fare una gelatina più piccina, sufficiente a sei persone, ridurrete le dosi nel modo seguente: Due bicchieri d'acqua; 5 cucchiaiate e mezzo di zucchero; 17 grammi di gelatina; un bianco d'uovo; un bicchierino e mezzo di liquore. Come vedete si tratta della formula base ridotta su per giù ad un terzo. Mettete i fogli di gelatina in bagno in una casseruola con acqua fredda e lasciate così almeno per un quarto d'ora. A parte, in una terrinetta, mettete lo zucchero con i due bicchieri d'acqua tiepida e lasciate che lo zucchero si sciolga bene. Prendete adesso una casseruola piuttosto grande, ben netta, e in questa mettete la chiara d'uovo che sbatterete un poco con la frusta di fil di ferro affinchè rimanga ben sciolta e spumosa, ma non montata in neve. Versate allora a cucchiaiate sulla chiara l'acqua zuccherata, continuando sempre a sbattere per unire bene il composto. Quando avrete versato tutto lo sciroppo di zucchero prendete la gelatina che era nell'acqua fredda e che intanto si sarà ben rammollita, strizzatela un po' tra le mani e aggiungetela nella casseruola. Mettete tutto su fuoco moderato e, sempre sbattendo con la frusta, portate il liquido all'ebollizione. Appena questa si sarà verificata tirate la casseruola sull'angolo del fornello, quasi fuori del fuoco, coprite il recipiente, mettendo qualche pezzettino di brace sul coperchio e lasciate riposare la gelatina per una ventina di minuti. La chiara d'uovo portata all'ebollizione, si sarà coagulata assorbendo tutte le impurità del liquido, che apparirà negli interstizi limpidissimo. Mentre la gelatina riposa vicino al fuoco, prendete una seggiola di cucina, appoggiatela capovolta sul tavolo, e sulle quattro zampe distendete una salvietta che assicurerete con quattro legature di spago, una per ogni zampa della seggiola. Questo sistema di improvvisare un filtro, per quanto possa sembrare strano a chi non lo conosce è il più comodo e il più sicuro, e viene praticato da tempo immemorabile in ogni cucina. Preparata così la salvietta, mettete sotto ad essa una insalatiera grande, versate sulla salvietta la gelatina e lasciate che filtri. Otterrete così un liquido limpidissimo. Se non vi sembrasse tale ripetete l'operazione del filtramento un paio di volte. Quando avrete raccolta tutta la gelatina filtrata, lasciatela freddare un pochino, uniteci il rhum o il maraschino, mescolate con un cucchiaio, e poi versate nella stampa, la quale non va unta, ma adoperata asciutta. Quando la gelatina sarà fredda mettetela con la stampa in una catinella e circondatela di ghiaccio lasciandola così per due o tre ore. Al momento di mandare in tavola estraete la stampa dal ghiaccio ed immergetela per due o tre secondi in una casseruola grande contenente acqua calda, ritirate subito la stampa, asciugatela alla svelta e poi capovolgete la gelatina su un piatto, preferibilmente di cristallo. S'immerge la stampa nell'acqua calda per liquefare un piccolissimo strato di gelatina e sformare il dolce con facilità. Regolatevi dunque che la permanenza nell'acqua calda sia per il tempo strettamente necessario, altrimenti correreste il rischio di liquefare tutto e di ricominciare l'operazione da capo. La gelatina al maraschino è bianca limpida. Se invece adoperate del rhum l'avrete bruna, e se il liquore scelto sarà invece l'alckermes otterrete una gelatina rossa di bellissimo effetto. Potrete anche fare una gelatina a due colori, dividendo a metà la gelatina appena filtrata e profumandone una parte col maraschino e una parte con alckermes. Metterete allora nella stampa prima la gelatina bianca col maraschino, farete congelare in ghiaccio e soltanto allora aggiungerete l'altra gelatina rossa, fredda ma non ghiacciata. Batterete leggermente la stampa affinchè la seconda gelatina non lasci spazi vuoti, e poi rimetterete tutto in ghiaccio fino a completo congelamento. Sono piccoli lavori supplementari che costano poca fatica e che danno un risultato più grazioso. È questione di un po' di pazienza e di un po' di diligenza. Se vorrete invece fare una gelatina al limone o all'arancio, unirete fin dal primo momento allo zucchero, gelatina e bianco d'uovo, anche il sugo di quattro limoni (quattro [immagine e didascalia: Coltellino speciale per togliere sottilmente la buccia dagli aranci e dai limoni] limoni bastano per la dose grande di un litro d'acqua). Se sarà invece all'arancio mettere il sugo di tre aranci e quello di un limone. Insieme col sugo metterete a bollire anche le cortecce dei frutti tagliate finemente con un coltellino, in modo da non lasciare nessuna traccia della parte bianca della corteccia. Come sapete la corteccia dell'arancio e del limone contengono un olio essenziale, che è quello che comunica il maggior profumo. Per toglier via sottilmente le cortecce c'è uno speciale coltellino comodissimo, col quale si lavora assai speditamente e bene.
grazioso. È questione di un po' di pazienza e di un po' di diligenza. Se vorrete invece fare una gelatina al limone o all'arancio, unirete fin dal
La questione dei funghi commestibili e dei funghi velenosi è quella che più deve preoccupare chi è a capo di una famiglia, poichè l'esperienza insegna quanto sia difficile poter giudicare se un fungo è o non è velenoso. Gli avvelenamenti con funghi non sono purtroppo infrequenti e la storia ci dice che anche personaggi illustri trovarono la fine cibandosi di funghi. Nelle grandi città si procede ad una verifica che può dare sufficienti elementi di garanzia; ma il pericolo maggiore è nei piccoli centri e nelle campagne dove i funghi vengono venduti senza controllo, quando non sono addirittura raccolti per uso proprio. In genere vengono cucinate una cinquantina di specie di funghi, tra le quali ve ne sono circa venti velenose, difficilissime a conoscersi dalle commestibili, presentando lo stesso aspetto e gli stessi caratteri. Si dice, ad esempio, della infallibile sicurezza dell'ovolo vero (amanita caesarea) e del cocco od ovolo bianco, ma anche in questa famiglia c'è l'ovolo falso o malefico e il cocco bastardo, ambedue velenosi. Nel gruppo degli agarici sono anche funghi commestibili e velenosi, come, ad esempio, il prataiolo, l'agarico grigiastro, ecc., facilmente confondibili con la rossola velenosa, il fungo peperone, l'agarico dissenterico, ecc. Nè maggiore sicurezza offre il fungo porcino, potendo essere facilmente confuso col porcino malefico. È risaputo che le prove empiriche dell'aglio, della cipolla o quelle del cucchiaio d'argento o della lama di coltello sono assolutamente da escludersi. Meglio attenersi in genere ai seguenti consigli, per i quali sono da schivarsi: Quei funghi che quantunque abbiano, come il prataiolo, il cappello bianco ed emisferico hanno la base del gambo bulbosa. — Quelli che con gambo grande e gibboso o squamoso, sostengono un cappello cosparso di verruche, oppure hanno la pelle coperta di pustole. — Quelli che infranti o screpolati fra le dita emanano un odore narcotico disgustoso. — Quelli che esalano un odore d'aglio, o che hanno sapore bruciante. — Tutti quei funghi che hanno il cappello tinto di rosso, azzurro o verde. — Quelli che spezzati o tagliati con un coltello assumono, al contatto dell'aria colorazioni diverse. — Quelli che tagliati si trovano pieni di succo lattiginoso. — Quelli che hanno la carne cordacea o sugherosa. — Quelli che non sono in nessun modo toccati dagli insetti, e, finalmente, quelli che si ritrovano su tronchi di albero dotati di proprietà deleterie. Ad ogni modo, e per concludere, bisogna usare solo di quei funghi che in ciascun paese l'esperienza secolare ha dimostrato essere veramente commestibili. In caso di sintomi di avvelenamento per funghi ricorrere immediatamente in attesa del medico a un vomitivo (acqua calda saponata) e subito dopo somministrare un energico purgante di olio di ricino. Evitare qualsiasi bevanda acida, o acque purgative in cui entri il sal di cucina.
La questione dei funghi commestibili e dei funghi velenosi è quella che più deve preoccupare chi è a capo di una famiglia, poichè l'esperienza
È inutile qui riaprire il dibattito se siano da preferirsi le piccole fragole di bosco o le grosse fragole di giardino. Squisite le une, squisite le altre. La preferenza per l'una o l'altra qualità, è una questione tutta personale, e voi sapete benissimo che «de gustibus», con quel che segue. Le fragole vanno accuratamente scelte e lavate per liberarle dalla terra. Il lavaggio si può fare all'acqua o al vino. Come si condiscono le fragole? Noi crediamo che tutti i condimenti siano stati escogitati per la fragola: essa è talmente buona che onora tutte le salse d'accompagno. Accenneremo le più usate. Generalmente le fragole si condiscono con vino, rosso o bianco e zucchero. Anche eccellenti sono con marsala e zucchero. Si possano poi condire col cognac, col maraschino, col curaçao e, in genere, con tutti i liquori, aggiungendo o no dello zucchero; allo stesso modo che si può adoperare dello champagne. Le fragole sono buone anche condite con un po' di latte e zucchero, e, meglio ancora, con panna montata e inzuccherata. Ma ciò che a noi sembra migliore, specie se trattasi di piccole fragole di bosco, è il sugo di limone. Dopo aver scelto e lavato le fragole, si condiscono con sugo di limone — più o meno, secondo la quantità delle fragole e zucchero in polvere. È bene condirle un paio d'ora prima del pranzo per poterle tenere in ghiaccio fino al momento di mangiarle. Del resto qualunque sia il genere di condimento adoperato, sarà bene tenere le fragole, dopo averle condite, un paio d'ore sul ghiaccio per poterle presentare in tavola freddissime, ciò che le rende più gradite. [immagine: particolare decorativo]
altre. La preferenza per l'una o l'altra qualità, è una questione tutta personale, e voi sapete benissimo che «de gustibus», con quel che segue. Le
Lasciando intatta l'intricata questione sulle alterazioni del formaggio, ancora molto oscura e meritevole di studio, mi contenterò di accennare le principali fra quelle, capaci di guastarne il sapore, l'aroma, la consistenza, o di renderlo meno buono, meno sano, o addirittura cattivo e dannoso. S'intende che mi occuperò solo di quelle alterazioni, di cui possono esser suscettibili i formaggi grassi o semi-grassi, solidi, cotti, salati e stagionati, segnalati di sopra come più atti ad essere usufruiti nell'alimentazione del soldato.
Lasciando intatta l'intricata questione sulle alterazioni del formaggio, ancora molto oscura e meritevole di studio, mi contenterò di accennare le
L'olio d'oliva, come gli altri olii grassi vegetali, si compone quasi esclusivamente di due gliceridi: oleina e margarina o palmitina, dei quali il secondo è tanto in minor quantità, quanto più l'olio è fluido e di qualità superiore; materie coloranti ed aromatiche, nonchè una piccolissima quantità di sostanza azotata completano la costituzione dell'olio in questione.
di sostanza azotata completano la costituzione dell'olio in questione.
3° Allo stesso scopo che sopra può essere adoprato anche l'acido cloridrico. Per riconoscere nell'aceto una tale falsificazione, occorre aver presente che l'aceto puro di vino non precipita, o s'intorbida appena, con una soluzione di nitrato d'argento, mentre precipiterà abbondantemente qualora sia adulterato con l'acido in questione.
Onde non esser tratti in inganno e non correre il pericolo di somministrare alla truppa un liquore troppo più inferiore di quello realmente richiesto, occorre saper distinguere i due liquori in questione.
, occorre saper distinguere i due liquori in questione.
§ 88. — Importanza e divisione del soggetto. La questione dell'acqua potabile, vitale sempre nelle varie contingenze della umana società, acquista importanza veramente eccezionale per l'esercito. Nelle caserme, negli accantonamenti, nei campi, negli ospedali, s'impone sempre sovrana a chi governa le truppe ed a chi è chiamato ad assisterle col consiglio dell'igiene, e guai se per poco' venisse trascurata e posta in dimenticanza ! L'invadere in mezzo a quelle della tifoidea, del tifo, della dissenteria e di altre temute infezioni non tarderebbe a rilevare l'imperdonabile negligenza. Di qui la necessità che certe cognizioni sull'acqua potabile sieno il più possibilmente diffuse nella famiglia militare e fra coloro in specie che hanno in mezzo ad essa la missione di curarne ad ogni costo la salute. Spender dunque parole per giustificare l'opportunità di questa parte in un libro come questo, sarebbe veramente superfluo e me ne passo, entrando senz'altro in materia.
§ 88. — Importanza e divisione del soggetto. La questione dell'acqua potabile, vitale sempre nelle varie contingenze della umana società, acquista
A tale scopo, l'anno scorso, mi presentava al signor professor Giusti, direttore tecnico della Manifattura Giriori, per vedere se ci fosse stato modo di tradurre in atto una prima mia idea in proposito: ottenere cioè di un sol pezzo di porcellana il filtro in questione, coll'includere stabilmente un cilindro filtrante di biscuit, entro un involucro di porcellana verniciata, capace di mantenere attorno al cilindro stesso l'acqua da filtrare sotto una certa pressione. Il prof. Giusti, accolta cortesemente la mia proposta, incoraggiato anche dal direttore generale della Manifattura, comm. Lorenzini, si metteva al lavoro, ma dopo ripetute prove condotte con lodevole perseveranza, veniva nella conclusione che la mia proposta era praticamente inattuabile, attese insuperabili difficoltà tecniche che si incontravano nella costruzione di un filtro così ideato tutto d'un pezzo.
di tradurre in atto una prima mia idea in proposito: ottenere cioè di un sol pezzo di porcellana il filtro in questione, coll'includere stabilmente
Le due parti della fig. 56 rappresentano il filtro in questione: la prima in prospetto, la seconda in sezione verticale. L'ampolla filtrante a, in biscotto di porcellana, a pareti assai spesse e resistenti, ma finissimamente porose, è di forma cilindrica, della lunghezza di 20, e del diametro esterno di 8 1/2 centimetri. Chiusa perfettamente allo estremo inferiore, è munita invece di un foro alla estremità superiore, che si continua con un corto collo per il quale l'ampolla stessa può esser messa in comunicazione, mediante il forte manicotto b, di caoutchouh, con la canna a rubinetto c, dalla quale proviene l'acqua da filtrare.
Le due parti della fig. 56 rappresentano il filtro in questione: la prima in prospetto, la seconda in sezione verticale. L'ampolla filtrante a, in
A) Tagliate in fette tre o quattro cipolle e fatele rosolare nel burro o nel lardo. Aggiungete allora una cucchiaiata di farina e, prima che colorisca, spegnetela con un buon bicchiere di brodo bollente o di acqua in cui avrete sciolto un cucchiaino di estratto di carne, Liebig o altro. Aggiungete anche mezzo bicchiere di vino bianco e lasciate cuocere, coperto e adagio, circa tre quarti d'ora. Condite con sale, pepe, prezzemolo trito e l'odore della noce moscata se vi piace. Quando la cipolla è cotta, anzi ridotta in pappa e l'intinto si restringe, buttate giù il lesso tagliato in fette sottili, lasciatelo bollire un quarto d'ora e servitelo nella sua salsa digrassata. C'è chi aggiunge senapa e chi aggiunge salsa di pomidoro. È questione di gusti. C'è chi non gradisce il vino, ma in questo caso occorre qualche goccia d'aceto.
sottili, lasciatelo bollire un quarto d'ora e servitelo nella sua salsa digrassata. C'è chi aggiunge senapa e chi aggiunge salsa di pomidoro. È questione
«È questione di gusti e del prezzo del mercato. In ogni modo, conviene un'alimentazione mista, e quindi mai esclusivamente fatta con un solo alimento». Prof. A. Herlitzka (fisiologo).
«È questione di gusti e del prezzo del mercato. In ogni modo, conviene un'alimentazione mista, e quindi mai esclusivamente fatta con un solo alimento
Avverto qui una volta per tutte che nella mia cucina non si fa questione di nomi e che io non do importanza ai titoli ampollosi. Se un inglese dicesse che questo piatto, il quale chiamasi anche collo strano nome di piccion paio, non è cucinato secondo l'usanza della sua nazione, non me ne importa un fischio: mi basta che sia giudicato buono, e tutti pari.
Avverto qui una volta per tutte che nella mia cucina non si fa questione di nomi e che io non do importanza ai titoli ampollosi. Se un inglese
La gran questione dei Bianchi e dei Neri che fece seguito a quella dei Guelfi e dei Ghibellini e che desolò per tanto tempo l'Italia, minaccia di riaccendersi a proposito dei tartufi; ma consolatevi, lettori miei, che questa volta non ci sarà spargimento di sangue; i partigiani dei bianchi e dei neri, di cui ora si tratta, sono di natura molto più benevola di quei feroci d'allora.
La gran questione dei Bianchi e dei Neri che fece seguito a quella dei Guelfi e dei Ghibellini e che desolò per tanto tempo l'Italia, minaccia di
Io mi schiero dalla parte dei bianchi e dico e sostengo che il tartufo nero è il peggiore di tutti; gli altri non sono del mio avviso e sentenziano che il nero è più odoroso e il bianco è di sapore più delicato; ma non riflettono che i neri perdono presto l'odore. I bianchi di Piemonte sono da tutti riconosciuti pregevoli e i bianchi di Romagna, che nascono in terreno sabbioso, benchè sappiano d'aglio, hanno molto profumo. Comunque sia lasciamo in sospeso la gran questione per dirvi come si preferisce di cucinarli a Bologna, Bologna la grassa per chi vi sta, ma non per chi vi passa.
in sospeso la gran questione per dirvi come si preferisce di cucinarli a Bologna, Bologna la grassa per chi vi sta, ma non per chi vi passa.