Dagli antichi mangiavasi cotte con senape, vino, pepe e fava. E però Marziale, dopo aver detto: A stitico ventre giovan le biete, aggiunge: Ventosam betis, si sapis adde fabam. E, chiamatola cibo da fabbro, raccomanda di condirla con vino e pepe:
betis, si sapis adde fabam. E, chiamatola cibo da fabbro, raccomanda di condirla con vino e pepe:
. Esternamente, la radice contusa e cotta si applica come antisettica, cicatrizzante e stomachica. La scorza della radice vuolsi sia diuretica nel vino bianco. La scuola, di Salerno ci raccomanda:
coliche. Francesco Gallina, medico piemontese, forse da Cuneo, che fioriva all'alba del secolo XVII, raccomanda di mangiare le più grosse, — perchè sono migliori di tutti li marroni, e se per lungo tempo si conservano si fanno più saporite. E suggerisce alle ragazze bionde, di adoperare il decotto delle loro buccie per conservare il dorato dei loro capelli. È voce di scienza popolare, che mangiando le castagne crude, si popoli la capigliatura di cavalieri, erranti. Raccolgoper ultimo la spiegazione che mi fu data da un R. Padre Oblato di S. Sepolcro a Milano, sulla espressione: far marrone. Egli dunque mi diceva, che viene da questo, che chi mangia i marroni difficilmente lo può nascondere e ne è quasi sempre sorpreso. Tutto per quello scandaloso matrimonio col dio Eolo.
coliche. Francesco Gallina, medico piemontese, forse da Cuneo, che fioriva all'alba del secolo XVII, raccomanda di mangiare le più grosse, — perchè
La Môra (Rubus fructicosus vulgaris). Mil.: Mòra. — Fr.: Mure de ronce. — Ted.: Brombeere. — Ingl.: Blackberry. — Spagn.: Mora. Prugnola del rovo il cui arbusto, ovunque diffuso, dà fiori bianchi o rossicci da maggio in avanti, e frutti neri. Nel linguaggio dei fiori: Gelosia, Rimorsi, Invidia. La môra à sapore dolce quando è matura. Una volta serviva a comporre elettuario per le tossi e male di gola, detto sciroppo diamorum. È suscettibile di fermentazione vinosa ed alcoolica e più che ad uso medico servono a colorare vini e paste zuccherine. I giovani germogli e le foglie sono leggermente stittiche e se ne può usare per gargarismo. Varietà a fiori doppi, frutto bianco, senza spine, foglie screziate, frastagliate, ecc. È della môra che si occupavano gli antichi mentre chiamavano sylvestris il lampone. È tradizione greca che prima questo frutto era bianco, ma che divenne nero del sangue di Priamo e di Tisbe, due amanti della Siria, che non potendo sposarsi si uccisero l'un dopo l'altro sulle môre. Galeno raccomanda di mangiare la môra ai viaggiatori assetati e affaticati dal caldo e dalla strada. Plinio dice che sono rinfrescanti. I Romani la mangiavano dopo il pranzo.
di Priamo e di Tisbe, due amanti della Siria, che non potendo sposarsi si uccisero l'un dopo l'altro sulle môre. Galeno raccomanda di mangiare la
. Appare, da qui, che ai tempi di Plinio si coltivava la varietà bianca, e che fino d' allora il miglio serviva per chicche da offelleria. In Asia se ne fa una certa polenta che si mangia con olio e grasso di porco. Del resto, era usato come farina da pane nell'Etiopia, nell'Egitto, Persia, Siria e nell'Arabia. I semi del miglio si possono cocere in minestra col brodo e massime col latte, se ne fa torte. Ridotto in farina è bono a far polenta e pane, che appena uscito dal forno è saporitissimo e non isdegnato dai gusti più delicati. Il Tanara insegna a fare colla farina di miglio molte cose e, tra le altre, gli Strozzapreti, che sono certi gnocchetti, cotti nel latte, involti in cacio parmigiano grattato, con assai burro. Raccomanda di conservarne una parte per la cena, perchè, sono così ghiotti, che non si possono assaggiare, senza lasciare il piatto vuoto e perchè riscaldati acquistano saporitissima e migliore bontà. La farina serve pure in pasticceria. Col miglio si alimentano i pulcini, le galline, il pollame e molti uccelli. I selvaggi lo arrostiscono. In Tartaria se ne compone una specie di birra e una certa acquavite che chiamano Bysa. Il miglio dev'essere conservato in luogo assai asciutto e dura così più d' ogni altro grano. Nel miglio si conservano benissimo nell'estate le ova ed il salame crudo.
, tra le altre, gli Strozzapreti, che sono certi gnocchetti, cotti nel latte, involti in cacio parmigiano grattato, con assai burro. Raccomanda di
La pimpinella (da bipennula, per le foglie bipennate) detta anche salvastrella, è originaria della Germania. Ve ne ànno di 5 specie. Il seme à durata germinativa per tre anni. È pianticella erbacea perenne, si moltiplica per seme, ma meglio per radici in autunno, si adatta a qualunque terreno, ma lo predilige umido e fresco, à fiori a spira rossastra, nasce naturalmente nelle montagne e nei prati, resiste al freddo. Nel linguaggio dei fiori: noncuranza. Si coltiva negli orti per uso di cucina; le sue foglie servono per condimento e per guarnizione d'insalata. Si raccomanda per il suo odore di melone. I suoi fiori, messi in decozione con certa quantità di allume, sviluppano un bellissimo color grigio che serve a tingere la lana, la seta ed il cotone. Gli antichi ne usavano per guarire la tabe. Pare fosse l'erba chiamata dai Greci Phrinion, usata contro i morsi dei rospi, chiamati appunto dai Greci phrinos. È leggermente astringente. Un proverbio dice: «L'insalata non è bona nè bella, se vi manca la pimpinella.»
: noncuranza. Si coltiva negli orti per uso di cucina; le sue foglie servono per condimento e per guarnizione d'insalata. Si raccomanda per il suo odore di
Fu nel Medio Evo e in Italia che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina, del secolo XVI, nel suo libro De honesta uoluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato, con stile poetico, porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia dieci che costarono cento talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano truffel-hunde, e canes tuberario venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure, di fine odorato, può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi, e se non troverete il tubero, troverete certamente.... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo-rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria sorvolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca, ed altre sue parenti prossime, che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le divoratrici. Fra questi segnali, il più conosciuto è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da novembre a marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. Ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitu. Il tartufo nero, o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra, a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore, l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettato dal commercio. Vi à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gulae. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza, per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene, faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella, e spruzzati di vino del Chjo. Cecilio Apicio, il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale, poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di
tartufo una ballata, perchè avendone mangiato troppo gli produssero una colica. Ancora nel 780 era raro a Parigi. Nel secolo XVI l'uso del tartufo era frequente in tutta Italia. Il Mattiolo ne parla come di un piatto prelibato di grandi case. Platina, l'istoriografo dei Papi, vanta quelli di Norcia nell'Umbria, dove nella vicina Bevagna doveva nascere di lì a poco Alfonso Ceccarelli, celebre autore dell'opuscolo sui tartufi. E il tartufo che era già comparso ai fins soupers de la Regence e del Direttorio, diventa ospite pressochè quotidiano alle mense dei marescialli dell'impero e trova in Brillat-Savarin il suo corifeo ed il suo poeta. Egli lo chiama il Diamante della cucina, Dumas s'inchina profondamente davanti al tartufo, lo adora, e nella sua adorazione non può che ripetere che il tartufo è il sacrum sacrorum. Invano i suoi nemici, la medicina ed i casisti, lo combattono. Avicenna dice che occasiona l'apoplessia e la paralisi — altri che genera la melancolia e la lebbra — altri, che è uno stimolante afrodisiaco. Il tartufo s'impone come cibo salubre, nutriente ed eccitante la digestione, quando è preso in debita misura. «Che ne pensate voi del tartufo?» domandava un giorno Luigi XVIII al suo medico Portal. «Scommetto che voi lo proibite ai vostri malati!» — «Sire, io lo credo un poco indigesto,» mormorò Portai. — «Il tartufo, dottore, non è ciò che pensa il volgo,» soggiunge il re e ne fe' sparire un bel piatto. Talleyrand intratteneva spesso Napoleone sui modi migliori di cucinarli. Byron li adorava, li mangiava sempre coi maccheroni e il grande poeta diceva di non voler mangiare i maccheroni coi tartufi, ma i tartufi coi maccheroni. George Sand chiamò il tartufo, che stimava assai, la pomme de terre fèerique. Rossini, da quel ghiottone ch'era, ne andava pazzo; è a lui che si deve l'invenzione della salade aux truffes. Il tartufo ammuffito produce vomiti ed acute coliche con altri malori cagionati dal parassita che vi nasce. Il tartufo à solo due difetti, di essere indigesto se se ne mangia troppo, e di essere caro. Michele Savonarola raccomanda agli intemperanti in fatto di tartufi, di temer Dio se non temono la colica: consiglio che agli epicurei non à mai fruttato un corno.
parassita che vi nasce. Il tartufo à solo due difetti, di essere indigesto se se ne mangia troppo, e di essere caro. Michele Savonarola raccomanda agli
A' tempi di Svetonio, il bulbo dello zafferano durava 8 anni. Nell'Avignonese, oggi limitasi a due soli, nella Sicilia a tre, ad Aquila a quattro. Il bulbo è amato dai topi, gli steli dalle lepri. Quantunque originario dei paesi del mezzodì, è coltivato oramai in quasi tutta Europa, perfino in Inghilterra. In Italia tale coltura è antica, specialmente in Sicilia e nel Napoletano, e propriamente nella provincia di Aquila, che per aroma e qualità tintoria, dà lo zafferano migliore del mondo. Il suo prezzo medio è di L. 150 al kgr. Lo zafferano si usa dai tintori, dai caffettieri, dai pasticcieri, dai profumieri, dai pittori, pizzicagnoli, maniscalchi, farmacisti e cuochi. Per la cucina si dovrebbe provvederlo in fili e non in polvere, onde evitare la falsificazione. La frode più innocente è quella di esporlo per qualche tempo in luogo umido, affinchè cresca di peso. Lo si falsifica benissimo coi fiori dello Zaffranone o falso zafferano (carthamus tintorius), che dà un colore scarlatto, con l'Oricella (rocella tinctoria), che dà pure un color porpora, col Sommaco (rhus coriara), ecc. I vapori che sparge lo zafferano nei luoghi chiusi ove non si possano con facilità dissipare, sono all'uomo malsani e talvolta micidiali, perchè à virtù eminentemente narcotica, ed in medicina passa come rimedio stimolante, analogo all'oppio. La scoperta dello zafferano si perde nella nebbia dei tempi. La mitologia vuole che abbia avuto origine da un giovinetto chiamato Croco, che, innamoratosi perdutamente di una ninfa, chiamata Smilace, nè piacendo a Barba Giove tale matrimonio, fu da lui cambiato nella pianta dello zafferano; da qui il suo nome di Crocus. Et in parvos versum cum Smilace flores, et Crocon (Ovidio, 4.a Metam.). Dioscoride lo raccomanda come eccellente condimento e ne suggeriva un unguento, tanto che Properzio lodecanta:
nome di Crocus. Et in parvos versum cum Smilace flores, et Crocon (Ovidio, 4.a Metam.). Dioscoride lo raccomanda come eccellente condimento e ne