In questi spaziosi ed ameni soggiorni, si alternava il passeggio al riposo, quando all'ombra e quando al sole, ed, aumentato il lusso e le comodità della vita, divennero parti essenziali delle cittadinesche abitazioni, a segno che, una casa, per quanto ornatissima, mancante di orticello, non casa «ma tenebroso ergastolo» si chiamava. I romani chiamavano ogni villa col nome di orto, onde Plinio, nel trattato delle 12 tavole delle leggi, sempre nomina la villa colla parola hortus. È da notarsi che con hortus, al singolare, i latini volevano indicare propriamente quella porzione di terra cintata, ove venivano coltivati gli ortaggi; mentre col plurale di horti si volevano chiamare quei luoghi di passeggioe di convegno, che erano rallegrati dall'ombra delle piante. Così gli orti Pompejani, Luculluiani, Sallustrii, dei Cesari, di Mecenate, ch'erano come i nostri giardini pubblici. ì piccoli orti del basso popolo chiamavansi macelli, perciò Varrone chiamava macellato gli orti degli Jonj a spregiarne la loropiccolezza — egualmente che il foro olitorio, perchè forniva di erbaggi la plebe, dicevasi pure macello. Col vocabolo foro olitorio (il nostro verzee) dalla voce generica olus, colla quale i romani comprendevano qualunque erba sativa che vi si vendesse — ed olitarii erano chiamati gl'istrumenti che servivano alla coltura degli orti, a sradicare le piante, come la marra, la pala, il bidente, ecc. Così d'altre distinzioni notissime, come gli horti herbarii medicinales, destinati alla coltura di varie piante che servivano alla cura di malattie — gli horti alvearii o mellarii, dedicati unicamente alla coltura delle api — gli horti sacri, con voce greca chiamati hierocipis, ove con molta cura si educavano le piante favorite dalle divinità, e di cui facevasi uso nelle sacre pompe, nelle libazioni, nei sacrifizi, nei trionfi, nei mortorii dei magnati e dei cittadini più distinti — cose tutte di cui in seguito se ne confuse la denominazione, e furono riassunte nella voce orto. Ond'è che Orto significa quel terreno, reso utile da una raffinata coltura delle erbe e delle piante, di cui si fa uso più comune — per cibo e condimento — mentre il Giardino, più che all'utilità, bada alla bellezza e rarità delle piante, alla vaghezza dei fiori, che ogni stagione produce.
orti del basso popolo chiamavansi macelli, perciò Varrone chiamava macellato gli orti degli Jonj a spregiarne la loropiccolezza — egualmente che il
, e Brillat-Savarin, come afrodisiaco. Il sugo del carciofo, fu tenuto da Guitteau e Copermann come succedaneo all'aloe e drastico ad alta dose. Fu usato contro i reumatismi, le sciatiche, l'itterizia e come diuretico nelle idropi. Charrier, Otterbourg, Homolle ed altri lo consigliano nella cura della diarea cronica, e suggeriscono di mangiarne crudi con olio, sale e pepe quattro o sei al giorno. È nemico assoluto dei cantanti ai quali annebbia la voce. Giova la decozione del carciofo a coloro che patiscono fetore sotto le ascelle, lavandosi con essa. Le foglie del carciofo fresco allontanano le cimici. Varrone insegna che a macerare la semente in sugo di rose, gigli, alloro si à carciofi del sapore di questi. Un cronista napoletano ci tramanda che celebre per cucinare i carciofi fu Cleope da Vanafro. Vogliono che il nome di Cinara fosse quello di una bellissima ragazza che Giove, quand'era lui al potere, mutò in articiocco e cardone, nome che ancor rimase a questi.
le cimici. Varrone insegna che a macerare la semente in sugo di rose, gigli, alloro si à carciofi del sapore di questi. Un cronista napoletano ci
Plinio li maltratta e Catone ne canta le lodi. I Romani, un bel dì cacciarono da Roma tutti i medici che rimasero esiliati per lunghissimo tempo e Catone il censore, assicura che i Romani si curarono da ogni male coi cavoli. Varrone salvò, mercè loro, la sua famiglia dalla pestilenza. È un fatto che il cavolo è antiscorbutico.
Catone il censore, assicura che i Romani si curarono da ogni male coi cavoli. Varrone salvò, mercè loro, la sua famiglia dalla pestilenza. È un fatto
Il coriandolo, o coriandro, o cimina, è pianta antica, originaria dell'Oriente e della Grecia, che passò in Italia e nella Francia meridionale, ove si è resa quasi indigena, e dove si coltiva negli orti. Si propaga per semi in aprile, si raccoglie in settembre, cresce dai 30 ai 90 centim., à foglie verdi chiare, fiori bianchi e porporini in maggio e giugno. Nel linguaggio dei fiori significa: Merito nascosto. Il suo nome coriandolo dal greco coris, cimice e da ambluno rintuzzare, perchè rintuzza la vista. I suoi grani freschi e le foglie verdi ànno un odore disgustoso di cimice, massime quando fa nuvolo e piove, per cui è anche chiamata: erba cimicina. Essicati sono gradevolissimi, aromatici, stimolanti. Entra il coriandolo nella composizione di molti liquori, in ispecie del Gin; serve come droga di cucina ed è condimento aromatico presso i popoli del nord. L'adoperano per aromatizzare la birra, lo mescolano al pane, lo masticano dopo il pasto, per facilitare la digestione, espellere le flattulenze e rendere gradevole l'alito della bocca. Gli Spagnuoli mettono le foglie del coriandolo nella zuppa, alla quale danno un sapore molto forte, e le mangiano pure in insalata. I medici gli assegnano virtù toniche, astringenti. Si amministra in infusione nell'acqua bollente e nel vino. Rivestiti i coriandoli di zuccaro se ne fanno confetti. Pestati e fatti cocere nell'acqua a densa decozione, servono contro le pulci spruzzandone le lettiere ed il suolo. I coriandoli, ànno dato il nome a quei proiettili di farina e gesso che negli ultimi giorni del Carnevalone insudiciano le vie, le case e gli abiti dei Milanesi. Gli antichi consideravano il coriandolo, allo stato verde, come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo trito e misto ad aceto serviva per conservare le carni nell'estate presso i Romani. La manna degli Ebrei somigliava al seme bianco del coriandolo del quale ne aveva pure il gusto (Ex., 16, 31) il che è confermato anche nel Libro dei Numeri (17, 7), tranne che ivi si aggiunge che la manna aveva anche il sapore del Bdellio, albero babilonese, trasudante una specie di gomma aromatica, ricordato pure da Plauto (Cure, Se. 2, a. 1) Tu crocum, tu casta, tu bdellium.
consideravano il coriandolo, allo stato verde, come erba velenosa, atta a produrre vertigini, sonnolenza, demenza. Varrone ci tramanda che il coriandolo