Una delle cose essenziali per chi si dedica all'arte della cucina è la perfetta conoscenza dei generi che si adoperano. A prima vista queste conoscenze sembrano la cosa più facile di questo mondo: ma in realtà non è così: tanto che spesso dei cuochi di mestiere sono tratti in inganno. Non bisogna dimenticare che il più delle volte tra chi compra e chi vende esiste un irriducibile antagonismo, per quanto larvato; e novanta volte su cento il negoziante ha tutto l'interesse di dare al cliente i generi che egli vuole anzichè quelli che dovrebbe dare. Occorre dunque che il compratore sia tanto agguerrito da sventare queste piccole insidie, mascherate spesso da sorrisi o accompagnati da un diluvio di parole esaltanti l'articolo. Chi compera deve rimanere tetragono e non lasciarsi abbindolare dalle chiacchiere: deve portare a casa quel ch'egli vuole e non quello che gli si vuole... propinare. Di qui, come dicevamo, la necessità di conoscere perfettamente quel che si acquista: a base principale dell'economia, prima, e della buona riuscita di ciò che si cucina, poi.
Una delle cose essenziali per chi si dedica all'arte della cucina è la perfetta conoscenza dei generi che si adoperano. A prima vista queste
Friggere bene non è da tutti, e spesso, anzi, è proprio qui che vengono miseramente a naufragare così la pretensiosa prosopopea di tante cuoche, come i facili entusiasmi di qualche dilettante di cucina. Generalmente si frigge male perchè non si ha un'idea esatta dell'operazione della frittura, la quale è essenzialmente operazione di «concentrazione». Per lo più si frigge a tre gradi principali: a padella moderata, a padella ben calda, a padella caldissima; stadi, codesti, che si riconoscono assai facilmente. Nondimeno chi non fosse molto pratico potrà regolarsi così. La frittura è moderatamente calda quando gettandovi dentro un pezzetto di pane, questo provoca l'azione del grasso o dell'olio, che incominciano il loro ufficio: è ben calda quando lasciandovi cadere una goccia d'acqua si sente un crepitio secco; e finalmente è caldissima allorchè dalla padella si sprigiona un leggero fumo biancastro. Naturalmente ad ogni preparazione sottoposta all'operazione della frittura deve adattarsi uno di questi tre gradi. Così si frigge a padella moderata tutto ciò che contiene acqua di vegetazione, come patate o altri legumi, o frutta; oppure pesce e carni piuttosto voluminosi, che debbono cuocere interamente nella frittura, e nei quali la cottura completa deve arrivare insieme con il croccante e il color d'oro dell'involucro esterno. Si friggono invece a padella ben calda quelle cose le quali hanno già subito un principio di cottura o una cottura completa. Si tratta in questo caso di formare subito intorno agli oggetti immersi nella frittura uno strato solido affinchè l'interno rimanga compresso e non vada a passeggiare per la padella. Si friggono così le costolette e qualunque altra preparazione alla Villeroy, le supplì, le crocchette di diverse specie, le creme fritte, ecc. Il terzo grado, cioè la frittura a padella caldissima, si usa per piccoli pesci, per provature, e in genere per tutte le cose di limitate proporzioni di cui il calore deve subito impossessarsi. La quantità della frittura deve essere sempre proporzionata all'importanza e al volume delle cose da friggere. In ogni caso questi oggetti devono essere completamente immersi. La pretesa economia di coloro che friggono con pochissimo liquido si risolve in loro danno, poichè prima di tutto il fritto vien male: molle o carbonizzato, e poi il poco liquido adoperato brucia facilmente e deve essere gettato via, mentre se si dispone di abbondante grasso o olio, alla fine si passa attraverso un setaccino e si tiene in serbo per un'altra volta. Qual'è la miglior frittura? II burro, intanto, no, poichè non ha forza nè resistenza. Nelle trattorie e negli alberghi dove c'è molto lavoro si adopera il grasso di rognone di bue, ciò che rappresenta la frittura classica di grande resistenza. Ma il grasso di bue si fredda troppo facilmente e lascia subito una patina sulle cose fritte, la quale a sua volta insega la bocca di chi mangia. Per famiglia è meglio dunque non pensare al grasso di bue e adoperare lo strutto o meglio ancora l'olio, mediante il quale si ottiene una frittura croccante e dorata. L'olio infatti senza considerare che dal lato igienico è infinitamente superiore allo strutto, dove non si mai quel che ci sia — può raggiungere fino i 290 gradi di calore, ciò che non si ottiene con nessuna altra frittura. Molti hanno una ingiustificata avversione per friggere con l'olio. Prendano dell'olio di qualità buona e provino. Ne saranno soddisfatti. L'olio fine non comunica nessun sapore sgradevole alle cose fritte. Molte volte si tratta di pregiudizi e nulla più.
caldissima; stadi, codesti, che si riconoscono assai facilmente. Nondimeno chi non fosse molto pratico potrà regolarsi così. La frittura è
Ogni lingua è un organismo vivo e in continua evoluzione ed è semplicemente ridicolo fermarsi pensosi a ogni pie sospinto per indagare se il Rigutini direbbe o non direbbe così o se la Crusca consentirebbe l'impiego di una data parola. Abbiamo visto in questi ultimi anni che parole esotiche riguardante gli sports, i giuochi, le arti, i mestieri e recentemente la radiofonia hanno acquistato diritto di cittadinanza italiana anche perchè nella nostra lingua non c'era l'equivalente. E così sia pure per l'arte della cucina. Per conto nostro, che pure abbiamo uno stato di servizio letterario non assolutamente indegno, e professiamo il più geloso amore per la nostra Patria e per quanto ad essa possa riferirsi, abbiamo accolto senz'altro «menu», italianizzandolo con un accento, «purè», e tanti altri vocaboli, piuttosto che ricorrere alle ridicole volgarizzazioni di «lista», «passato», ecc. per non parlare di quel tale «sgonfiotto» col quale l'Artusi pretendeva di tradurre il soufflé francese. Così per le chenelle. La parola francese è «quenelles», e ricordiamo che parecchi anni addietro alcuni cuochi morsi dalla tarantola letteraria si accanirono in una rivista su queste povere chenelle per trovar loro un nome italiano fino a che, incredibile ma vero, le battezzarono per «morbidelle». Ombra di Pellegrino Artusi sei vendicata! Dinanzi a tanto inutile scempio accontentiamoci di quel che c'è senza farci ridere appresso per la smania di italianizzare a qualunque costo, e diciamo pure chenelle, scrivendo la parola come si pronunzia. Chiediamo venia a chi soffre il solletico del purismo, e passiamo senz'altro alla ricetta fondamentale della farcia di pollo, da cui derivano tutte o quasi tutte le altre.
chenelle, scrivendo la parola come si pronunzia. Chiediamo venia a chi soffre il solletico del purismo, e passiamo senz'altro alla ricetta fondamentale
Questa salsa, giustamente, considerata come la regina delle salse fredde, è di indiscutibile provenienza francese, e viene, negli antichi trattati di cucina, designata, volta a volta, sotto i nomi di: «magnonnaise» «mahonnaise», o «bayonnaise». Alcuni pretendono infatti che essa sia originaria del villaggio di Magnon, altri sostengono che fu ideata dal duca di Richelieu dopo la presa di Port-Mahon, altri ancora affermano — non sappiamo con quanto fondamento — che abbia avuto i suoi natali a Bayonne. Il Gilbert dà un'altra spiegazione secondo la quale essa sarebbe stata creata durante la giornata d'Arques. Il duca di Mayenne era al campo, ed amava alternare lo studio dei piani di guerra, con quello non meno importante dei suoi «menus». Aveva, quel giorno, ordinato, d'accordo col cuoco, una salsa composta d'uovo, olio, aceto ed erbe aromatiche, la quale avrebbe dovuto accompagnare una superba gallina fredda; e si era appunto seduto a mensa, quando le ostilità furono riprese. Intento a discutere col cuoco su alcune modificazioni da portare alla salsa, il duca non si accorse che il tempo volava. Cosicchè quando finalmente si decise ad entrare in combattimento trovò che la cavalleria nemica aveva già sbaragliato i suoi. Non tutti i mali vengono per nuocere!... Il duca di Mayenne aveva perduto la battaglia di Arques, ma aveva creato la regina delle salse fredde: la quale dovrebbe quindi logicamente chiamarsi «Mayennaise». I libri di cucina, scritti per lo più da solennissimi ignoranti, hanno contribuito ad accreditare presso taluni le più strampalate leggende intorno a questa popolare salsa. C'è, ad esempio, chi consiglia di lavorarla sul ghiaccio; chi mette in campo il solito ritornello di girarla sempre da una parte — guai a obliarsi anche un momento solo! — chi raccomanda con grande serietà di non lasciarsi vincere dalla tentazione di aggiungere il sale al principio; chi ammonisce di tener pronti mezzo limone e dell'aceto, e, a guisa di valvole di sicurezza, servirsene per addensare o diluire la salsa, ecc. ecc. Niente di tutto questo. Bisogna tener presente: che il freddo è il più grande nemico della maionese perchè tende a gelare l'olio e a decomporre quindi la salsa; che il girare da una parte o dall'altra non ha nessuna importanza, nè in questo nè in altri casi; che il sale, aggiunto fin del principio, regge anzi le molecole dell'uovo e comunica loro una maggior forza di assimilazione; che limone o aceto hanno l' identico ufficio: quello di diluire la salsa, ma l'aceto è preferibile. L'unico punto capitale da osservare scrupolosamente è di andare pianissimo al principio: niente altro. Nell'inverno, se l'olio fosse gelato, converrà farlo stiepidire vicino al fuoco. In generale le proporzioni sono: un giallo d'uovo, mezzo bicchiere d'olio, un pizzico di sale e un cucchiaino circa d'aceto. Certo non bisogna esagerare nella quantità d'olio, poichè oltre un certo limite l'uovo non ha più forza coesiva e la salsa si decompone. Mettete dunque un torlo d'uovo in una terrinetta, aggiungete un pizzico di sale, e con un, cucchiaio di legno, o una forchetta, o meglio ancora, con una piccola frusta di ferro stagnato — questa è quasi indispensabile — rompete l'uovo e incominciate a girarlo, procurando di mantenerlo nel centro della terrinetta, senza spanderlo troppo. Goccia a goccia, lentissimamente, incominciate a far cadere l'olio sul rosso d'uovo, girando sempre. Ripetiamo: andate adagio adagio in principio, che il segreto è tutto qui. Quando la salsa avrà assorbito un paio di cucchiaiate d'olio, vedrete che tende ad addensarsi troppo. Aggiungete subito qualche goccia d'aceto per riportarla a una densità non eccessiva ed impedirle di decomporsi, ciò che certamente avverrebbe se la salsa continuasse ad addensarsi. Avviata così, continuate a versare l'olio, con un po' di franchezza, ma senza tuttavia eccedere, e avvertendo di diluire la maionese con un po' d'aceto, appena vi sembrerà che diventi troppo spessa. Dovendo fare una maionese di più uova è buona norma unire a queste un torlo d'uovo sodo passato al setaccio, ciò che dà una maggiore forza alla salsa. Se nonostante le nostre avvertenze vi accadesse qualche volta che la salsa si decomponesse mettete in una terrinetta un altro rosso d'uovo, e su questo, goccia a goccia, versate la salsa decomposta, operando come per una nuova maionese. Spesso la salsa decomposta si riprende anche benissimo, lasciando cadere qualche goccia d'acqua sulle pareti della terrinetta, e girando energicamente con la frustina o col mestolo. E finalmente se anche questo tentativo di riprendere la salsa fallisse e voi non aveste tempo nè voglia di ricominciare da capo, eccovi il segreto infallibile per il quale la maionese la più stracciata e decomposta torna in pochi secondi unita e liscia come se niente fosse accaduto. Supponiamo che abbiate fatto una maionese di due uova e che l'operazione bene avviata sia stata arrestata a meta da un' improvvisa decomposizione della salsa. Prendete allora una casseruolina, [immagine e didascalia: Frusta in ferro stagnato] metteteci una cucchiaiata scarsa di farina e sciogliete a freddo questa farina con mezzo bicchiere scarso di aceto. Quando il tutto sarà ben sciolto mettete la casseruolina sul fuoco e, mescolando continuamente col cucchiaio o meglio con una piccola frusta di ferro, fate cuocere per qualche minuto fino a che aceto e farina abbiano formato un tutto elastico e densissimo, quasi una colla ristretta. Togliete via dal fuoco, travasate in una terrinetta e lasciate freddare completamente. Su questa farina preparata incominciate allora a gittare una mezza cucchiata della salsa maionese decomposta, girando energicamente con la frusta. Amalgamata la prima mezza cucchiaiata aggiungetene un'altra, e così di seguito fino ad avere esaurita tutta la salsa inservibile. Vedrete che questa volta la maionese... ristabilita in salute non ammalerà più, e voi potrete continuare ad aggiungere liberamente l'olio necessario per portarla alla voluta quantità. Non dimenticate questo piccolo infallibile segreto e ve ne troverete contente.
ignoranti, hanno contribuito ad accreditare presso taluni le più strampalate leggende intorno a questa popolare salsa. C'è, ad esempio, chi consiglia di
Uno dei modi migliori di cucinare i legumi per minestra è la purè, che ha il pregio di essere molto digestiva. Tanto vero che nell'alimentazione dei bambini la purè da qualche anno occupa un posto notevolissimo. Molti sono contrari alla purè, per partito preso, immaginando chi sa quali complicazioni di cucina. È invece niente di più facile: basta che in cucina vi sia un setaccio che non è poi un utensile molto costoso. I fagioli, le lenticchie, i ceci si cuociono in acqua e sale, calcolandone circa cento grammi a persona. Quando i legumi saranno cotti, si scolano, e si passano dal setaccio, forzandoli con un cucchiaio di legno. La purè si può insaporire col burro, con l'olio e con lo strutto.
bambini la purè da qualche anno occupa un posto notevolissimo. Molti sono contrari alla purè, per partito preso, immaginando chi sa quali
Gli spaghetti alla amatriciana, nonostante il loro titolo provinciale, sono invece un piatto caratteristico della cucina romana, specialità ricercata di molte osterie e trattorie di Roma. Niente di più semplice. Per un Kg. di spaghetti tritate sul tagliere una cipolla con un ettogrammo di guanciale e mettete il pesto in un tegame, con una cucchiaiata di strutto. Quando il guanciale e la cipolla saranno rosolati ma non troppo, unite nel tegame mezzo chilogrammo di pomodori spellati, tagliati a pezzi e privati dei semi. Condite con sale e pepe — regolatevi col sale, che il guanciale è alquanto salato — e conducete la cottura a fuoco brillante, durante pochi minuti, fino a che il pomodoro sia cotto, ma non sfatto. Intanto mettete giù gli spaghetti, e appena arrivati di cottura, conditeli con la salsa preparata e un ettogrammo di pecorino romano grattato. La ricetta tradizionale esige il pecorino. Ma a chi non piacesse il gusto troppo piccante di questo formaggio, può usare metà pecorino e metà parmigiano, o tutto parmigiano. Il pepe deve dominare in questi spaghetti.
pecorino. Ma a chi non piacesse il gusto troppo piccante di questo formaggio, può usare metà pecorino e metà parmigiano, o tutto parmigiano. Il pepe
La pasta con le sarde è uno dei famosi piatti della cucina siciliana, ed è una preparazione caratteristica che non trova riscontri in nessun'altra cucina regionale. I siciliani sono orgogliosi di questa loro specialità, e non hanno torto, poichè un tegame di pasta con le sarde ben fatta è veramente una cosa squisita. Chi non è addentro nei segreti di questa pietanza, leggendone la ricetta può trovare che l'insieme di elementi così disparati possa condurre ad una dissonanza culinaria; ma è proprio il caso di ripetere che, come nei più acclamati poemi sinfonici moderni, queste apparenti dissonanze vengono a creare un insieme armonico di prim'ordine. La pasta con le sarde è una specie di mosaico in cui ogni pezzetto ha la sua ragion d'essere nel risultato finale. Errerebbe dunque chi volesse portarvi delle modificazioni personali per quel gusto di variare, semplificare, che molte persone hanno, senza aver prima esperimentato la ricetta vera. La pasta con le sarde, essendo diffusissima, ha nella stessa Sicilia parecchie ricette, le quali variano però soltanto in qualche accessorio; ed è logico che la ricetta preparata dai grandi cuochi siciliani, che, fin dall'antichità furono i più grandi cuochi del mondo, potrà essere un pochino più dispendiosa di quella eseguita nelle modeste case e nelle taverne, ma, ripetiamo, è questione di nuances.
una cosa squisita. Chi non è addentro nei segreti di questa pietanza, leggendone la ricetta può trovare che l'insieme di elementi così disparati
La polenta, cibo eminentemente invernale trova buone accoglienze non solo nelle umili mense, ma, prestandosi a svariate preparazioni, è bene accetta anche ai palati più fini. Servita naturalmente, col sugo, con gli uccellini, fritta ecc. potrà di quando in quando contribuire alla varietà dei menù quotidiani. Uno dei modi migliori e più signorili per cucinare la polenta è costituito da questi gnocchetti, da servirsi come primo piatto in una colazione. Il modo di cuocere la polenta è noto a tutti. Si mette sul fuoco un piccolo caldaio con acqua e sale e quando l'acqua sta per bollire si comincia a versare la polenta nel caldaio lasciandola cadere a pioggia, mentre con l'altra mano si mescolerà sempre con un cucchiaio di legno, affinchè non si formino grumi. Dosi esattissime di acqua e di polenta non se ne possono dare perchè può darsi il caso che una qualità di farina gialla assorba più acqua e un'altra meno. Al buon senso di chi cucina il giudicare se sia il caso di aggiungere qualche cucchiaiata in più o in meno di polenta, tanto più che queste variazioni non portano nessun pregiudizio nel risultato finale.
acqua e un'altra meno. Al buon senso di chi cucina il giudicare se sia il caso di aggiungere qualche cucchiaiata in più o in meno di polenta, tanto più
È una specie di minestra molto igienica, sopratutto raccomandabile a chi ha bambini. Per quattro persone calcolate 300 grammi di riso, per cuocere il quale sarà necessario circa un litro e mezzo di latte. Mettete a bollare la metà del latte e al primo bollore mettete giù il riso e fatelo cuocere mescolando di quando in quando perchè non si attacchi, aggiungendo man mano che il riso gonfia altro latte. Condite con un po' di sale e continuate la cottura fino alla fine, ricordando che questo riso deve rimanere piuttosto sciolto, e non così asciutto come l'abituale risotto. Questa minestra, specie se destinata a bambini, può essere servita così senz'altro condimento, ed è buonissima nella sua semplicità. Volendo renderla più gustosa vi si può aggiungere all'ultimo momento qualche cucchiaiata di parmigiano.
È una specie di minestra molto igienica, sopratutto raccomandabile a chi ha bambini. Per quattro persone calcolate 300 grammi di riso, per cuocere il
Mettete in una casseruola un paio di cucchiaiate di cipolla tritata, finissima, un pezzo di burro (mezzo ettogrammo) e una cucchiaiata di prosciutto in fettoline. Fate cuocere su fuoco debolissimo affinchè la cipolla non prenda colore, aggiungendo qualche pochino d'acqua, e poi mettete giù il riso ben mondato (dai trentocinquanta ai quattrocento grammi). Mescolate bene con un cucchiaio di legno e poi bagnate con un paio di dita di marsala. Mescolate ancora e bagnate il riso con acqua o brodo bollenti; condite con sale e continuate la cottura come di consueto. Mentre il riso cuoce, preparate le animelle di abbacchio. Generalmente queste animelle si tengono una mezz'ora in acqua appena tiepida affinchè possano dissanguarsi e diventare bianchissime, poi si immergono per un minuto in acqua in ebollizione, si gettano in acqua fresca e si asciugano in una salvietta. C'è anche chi fa a meno di tutte queste operazioni preliminari senza che il risultato sia sensibilmente diverso. Certo, se c'è tempo, è meglio seguire il procedimento più lungo, quello che vuole la cucina classica. Mettete una teglietta sul fuoco con un pezzetto di burro, e a fuoco allegro fate rosolare le animelle. Pochi minuti bastano, cinque o sei, specie se le animelle sono state sbollentate. Conditele con sale e pepe e, appena saranno bionde, buttateci sopra un dito di marsala. Staccate con un cucchiaio il fondo della cottura e tirate via dal fuoco. Appena il riso è arrivato di cottura, tirate indietro la casseruola; conditelo con un altro po' di burro e del parmigiano grattato, accomodatelo in un piatto e sul riso disponete le animelle. Se tutto versate la salsetta delle animelle, e fate portare in tavola. Se avete pronti dei pisellini al prosciutto, aggiungetene tre o quattro cucchiaiate al risotto al momento di condirlo. La pietanzina ne guadagnerà.
bianchissime, poi si immergono per un minuto in acqua in ebollizione, si gettano in acqua fresca e si asciugano in una salvietta. C'è anche chi fa a meno di
Molti credono che questo tradizionale piatto napolitano sia esclusiva specialità dei «pizzaioli» e che si debba mangiarlo soltanto da loro. È un errore. La pizza alla napolitana si può fare benissimo in casa dove riesce buona come nella più accreditata pizzeria. La vera pizza alla napolitana va cotta nel forno da pane, in mezzo ad una fiamma vivace di sarmenti; ma non è detto che non si possa ottenerla anche nei nostri fornetti domestici. Per una pizza sufficiente a sei persone occorrono circa 400 grammi di pasta da pane. Chi vuol comprarla bella e pronta dal fornaio può farlo, ma noi consigliamo di confezionare la pasta in casa: ciò è molto meglio. Prendete 350 grammi di farina, disponetela a corona sulla tavola, metteteci dentro 10 grammi di lievito di birra, aggiungete un pizzico di sale, stemperate il lievito con un pochino d'acqua tiepida e impastate con altra acqua tiepida; in tutto un bicchiere. Lavorate energicamente la pasta affinchè risulti ben liscia, elastica e relativamente morbida. Poi fatene una palla e mettetela in una terrinetta, nel cui fondo avrete spolverato un po' di farina. Coprite la terrinetta e mettetela in luogo tiepido perchè la pasta possa lievitare.
una pizza sufficiente a sei persone occorrono circa 400 grammi di pasta da pane. Chi vuol comprarla bella e pronta dal fornaio può farlo, ma noi
Da un pane a cassetta, meglio se raffermo, tagliate tanti crostini dello spessore di un centimetro e della grandezza di una carta da giuoco. Mettete un pezzo di burro in una padellina, e, un po' alla volta, friggete i crostini preparati, ma da una sola parte, lasciando l'altra senza essere fritta. A seconda del numero dei crostini, imburrate una teglia più o meno grande nella quale possano trovar posto, in un solo strato, tutti i crostini; e questi li appoggerete dalla parte non fritta lasciando la parte fritta in alto. Su ogni crostino mettete qualche fettina di formaggio fresco, come mozzarella o provatura. Chi non avesse a sua disposizione queste qualità di formaggio potrà usare del gruyère tagliato molto sottilmente. Sul formaggio appoggiate qualche filetto d'acciuga, qualche pezzettino di pomodoro fresco spellato e privato dei semi, e finalmente ultimate i crostini con un pizzico di pepe e un pizzico di origano. Lasciate sgocciolare su ogni crostino un pochino di olio e passate la teglia in forno per una diecina di minuti: il tempo di far cuocere la parte inferiore del pane non cotta e di far liquefare il formaggio. Mangiateli caldissimi perchè solo così potrete gustarli in tutta la loro bontà.
mozzarella o provatura. Chi non avesse a sua disposizione queste qualità di formaggio potrà usare del gruyère tagliato molto sottilmente. Sul formaggio
Aggiungete un bicchierino di marsala e, al momento di mandare in tavola, un altro pochino di burro che avrete fatto friggere a color d'oro scuro, in un tegamino. Chi non avesse la rosticciera potrà cuocere il filetto al forno, staccando poi con un po' di brodo e con un mestolino di legno il sugo che si sarà raccolto nella teglia, e ultimerà l'arrosto come si è detto prima.
un tegamino. Chi non avesse la rosticciera potrà cuocere il filetto al forno, staccando poi con un po' di brodo e con un mestolino di legno il sugo
Vengono anche detti «Uccellini di campagna». «Uccellini matti», ecc. Per sei persone prendete quattro ettogrammi di fettine di manzo. Il manzo dovrà essere di buona qualità, e il taglio da preferirsi «la pezza». Dividete le fettine in una ventina di striscie regolari, alte un po' più di due dita e lunghe dai sei agli otto centimetri, battetele leggermente per renderle sottili e sopra ognuna mettete una fettina di prosciutto grasso e magro, una foglia di salvia e un nonnulla di pepe, arrotolando poi ogni fettina su sè stessa in modo da avere dei piccoli salsicciotti. Preparate tante piccole fette di pane per quanti sono gli involtini, e un numero doppio di sottilissime fettine di lardo. Prendete uno spiede, infilzate una fetta di pane, un pezzettino di lardo, un involtino, un altro pezzettino di lardo, una fetta di pane, e via di seguito procedendo sempre con lo stesso ordine. Quando avrete infilzato ogni cosa, mettete a liquefare vicino al fuoco, in un tegamino, una cucchiaiata di strutto, e con un pennello ungete generosamente così la carne come il pane; spolverizzate con un po' di sale e un po' di pepe e mettete ad arrostire sopra un fuoco piuttosto gaio. Il sistema più semplice, per chi non possiede un girarrosto, è quello di disporre delle palettate di carbone bene acceso in fondo al camino, al di là dei fornelli. Il carbone va messo sopra un piccolo strato di cenere e diviso in due linee parallele con un piccolo spazio in mezzo, affinchè il grasso scolando non produca soverchio fumo. La spiede va messo sopra due ferri da stiro posati verticalmente, e girato di quando in quando con la mano. Siccome il fuoco tende facilmente ad indebolirsi, è bene tenerlo desto con qualche colpo di ventola, come pure è opportuno ungere di quando in quando l'arrosto. Il quale, per cuocere avrà bisogno di mezz'ora di tempo. Disponete gli uccellini coi loro crostini croccanti bene allineati in un piatto e mandateli in tavola così, o dopo aver sgocciolato su essi un pochino di burro fuso.
, per chi non possiede un girarrosto, è quello di disporre delle palettate di carbone bene acceso in fondo al camino, al di là dei fornelli. Il
Uno degli scogli sul quale vanno spesso ad infrangersi il buon volere e le ambizioni di chi deve preparare una colazione o un pranzo elegante è il piatto di carne. Ci si trae facilmente d'imbarazzo per un piatto di mezzo o per un dolce, riuscendo a presentare ai nostri ospiti qualche cosa di nuovo e di fine, ma per il piatto di carne si ricade assai spesso nelle preparazioni consuete. Ecco perchè v'insegnamo questa, noce di vitello, la quale, se rifinita a dovere, non solamente riuscirà una pietanza eccellente dal punto di vista del gusto, ma costituirà anche una preparazione molto elegante e tale da permettervi di conseguire un immancabile successo. Secondo il numero delle persone prendete una intiera noce di vitello o soltanto una parte di essa calcolandone un centinaio di grammi a persona. Lardellate la carne, e, se fosse possibile, picchettatela internamente oltre che con qualche asticciola di lardo, con dei pezzi di grasso di prosciutto, e, potendo, con dei dadi di tartufo nero. Compiuta questa prima operazione, legate la carne per mantenerla in forma. Prendete una casseruola di rame a fondo spesso e di forma possibilmente rettangolare, metteteci una cipolla tritata sottilmente, un po' di prezzemolo, del sedano e qualche fettina di carota gialla, il tutto tritato. Su questo letto di legumi mettete la carne, salatela, aggiungete una grossa cucchiaiata di burro o di strutto e fate cuocere con attenzione affinchè la carne e le verdure possano rosolarsi senza tuttavia bruciacchiarsi. Quando la carne sarà colorita e i legumi saranno diventati una poltiglia bionda, bagnate la carne con mezzo bicchiere di marsala o di vin bianco, e quando l'umidità del vino sarà evaporata bagnate ancora con del brodo o dell'acqua, tanto da ricoprir quasi la carne, che continuerà a cuocere pian piano fino a completa cottura.
Uno degli scogli sul quale vanno spesso ad infrangersi il buon volere e le ambizioni di chi deve preparare una colazione o un pranzo elegante è il
Eccezione fatta per qualche albergo, il montone viene raramente usato, perchè per questo come per tanti altri alimenti ci sono non poche prevenzioni. Molti, infatti, lo ritengono coriaceo, disgustoso, nauseabondo, indigesto e chi più ne ha ne metta: e al solito sono calunnie, che il mansueto animale non merita davvero... Le più importanti razze e varietà di ovini esteri sono: la Razza Leicester, detta Razza Dishley, la Razza New Kent, la Razza Southdown, la Razza Cottswold, la Razza Francese, la Razza Savojarda, la Razza Danese, la Razza Cheviot, la Razza del bacino della Loira, la Razza dei Pirenei, la Razza Merinos, la Razza della Barberia o Barbaresca e la Razza del Sudan. Gli ovini italiani hanno pure grande rinomanza. Le principali razze nazionali sono: la Razza Piemontese, ottima, la Razza Biellese, la Razza Canavese, la Razza di Pinerolo, la Razza Bergamasca, la Razza Siciliana, la Razza gentile delle Puglie, la Tuscolana, oltre importanti varietà come quella di Ormea e della Valle d'Aosta, della Lomellina, Padovana e Romagnola, Romana e Napolitana. Il montone di buona qualità ha la carne di un rosso leggermente biancastro, grasso bianco e duro che forma degli strati più o meno spessi alla superficie e nei principali interstizi muscolari. I migliori tagli del montone sono: il coscetto (gigot), la sella, e le oostolette. I tagli più scadenti: la spalla, il petto e il collo.
. Molti, infatti, lo ritengono coriaceo, disgustoso, nauseabondo, indigesto e chi più ne ha ne metta: e al solito sono calunnie, che il mansueto
Per sei persone prendete un chilogrammo e mezzo di agnello (spalla e petto) e spezzatelo in pezzi piuttosto grandi di circa 90 grammi l'uno. C'è chi consiglia di disossare l'agnello e ritagliarlo in pezzi quadrati, ma più piccoli, grandi su per giù come gli ordinari pezzi da stufatino. Regolatevi come meglio credete. Tagliate ora in grossi dadi un ettogrammo di lardo e passateli un momento in una casseruolina contenente acqua in ebollizione, scolateli quasi subito e metteteli in una casseruola grande dove avrete già messo mezzo ettogrammo scarso di burro. Quando i dadi di lardo saranno leggermente coloriti tirateli su con una cucchiaia bucata e metteteli da parte. Mettete allora nella casseruola i pezzi di agnello che condirete con sale e pepe. Fate rosolare di bel colore l'agnello e quando sarà ben rosolato aggiungeteci una cipolla tritata e nuovamente i dadi di lardo. Aggiungete ancora 125 gr. di riso e mescolate con un cucchiaio di legno tenendo il tutto sul fuoco per circa cinque minuti. A questo punto bagnate il pilaf con tre quarti di litro di brodo, aggiungete due o tre pomodori senza pelli e senza semi o una cucchiaiata di salsa di pomodoro, una cucchiaiata di prezzemolo trito; coprite la casseruola e passatela in forno per una ventina di minuti affinchè il liquido possa asciugarsi e il riso cuocersi e conservare i suoi chicchi ben divisi. Travasate il pilaf nel piatto e fatelo servire caldissimo.
Per sei persone prendete un chilogrammo e mezzo di agnello (spalla e petto) e spezzatelo in pezzi piuttosto grandi di circa 90 grammi l'uno. C'è chi
È necessario rinunciare alla spalla e scegliere un bel coscetto o la parte della rognonata. L'abbacchio va privato delle ossa, o per lo meno, conviene togliergli tutte le ossa più grandi. E poi si taglia la carne in tanti pezzetti quadrati spessi circa un centimetro e della grandezza di una mezza carta da gioco, si condisce con sale e pepe e intanto si tagliano da uno sfilatino o meglio da un pane a cassetta raffermo tanti crostini per quanti sono i pezzi di abbacchio, più uno. Si prende poi uno spiede e s'incomincia con l'infilzare un crostino, una foglia di salvia, una fettolina di prosciutto, una foglia di salvia e un crostino. E così di seguito fino a completo esaurimento della carne. Allestito tutto lo spiede, si unge abbondantemente ogni cosa con olio o con burro o strutto liquefatto, e poi si mettono a cuocere i crostini per una ventina di minuti, girandoli ed ungendoli di quando in quando. Chi possiede il girarrosto semplificherà assai il suo lavoro; ma anche senza il girarrosto, potrà cavarsela ugualmente bene mettendo un po' di cenere sul camino, stendendo su questa della brace bene accesa e appoggiando lo spiede su due ferri da stiro messi diritti. Volendo ancora semplificare la cosa, invece di guarnire un lungo spiede coi crostini, potrete fare tanti spiedini di canna e cuocere i crostini al forno. Però in questo caso non otterrete un risultato così fine come cuocendo i crostini girati. Appena la carne sarà ben colorita e il pane sarà diventato croccante togliete i crostini dallo spiede e mandateli in tavola subito, poichè questa pietanza va mangiata appena fatta, senza attendere un solo minuto.
in quando. Chi possiede il girarrosto semplificherà assai il suo lavoro; ma anche senza il girarrosto, potrà cavarsela ugualmente bene mettendo un po
Il cinghiale è ottimo a patto che sia ben cucinato. Dopo averlo raschiato e fiammeggiato si risciacqua accuratamente, si asciuga in una salvietta e si mette sotto marinata, condizione quasi indispensabile per ottenere un risultato perfetto. Se il pezzo di cinghiale non è molto grosso si lascia intero, altrimenti si suddivide prima di fargli subire l'azione della marinata. Tanto per la marinata come per il modo di cottura riferitevi esattamente a quanto è stato detto per il «Coscetto di montone uso capriolo». Noi preferiamo ultimare il cinghiale con la salsa di ribes, la quale è anche descritta nella ricetta già nominata del coscetto di montone. Chi invece preferisce il cinghiale in agro dolce lo finisca con questa salsa, che si trova nello speciale capitolo. Completerete la salsa [immagine] agro dolce con un pugno di pinoli, qualche visciola secca disossata e con mezza cucchiaiata di corteccia d'arancio candita, ritagliata in filettini.
descritta nella ricetta già nominata del coscetto di montone. Chi invece preferisce il cinghiale in agro dolce lo finisca con questa salsa, che si trova nello
Il pollo alla Marengo appartiene alla cucina classica ed ha tutta una storia curiosissima, facendosi risalire la sua origine alla battaglia che Napoleone vinse a Marengo. Ed ecco come, secondo la leggenda, andarono le cose. Dopo la disfatta dell'esercito austriaco, Napoleone, adunati intorno a sè i generali vittoriosi, li invitò alla sua tavola, dando l'ordine di servire immediatamente. Per disgrazia i furgoni delle provviste erano andati a finire chi sa dove e Dunan, il cuoco di Napoleone, aveva a sua disposizione un bel nulla. Il povero uomo, non sapendo a che santo votarsi, inviò due uomini con l'ordine di portare tutto quello che avessero potuto trovare. Gli uomini partirono ed ebbero l'insperata fortuna di trovare nel recinto smantellato di una fattoria tre pollastrini, male in carne, i quali niente affatto preoccupati della lotta che si era svolta sul piano, andavano tranquillamente beccando vermi e sassolini. Per Dunan fu la salvezza. I tre polli catturati vennero immediatamente uccisi, spennati, tagliati in pezzi, e gettati in padella con un avanzo d'olio. Qualche goccia di cognac tolto da una borraccia serve per bagnarli, pochi pomodori raccolti a gran fatica e dell'aglio offrono il condimento. Ed ecco che pochi minuti appresso, Dunan, poteva far servire al suo impaziente padrone, il «pollo alla Marengo» che fu trovato squisito da Bonaparte e dai suoi convitati. Questa la leggenda. Adesso la ricetta, la quale, pur conservando gli antichi elementi caratteristici, è stata man mano riveduta e corretta. Fate in pezzi un pollo giovine e tenero. La regola vuole che si divida così: coscie ed avancoscie, ali, i due filetti, la parte superiore del petto, e la groppa divisa in due o tre pezzi, secondo la grandezza del pollo. Lavate questi pezzi, asciugateli in una salvietta, e metteteli in padella contenente dell'olio caldissimo. Qualunque altro grasso è escluso, essendo l'olio la caratteristica del pollo alla Marengo. Fate rosolare a fuoco forte, e appena i pezzi del petto saranno biondi, toglieteli, continuando a cuocere il resto dei pezzi. Quando il pollo sarà quasi cotto, scolate l'olio e aggiungete qualche pomodoro spellato, fatto a pezzi e privato dei semi, un bicchiere di vino bianco e due spicchi d'aglio schiacciati. Fate ridurre la salsa, aggiungendo, se ne avete disponibile, un po' di sugo di carne. In caso contrario fatene a meno. Rimettete nella padella i pezzi del petto, fate cuocere ancora un paio di minuti, e poi aggiustate il pollo in un piatto contornandolo con crostini di pane fritti e in forma di cuore, con qualche gambero cotto nel vino bianco e con delle uova fritte. Seminate sul pollo del prezzemolo trito e fatelo servire. È in facoltà di chi cucina arricchire il pollo alla Marengo con dei piccoli funghi e con delle fettine di tartufo, che si aggiungono al pollo a metà cottura.
finire chi sa dove e Dunan, il cuoco di Napoleone, aveva a sua disposizione un bel nulla. Il povero uomo, non sapendo a che santo votarsi, inviò due
Uno dei principali guai della milza è la pelle, che bisogna levare completamente, sotto pena di ottenere una pietanza immangiabile da gettar via senz'altro. La pelle si leva facilmente con un coltello; ad ogni modo chi non avesse pratica con questa operazione o non volesse sporcarsi le mani, la faccia fare dallo stesso macellaio.
'altro. La pelle si leva facilmente con un coltello; ad ogni modo chi non avesse pratica con questa operazione o non volesse sporcarsi le mani, la
Dopo aver spellato la milza, la si taglia in fette, e per eccesso di precauzione, si fanno su queste fette dei tagli in lungo e in largo in modo da sfibrare il più possibile la massa della milza. Fatto questo si mettono le fette in padella con un po' d'olio, uno spicchio d'aglio e una o due alici lavate, spinate e tritate. Si condisce con sale, pepe, e una foglia o due di salvia. Quando la milza avrà perduto il suo colore rossiccio, e sarà ben cotta, si accomoda in un piatto, togliendo via lo spicchio d'aglio. Anche la milza preparata così è buona. A chi piace il gusto dell'aceto potrà, prima di togliere la milza dalla padella, aggiungerne un dito. Otterrà così un intingoletto che lega anche assai bene con la milza.
cotta, si accomoda in un piatto, togliendo via lo spicchio d'aglio. Anche la milza preparata così è buona. A chi piace il gusto dell'aceto potrà, prima
Questa schiuma potrete mangiarla così o accompagnandola in diversi modi. Avere, in altre parole, un tema fondamentale e le sue variazioni. Esaminiamo qualcuna di queste... variazioni, procedendo dal facile al difficile. Voi dunque potrete presentare la schiuma di tonno come si trova, senza nessuna guarnizione; oppure: Accompagnarla con una salsiera di salsa maionese. Circondarla di spicchi d'uova sode. Circondarla con delle mezze uova sode, composte. Circondarla di fondi di carciofi ripieni di insalata russa in piccolissimi pezzettini. E finalmente farne una ricca pietanza in questo modo: piazzare la piccola schiuma di tonno nel mezzo, circondarla di uova composte, come si è detto più sopra, intramezzando ogni uovo con un ciuffetto di prezzemolo; tagliare poi in fettine rotonde la coda di una aragosta e disporre questi dischi intorno intorno sulla cupola della schiuma; preparare delle acciughe lavate, spinate e divise in due e con ogni filetto di alice fare un anello da piazzare sopra ogni fetta di aragosta. E finalmente in ogni anello porre una oliva verde farcita. In questo caso, come in tutti i precedenti, farete accompagnare la schiuma da una salsiera con salsa maionese. I piatti freddi sono quelli in cui maggiormente si rivela il buon gusto di chi li decora. Rammentatevi però che le decorazioni più eleganti sono le più sobrie. Se possedete dei piatti d'argento o di metallo bianco servitevene per le vivande fredde, che acquisteranno un maggior rilievo e una maggiore eleganza.
piatti freddi sono quelli in cui maggiormente si rivela il buon gusto di chi li decora. Rammentatevi però che le decorazioni più eleganti sono le più
Su questi carciofi c'è tutta una leggenda di difficoltà, assolutamente immaginarie, poichè non c' è forse una preparazione più semplice. Uno solo è il punto su cui si basa la riuscita: la quantità d'olio necessaria per friggere. Chi ha paura di mettere olio nella padella rinunzi a fare i carciofi «alla giudìa» in casa, e si accontenti di andarli a mangiare in uno dei tanti locali romani che la moda ha consacrato. I carciofi vengono mondati, leggermente battuti sulla tavola per allargarne un po' le foglie, spolverizzati di sale nell'interno, e messi in padella, col torsolo in alto, in modo che l'olio li ricopra quasi interamente. Man mano che cuociono si schiacciano leggermente, e se ce n'è bisogno, si voltano. Debbono diventare color d'oro scuro, e ben croccanti all'esterno. Come vedete, una cosa di una semplicità primordiale. Del resto la questione dell'olio è in gran parte apparente. Adoperando infatti una discreta quantità d'olio, questo non si brucierà come accade quando ce n'è troppo poco ma vi servirà per molte volte, permettendovi, a rigor di logica, di realizzare anzi una piccola economia.
il punto su cui si basa la riuscita: la quantità d'olio necessaria per friggere. Chi ha paura di mettere olio nella padella rinunzi a fare i carciofi
Private il carciofo di tutte le foglie, levate il fieno nell'interno, e aiutandovi con un coltellino tagliate il torsolo e tornite accuratamente il girello del carciofo che dovrà rimanere come una scodellina. Passate i girelli nell'acqua fresca acidulata con qualche goccia di sugo di limone e quando ne avrete preparati una quindicina gettateli nell'acqua bollente salata, e lasciateli bollire per tre minuti. Sgocciolateli, asciugateli delicatamente in una salvietta pulita e riempiteli col seguente composto che intanto avrete preparato. Tritate sul tagliere un paio di ettogrammi di petto di pollo o di tacchino lessato o arrostito (questo piatto potrete farlo, per esempio, quando vi è avanzato del pollo o del tacchino) e mettetelo poi in una terrinetta unendo tre cucchiaiate di salsa besciamella fredda, un rosso d'uovo, un po' di parmigiano grattato, sale, pepe e una puntina dì coltello di noce moscata, nonchè qualche dadino di prosciutto. Riempiti che siano i carciofi li passerete delicatamente nella farina, poi nell'uovo sbattuto, nel pane grattato, e quindi li friggerete avvertendo che giungano in tavola ben caldi. Nella ricetta è detto: petto di pollo o di tacchino. Non avendo nè l'uno nè l'altro si potrà adoperare del vitello o, nella peggiore delle ipotesi, del manzo arrostito: la pietanza rimarrà ugualmente buona. Spetta, naturalmente, al criterio di chi dirige di sapere qualche volta adattare la ricetta ai mezzi di cui si può disporre.
, naturalmente, al criterio di chi dirige di sapere qualche volta adattare la ricetta ai mezzi di cui si può disporre.
I piselli al prosciutto alla romana sono una vera leccornia, specie se si adopera il pisello degli orti romani che è tenerissimo e dolcissimo. E pure non tutti li sanno fare, chè spesso accade di veder cucinati questi piselli in modo addirittura cannibalesco. I piselli devono restare ben verdi, e questo si ottiene usando una buona qualità di pisello e portando la cottura velocemente. Mettete in una casseruola un bel pezzo di burro e una cucchiaiata di cipolla tritata finissima. Fate cuocere adagio adagio affinchè la cipolla cuccia senza colorirsi e poi mettete giù i piselli. Conditeli con sale e pepe e aggiungete qualche cucchiaiata di brodo o d'acqua. A questo punto portate la cottura a fuoco vivacissimo, mescolando di quando in quando. Con i piselli romaneschi in una diecina di minuti la cottura sarà completa. Qualche minuto prima aggiungete nei piselli un paio di cucchiaiate di prosciutto in piccole fettine. C'è chi mette il prosciutto in principio insieme con la cipolla. Secondo noi è cosa mal fatta perchè il prosciutto, volere o no, si sfrittola sempre un poco e non rimane morbido e gustoso come quando si mette quasi alla fine. Altri aggiungono ai piselli prima di versarli nel piatto, un pizzico di zucchero in polvere. Ma anche questa aggiunta è inutile perchè se il pisello è di qualità fine è già dolce di per sè e non ha bisogno di una ulteriore dolcificazione, che spesso può essere poco felice. Col sistema da noi descritto, e che è facilissimo, si è sicuri di conservare ai piselli tutto il loro profumo e il loro bel colore chiaro.
prosciutto in piccole fettine. C'è chi mette il prosciutto in principio insieme con la cipolla. Secondo noi è cosa mal fatta perchè il prosciutto, volere o
Uno dei modi migliori e più eleganti per preparare gli spinaci rimane sempre il budino, il quale può fare bella mostra di sè in qualunque menù. Molti credono che per fare il budino di spinaci bisogna ricorrere poco meno che alla scienza; ed infatti ci sono molte cuoche che elencano questo piatto tra le loro commendatizie, quasi si trattasse di superare difficoltà eccezionali. Niente di più falso, in quanto che preparare un buon budino di spinaci è affare da nulla. Mettete a lessare un mazzo di spinaci e cotto che sia rinfrescatelo in acqua fredda e poi spremetelo tra le mani per estrarne tutta l'acqua. Dosi esatte di spinaci non se ne possono dare, poichè i mazzi variano secondo il capriccio di chi li confeziona. Potrete tener presente che per un budino sufficiente a sei persone occorreranno due palle di spinaci, lessati e spremuti, grandi ognuna come una grossa arancia. Passate questi spinaci dal setaccio, oppure tritateli finemente sul tagliere. È preferibile però passarli dal setaccio, perchè si ottiene un risultato migliore. Mettete intanto in una casseruola la quarta parte di un panino di burro, e quando il burro sarà liquefatto, aggiungete due cucchiaiate di farina, fate cuocere un poco, mescolando, e poi bagnate con un bicchiere di latte. Sciogliete la salsa col mestolo e fatela addensare sul fuoco fino a che abbia acquistato una notevole consistenza. Togliete la casseruola dal fuoco, condite con sale, pepe e noce moscata, una cucchiaiata di parmigiano grattato, e poi mescolateci un uovo intiero e un rosso, sbattuti come per frittata. Aggiungete gli spinaci, passati o tritati, mescolate tutto in modo da amalgamare bene i vari ingredienti, sentite se il composto sta bene di sale, correggendo al bisogno, e poi versatelo in una stampa da budino della capacità di circa mezzo litro, stampa che avrete unto con burro, e poi infarinata. Ricordatevi dopo che avrete infarinata la stampa, di capovolgerla, e batterla leggermente sulla tavola per far cadere il superfluo della farina. Mettete il budino in una casseruola piuttosto grande con acqua calda, avvertendo che l'acqua giunga soltanto a un paio di dita sotto l'orlo della stampa e fate cuocere a bagnomaria per circa un'ora, per dar modo al budino di rassodarsi.
tutta l'acqua. Dosi esatte di spinaci non se ne possono dare, poichè i mazzi variano secondo il capriccio di chi li confeziona. Potrete tener presente che
Dopo aver lessato un mazzo di spinaci si passano nell'acqua fresca per conservarli ben verdi, si scolano e si spremono bene. Poi si tritano sul tagliere e si insaporiscono in una padellina con un pochino di burro — circa mezzo ettogrammo — sale, un pochino di noce moscata e due o tre alici, lavate, spinate e tagliate in pezzettini. Chi non amasse il gusto dell'acciuga ne faccia a meno. Quando gli spinaci saranno insaporiti ed asciutti (è necessario tenere il fuoco piuttosto vivo) travasateli in un piatto e lasciateli freddare.
, spinate e tagliate in pezzettini. Chi non amasse il gusto dell'acciuga ne faccia a meno. Quando gli spinaci saranno insaporiti ed asciutti (è
La pasta frolla senza uova? Sicuro; e così fine e squisita, che quando ne avrete imparata la facilissima esecuzione, non vorrete più saperne della pasta frolla comune. Eccone le dosi: Due cucchiai colmi di farina — due cucchiai di farina di patate — quattro cucchiaini da caffè colmi di zucchero al velo — un ettogrammo molto scarso di burro — un po' di buccia di limone raschiata. Ossia, per chi desiderasse la ricetta in grammi: farina grammi 60 — fecola grammi 60 — zucchero grammi 35 — burro grammi 80. Impastate prima il burro con lo zucchero e il profumo di limone, servendovi un po' delle mani e un po' di una larga lama di coltello; e poi aggiungete le due farine che avrete precedentemente mescolate insieme. In principio, specie in inverno, vi sembrerà che la pasta tenda e sgretolarsi: ma, pian piano, continuando ad unire con cura i vari ingredienti, otterrete un impasto perfetto. Di questa pasta frolla senza uovo vi servirete per tutti gli usi della pasta frolla comune.
velo — un ettogrammo molto scarso di burro — un po' di buccia di limone raschiata. Ossia, per chi desiderasse la ricetta in grammi: farina grammi 60
Quasi tutte le abbonate alla nostra rivista «Preziosa» seguono oramai senza esitazioni questo sistema, ed anche le più timorose alle quali mostrammo praticamente l'innocuità del procedimento, si sono convertite... alla prova del fuoco. Chi poi proprio non volesse tentare l'esperimento, prenda un pochino di zucchero con uno stecchino bagnato e lo trasporti nell'acqua fredda, provando poi la cottura con le dita e questa volta senza timori e senza esitazioni. Però il primo metodo è sempre preferibile perchè permette di accertarsi meglio del punto di cottura a cui lo zucchero è giunto.
praticamente l'innocuità del procedimento, si sono convertite... alla prova del fuoco. Chi poi proprio non volesse tentare l'esperimento, prenda un
Fate lessare una patata di media grandezza — come un grosso uovo o una mela — e mentre è ancora calda sbucciatela e schiacciatela accuratamente, badando che non rimangano pezzettini non schiacciati, che nuocerebbero alla buona riuscita dei biscotti. Impastate questa patata con due cucchiaiate colme di farina, una presina di sale e un po' meno di mezzo panino di burro. Nell'impasto non deve entrare acqua. Chi ha a sua disposizione una bilancia, calcoli tanta farina per quanto è il peso della patata, aggiungendo poi un peso leggermente inferiore di burro. Questa norma potrà servirvi anche nel caso voleste farne dosi più grandi. Ottenuto l'impasto fatene tanti grissini, avvertendo di farli sottilissimi, che vi riusciranno allora più gustosi e croccanti. Metteteli in forno per circa un quarto d'ora, e sfornateli quando avranno preso una leggera colorazione bionda. Volendo, si possono dorare questi grissini prima di metterli in forno, passandoci su, con un pennello, dell'uovo sbattuto.
di farina, una presina di sale e un po' meno di mezzo panino di burro. Nell'impasto non deve entrare acqua. Chi ha a sua disposizione una bilancia
Questi biscotti, che hanno nella pasticceria tante utili applicazioni, sono in particolar modo adatti per i bambini. Per una quindicina di savoiardi occorrono le seguenti proporzioni: zucchero in polvere gr. 40, farina gr. 20, farina di patate gr. 20, uova n. 2, un pizzico di sale. E per chi non avesse la bilancia: un paio di cucchiaiate di zucchero, un cucchiaio di farina, uno di fecola, avvertendo che queste cucchiaiate non siano troppo colme. Separate i bianchi dai rossi. I bianchi li metterete da parte, i rossi li passerete in una terrinetta con lo zucchero in polvere. Non occorre lavorarli molto, basteranno tre o quattro minuti: il tempo cioè di ben mescolare zucchero ed uova. Unite allora al composto le due farine, e lasciate riposare. Fatto ciò, montate le chiare in neve, servendovi di una frusta in ferro stagnato; ma guardate che le chiare sieno sostenutissime, perchè è da questo che dipende la buona riuscita dei biscotti. Quindi non vi stancate di sbattere. Quando le chiare saranno montate unitele delicatamente ai rossi, servendovi di un cucchiaio di legno e sollevando il composto affinchè i bianchi non si sciupino troppo. Prendete due fogli di carta spessa; ungete leggermente di burro l'uno, e fate un cartoccio con l'altro. Mettete il composto nel cartoccio, chiudete questo e spuntatene l'estremità in modo da lasciare un'apertura di un centimetro di diametro. Premendo delicatamente sulla sommità del cartoccio, fate uscire sul foglio di carta unto, tanti bastoncini grossi come un dito e lunghi una diecina di centimetri, facendo attenzione di non farli troppo vicini uno all'altro. Quando avrete esaurito la pasta mettete il foglio di carta sopra una teglia e spolverizzate i biscotti con zucchero al velo. Lo zucchero dovrà essere messo sui biscotti o con uno spolverizzatore, o facendolo cadere da un setaccino.
occorrono le seguenti proporzioni: zucchero in polvere gr. 40, farina gr. 20, farina di patate gr. 20, uova n. 2, un pizzico di sale. E per chi non
Per fare questi zuccherini sarebbe necessario uno speciale polsonetto con becco acuminato; ma chi non deve produrne una gran quantità può utilizzare qualsiasi casseruolina, purchè ben netta. Mettete dunque in un piccolo recipiente sei cucchiaiate di zucchero in polvere, e una cucchiaiata o due di acqua. Mescolate e fate scaldare su fuoco moderato in modo che lo zucchero non debba liquefarsi completamente ma diventare appena colante. Levate allora la casseruolina dal fuoco, mettete nello zucchero tre o quattro goccie di essenza di menta, mischiate, e servendovi di un cucchiaio da tavola fate cadere sul marmo del tavolo di cucina, bene asciutto, lo zucchero a goccie regolari della grandezza di due centesimi. Quando, dopo qualche ora, queste pastiglie si saranno solidificate, staccatele con garbo con una lama di coltello, e serbatele in una scatola di latta chiusa e in luogo asciutto. Questi zuccherini possono aromatizzarsi con qualche altra essenza, e colorirsi con colori innocui da pasticceria.
Per fare questi zuccherini sarebbe necessario uno speciale polsonetto con becco acuminato; ma chi non deve produrne una gran quantità può utilizzare
Mettete in un polsonetto non stagnato o in un tegame di terraglia 150 grammi di ciliege alle quali avrete tolto il nocciolo. Per chi non ricordasse come si fa a snocciolare le ciliege, ne indichiamo il facilissimo procedimento. Si prende un piccolo utensile apposito o, più semplicemente, una piccola forcella di ferro, da capelli, e se
Mettete in un polsonetto non stagnato o in un tegame di terraglia 150 grammi di ciliege alle quali avrete tolto il nocciolo. Per chi non ricordasse
Da un pane a cassetta raffermo, si tagliano delle fette di pane dello spessore di un centimetro, alle quali si potrà dare una forma quadrata o rettangolare, a piacere. Si mettono queste fette allineate in un piatto grande e si spruzzano di latte freddo nel quale si sarà sciolto un cucchiaino di zucchero e si sarà raschiata un po' di buccia di limone. Per sei persone potrete calcolare una dozzina di fette di pane, e mezzo bicchiere di latte. Sbattete uno o più uova — a seconda del numero delle fette di pane — come se doveste fare una frittata, e poi gettatele sul pane. Lasciate star così circa un'ora affinchè il pane possa ben impregnarsi d'uovo; poi prendete una fetta di pane alla volta, e badando di non romperle, friggetele nello strutto ben caldo finchè abbiano preso un bel color d'oro da ambo le parti. Queste «croûtes dorées», che possono anche mangiarsi così, spolverizzate da zucchero vainigliato, servono inoltre come base a diversi dolci composti. Infatti voi potrete disporre le fette di pane fritte in corona in un patto e ricoprirle, sia con marmellata calda, sia con zabaione, sia con una composta calda di frutta. La fantasia di chi cucina potrà sbizzarrirsi in più modi, tenendo anche calcolo delle risorse della dispensa. Per la marmellata calda non occorre che prenderne un paio di cucchiaiate, diluirla con un pochino d'acqua e versarla sulle fette di pane.
ricoprirle, sia con marmellata calda, sia con zabaione, sia con una composta calda di frutta. La fantasia di chi cucina potrà sbizzarrirsi in più modi
Parecchi sono i sistemi per fare lo zabaione, ma il miglior metodo, purchè trattisi di piccole quantità, è sempre quello antico, del frullo di legno. Prendete un «bagnomaria per salse», o, in mancanza di questo, un secchietto comune da latte, e per ogni rosso d'uovo metteteci un cucchiaio di zucchero e due di marsala o di vino bianco. Dovendo fare uno zabaione col frullino è consigliabile di non fare più di tre o quattro rossi d'uovo alla volta. Per maggiori quantità è meglio adoperare una frusta in fil di ferro. Si mette il recipiente in un altro recipiente più grande che contenga acqua calda. Si porta ogni cosa sul fuoco e girando il frullino fra le mani s'incomincia a lavorare lo zabaione. Per l'azione del fuoco e del frullo, l'uovo diventa dapprima spumoso, poi monta e finalmente si rapprende in una massa soffice e leggera. Non avendo il frullino potrete servirvi di una piccola frusta di fil di ferro. In questo caso è necessario lavorare in un recipiente più largo, ma sempre immerso nell'acqua calda. C'è chi fa anche lo zabaione a fuoco nudo, lavorandolo direttamente sulla brace, ma il bagnomaria è preferibile. Lo zabaione può essere aromatizzato con vainiglia, liquori forti, corteccia di arancio e di limone grattate, ecc.
frusta di fil di ferro. In questo caso è necessario lavorare in un recipiente più largo, ma sempre immerso nell'acqua calda. C'è chi fa anche lo zabaione
Mettete in una casseruola 100 grammi di farina di prima qualità, 50 grammi di burro e 50 di zucchero. Aggiungete la raschiatura di un limone e una presina piccolissima di sale. Sciogliete il tutto con un quarto di litro di latte. Mettete la casseruola sul fuoco e, sempre mescolando, fate che il composto si addensi e divenga liscio e vellutato come una crema. A questo punto togliete la casseruola dal fuoco e unite altri 50 grammi di burro, 50 grammi di zucchero, e poi, uno alla volta, 5 rossi d'uovo, mescolando sempre e non aggiungendo un altro uovo se il primo non si è bene unito alla massa. Mescolate con delicatezza, poichè si tratta soltanto di unire bene tutti gli ingredienti e non di ottenere un composto lavorato che abbia poi a crescere, sul tipo delle bignè. Quando ogni cosa sarà unita sbattete in neve ben ferma le 5 chiare d'uovo rimaste e procedendo con grande delicatezza unitele al composto. Mettete adesso in un polsonetto 100 grammi di zucchero in polvere, e fatelo fondere, senza aggiunta di acqua, su fuoco moderato fino a che abbia preso un bel colore d'oro. Avrete pronta una stampa da budino a pareti liscie e senza buco in mezzo, che terrete vicino al fuoco per stiepidirla. Quando lo zucchero sarà pronto versatelo nella stampa e girando questa in tutti i versi fate che lo zucchero possa aderire su tutta la parete interna della stampa. Consigliamo appunto di tenere la stampa tiepida per facilitare questa operazione, poichè se la stampa fosse fredda lo zucchero tenderebbe a rapprendersi subito rendendo l'operazione più difficile. Lasciate raffreddare lo strato di zucchero e poi versate nella stampa il composto preparato. Battete leggermente la stampa su uno strofinaccio affinchè non abbiano a rimanere vuoti, e poi mettete a cuocere il pudding a bagno-maria per circa un'ora, avvertendo che l'acqua del bagnomaria non levi mai un bollore dichiarato. Sarà bene, per assicurare sempre meglio la riuscita, di coprire la stampa con un coperchio e di mettere su questo un po' di brace. Il composto non dovrà occupare tutta la stampa, ma rimanere circa a due terzi. Quando il pudding sarà rassodato togliete la stampa dall'acqua, lasciate riposare quattro o cinque minuti vicino al fuoco, e poi sformate il vostro dolce sul piatto di servizio. Lo zucchero caramellato, fondendosi, avrà avviluppato il dolce di una attraente vernice brunastra, costituendo inoltre una squisita e bene appropriata salsa. Chi non volesse caramellare la stampa potrà semplicemente accontentarsi di imburrarla.
squisita e bene appropriata salsa. Chi non volesse caramellare la stampa potrà semplicemente accontentarsi di imburrarla.
E conserviamogli pure il nome francese, anzichè tradurlo orribilmente, come taluni fanno, con «bianco mangiare». Del resto, per chi ci tenesse, il nome italiano potrebbe essere «latte di mandorle rappreso». Ma «bianco mangiare», proprio no!
E conserviamogli pure il nome francese, anzichè tradurlo orribilmente, come taluni fanno, con «bianco mangiare». Del resto, per chi ci tenesse, il
Per un buon gelato di crema seguite queste proporzioni modificandole a seconda della capacità della vostra macchinetta. Latte litri uno, zucchero gr. 300, rossi d'uovo n. 10, profumo di vainiglia o di limone. Si sbattono in una casseruola ben netta i rossi d'uovo con lo zucchero e quando sono montati vi si unisce a poco a poco il latte bollente, nel quale si sarà tenuta in infusione una mezza stecca di vainiglia, o una sottile corteccia di limone. Non c'è bisogno di dire che, tanto l'uria che [immagine e didascalia: Macchinetta da gelato tipo per famiglia.] l'altra vanno tolte al momento della manipolazione. Rimettete la crema sul fuoco, sempre mescolando con un cucchiaio di legno e quando vedrete che è leggermente addensata e vela il cucchiaio, travasatela in una terrinetta attendendo che si freddi, e mescolandola di quando in quando, per impedirle di fare la pellicola superficiale. Condizione essenziale è che il composto non debba bollire. È anche buona pratica, dopo aver cotto la crema, di passarla da un setaccino. Mettete poi questa crema nella macchinetta, circondatela di ghiaccio pesto e gelatela nel modo che si disse più sopra. Avrete così un gelato da servire in bicchieri a forma di coppa e che si chiama «mantecato». Il mantecato si può facilmente ridurre in pezzo duro. Basterà provvedersi di una forma grande o di qualche formetta piccola, per operare senza troppa fatica la trasformazione. Le forme più adatte per questo genere di lavoro sono costituite da un cerchio sul quale vanno a incastrarsi due coperchi, uno sopra e uno sotto. Queste stampe possono essere di rame stagnato o anche di ferro stagnato, e sono in vendita in tutti i negozi di articoli di cucina. Ottenuto dunque il mantecato, foderate di carta la stampa grande o le stampine, riempite sollecitamente col mantecato, pareggiate la superficie, coprite con un foglietto di carta e finite calcando il coperchio. Mettete sotto ghiaccio per un'ora, poi aprite la stampina e sformate il gelato. Il ghiaccio dev'essere ridotto in piccolissimi pezzi e mescolato al sale in queste proporzioni: per ogni chilo di ghiaccio, 150 grammi di sale grosso. C'è anche chi consiglia di aggiungere una piccola dose di salnitro, ma il sale è già sufficiente per avere un efficace miscuglio frigorifero. I gelatieri usano uno speciale sale molto economico detto sale pastorizio; ma questo sale viene venduto dai depositi governativi soltanto in grandi quantità.
di ghiaccio, 150 grammi di sale grosso. C'è anche chi consiglia di aggiungere una piccola dose di salnitro, ma il sale è già sufficiente per avere un
Questo genere di gelato è suscettibile di infinite variazioni, che si lasciano al buon gusto di chi prepara il gelato. Per esempio potrete arricchire il gelato con frutta sciroppate, con canditi, servendovi di questi come decorazione, e completando la coppa con eventuali altre decorazioni di panna montata. Ecco alcuni tipi di coppe gelate.
Questo genere di gelato è suscettibile di infinite variazioni, che si lasciano al buon gusto di chi prepara il gelato. Per esempio potrete arricchire
(Procedimento semplificato). Il procedimento esposto più sopra è quello che potrebbe dirsi classico. Ma per chi desiderasse di semplificare le cose, ecco un piccolo segreto per ottenere rapidamente e facilissimamente le scorzette d'arancio candite. Tagliate la corteccia degli aranci in spicchi, mettete questi spicchi in un recipiente piuttosto capace e teneteli per almeno due giorni in acqua corrente, oppure rinnovate l'acqua il più spesso che vi sarà possibile. Questo bagno serve per far perdere alle cortecce il loro gusto amarognolo. Compiuta questa prima operazione, gettate le cortecce in una pentola o in una casseruola con abbondante acqua in ebollizione, e lasciate cuocere per un quarto d'ora abbondante, fino a quando, cioè, le cortecce potranno essere facilmente trapassate da uno stecchino. Estraetele allora dall'acqua, lasciatele freddare, e poi con un coltellino tagliente dividete ogni spicchio in tante listelline di circa mezzo centimetro. Pesate queste listelline a prendete un eguale peso di zucchero. Mettete lo zucchero in un polsonetto, bagnatelo con un dito d'acqua — tanto da inumidirlo e renderlo una pasta appena colante — aggiungete le scorzette ritagliate e mettete sul fuoco. Lasciate cuocere mescolando piuttosto spesso e quando lo zucchero sarà quasi tutto assorbito e ridotto a poco sciroppo molto denso rovesciate le scorzette sul marmo, staccatele delicatamente l'una dall'altra e lasciatele freddare. Queste scorzette candite sono una cosa veramente buona, e non solo potranno venire usate per tutti gli usi di pasticceria, ma potranno anche essere servite come petits-fours, completando assai simpaticamente un vassoio di pasticceria leggera da tè. È bene non spingere la cottura fino a completo assorbimento dello zucchero, che in questo caso le scorzette raffreddandosi diventano piuttosto dure. Tenete conto di questa raccomandazione specialmente se dovrete servirvi delle scorzette candite per usi di pasticceria. In questo caso le scorzette subiscono una seconda cottura nel forno e, se già cotte troppo, perderebbero necessariamente quella morbidezza che è caratteristica delle frutta candite.
(Procedimento semplificato). Il procedimento esposto più sopra è quello che potrebbe dirsi classico. Ma per chi desiderasse di semplificare le cose
Avendo abbondanza di frutta noi vi consigliamo di fare qualche bottiglia di polpa di albicocca, utilissima specie a chi ha dei bambini. Queste bottiglie si conservano lungamente, e sono veramente preziose per fare durante tutto l'anno marmellate o gelati. Passate dal setaccio la polpa cruda delle albicocche, e travasatela in bottiglie da Champagne ben nette, sterilizzate con un pochino d'alcool di buona qualità. Riempitele fino al principio del collo lasciando un vuoto di almeno quattro dita, tappatele, possibilmente con la macchinetta, e legatele solidamente in croce. Involtatele poi con paglia, o carta, o qualche strofinaccio, mettetele diritte in un caldaio e in questo versate dell'acqua fredda, che dovrà arrivare fino al collo delle bottiglie. Portate dolcemente l'acqua all'ebollizione, fate bollire le bottiglie per un'ora e lasciatele raffreddare nella stessa acqua. Poi estraetele dal caldaio, chiudetele con la ceralacca e tenetele in un luogo fresco. Quando durante l'inverno avrete bisogno di un po' di marmellata non avrete da fare altro che aprire una bottiglia, pesare la polpa, mettere altrettanto zucchero e cuocere. Se poi desiderate fare un ottimo gelato di frutta vi servirete ugualmente di questa polpa. Invece di far bollire le bottiglie — operazione abbastanza lunga — si può passare la polpa a crudo, e per ogni chilogrammo di essa unire un grammo di acido salicilico. Mescolare, mettere in bottiglie, chiudere semplicemente con un tappo di sughero e conservare in dispensa. In un modo o nell'altro, potrete conservare in bottiglia oltre le albicocche, le pesche, le fragole, il ribes, ecc.
Avendo abbondanza di frutta noi vi consigliamo di fare qualche bottiglia di polpa di albicocca, utilissima specie a chi ha dei bambini. Queste
I frutti rossi, come le marasche, il ribes, le fragole non debbono mai essere in contatto nè con lo stagno nè con la latta, e queste confetture vanno cotte in recipienti di rame non stagnati. Chi non possiede questi recipienti usi un tegame di terracotta, ma che non sappia di grasso o di sughi, sotto pena di comunicare un sapore nauseabondo alla confettura. Per fare questa confettura è necessario scegliere una qualità di visciole scure e molto succose. Si toglie loro prima il gambo e poi il nocciolo con l'apposito utensile, o, più semplicemente, con una piccola forcella di ferro da capelli, le cui punte si fanno entrare in un turacciolo di sughero, che viene a diventare così il manico dell'utensile. Immergete l'estremità ricurva della forcella nella viscida, dalla parte ove era il gambo, e con un leggero movimento della mano fate saltare l'osso. Quando avrete disossato tutte le visciole pesatele e per ogni chilogrammo di frutta peserete dai 700 ai 750 grammi di zucchero. Mettete lo zucchero nel tegame, versateci un bicchiere d'acqua, fatelo sciogliere, e poi mettetelo al fuoco e lasciatelo bollire per tre o quattro minuti schiumandolo accuratamente. Gettate allora nel tegame le viscide, e conducete la cottura a fuoco piuttosto vivace, specie se disporrete di un recipiente di rame. Schiumate la confettura e mescolatela, e quando vedrete che le visciole si saranno aggrinzite, e lo sciroppo vela il cucchiaio, togliete la confettura dal fuoco e lasciatela freddare. Quando sarà ben fredda, riempitene dei vasetti di vetro, chiudeteli e conservateli. Nello stesso modo si può fare la confettura di ciliege, la quale però non riesce così profumata come quella di visciole.
cotte in recipienti di rame non stagnati. Chi non possiede questi recipienti usi un tegame di terracotta, ma che non sappia di grasso o di sughi
Anche per questa conserva non bisogna, adoperare recipienti stagnati poichè le more, come tutti i frutti rossi, anneriscono a contatto dello stagno. Le more si sciacquano in acqua fresca e poi si mettono sul fuoco con un bicchiere d'acqua per ogni chilogrammo di frutta. Si lasciano così bollire per un quarto d'ora mescolandole e schiacciandole con un cucchiaio di legno, e poi si rovesciano su un setaccio e si passano, raccogliendo il sugo in una terrinetta. Il setaccio dovrà essere di crine e non di ferro, che anche questo danneggerebbe il colore della conserva. Chi non avesse il setaccio adattato, versi le more in uno strofinaccio di bucato, ve le arrotoli, e poi, facendosi aiutare da un'altra persona, torca fortemente lo strofinaccio alle sue due estremità, in modo da estrarre tutto il sugo. È necessario, in questo caso, di adoperare uno strofinaccio vecchio perchè difficilmente la macchia prodotta dalle more andrà via, anche col bucato. Pesate il sugo ottenuto, e per ogni chilo di esso calcolate 800 grammi di zucchero. Mettete zucchero e sugo nel caldaio non stagnato o nel recipiente di terraglia e fate bollire, schiumando accuratamente la conserva. Quando questa, dopo pochi minuti di bollore, si sarà addensata così da velare il cucchiaio e da ricadere in goccie lente e pesanti, la conserva sarà fatta. Lasciate che perda un po' del suo calore e poi colatela nei vasetti di vetro lasciandola raffreddare completamente. L'indomani mettete su ogni vasetto, a contatto con la conserva, un disco di carta bagnato d'alcool di buona qualità, e poi chiudete i vasi col loro coperchio e con carta pergamena legata solidamente.
terrinetta. Il setaccio dovrà essere di crine e non di ferro, che anche questo danneggerebbe il colore della conserva. Chi non avesse il setaccio
Versate queste droghe in una grossa bottiglia in cui avrete messo alcool a 90 grammi 600 e acqua grammi 350. Quest'aggiunta d'acqua è necessaria perche l' alcool dell'infusione deve avere soltanto 60°. Aggiugete e inoltre mezza stecca di vainiglia tagliata in pezzettini. Chiudete la bottiglia e agitate bene la miscela, lasciate così l'infusione per quindici giorni, agitando ogni giorno energicamente la bottiglia. Dopo questo tempo mettete in una terrina 600 grammi di zucchero con mezzo litro d'acqua, e quando lo zucchero sarà completamente sciolto aggiungetelo nell'alcool. Mescolate, lasciate in riposo per una giornata, poi, per mezzo dell'imbuto di vetro e un cono di carta da filtro, filtrate il vostro liquore al quale unirete infine un decilitro d'acqua di rose. Il macis per chi non lo sapesse è l'involucro della noce moscata ed ha lo stesso profumo di questa, ma più delicato. La cocciniglia costituisce la parte colorante; il cardamomo è una droga esotica formata come di tanti grossi pinoli nei quali sono dei semi bruni aromaticissimi. Di questi granelli potrete adoperarne circa una diecina.
decilitro d'acqua di rose. Il macis per chi non lo sapesse è l'involucro della noce moscata ed ha lo stesso profumo di questa, ma più delicato. La
Punch è parola derivante dall'indiano «panch», ossia cinque, per allusione ai cinque elementi che compongono questa bevanda: tè, zucchero, cannella, limone, rhum. Il punch è presentemente una bevanda nella quale entra un po' di tutto: rhum, alchermes, cognac, arac, cannella, garofani, coriandoli, limone, arancio, tè e chi più ne ha ne metta. C'è il punch forte dove predominano il rhum o l'arac, e il punch dolce in cui invece si abbonda in alchermes. Generalmente al punch si aggiunge del tè, e questa consuetudine ci pare apprezzabile, tenuto conto anche dell'origine della bevanda, in cui il tè figura tra gli elementi costitutivi. Per preparare il punch si mettono in una tazza di metallo o in una terrinetta tante cucchiaiate di rhum per quanti sono gli ospiti; s'inzucchera il rhum, secondo si desidera più o meno dolce, e si unisce la buccia sottilmente tagliata di un limone o di un arancio. Questa infusione si distribuisce poi nei bicchieri speciali, completando la bevanda con tè o acqua bollente. Molti amano dar fuoco al punch, nel qual caso si rende necessaria la tazza di metallo. Non volendo dar fuoco al punch si può preparare direttamente nei bicchieri, aggiungendo, secondo i casi, qualche pezzettino di cannella dell'alchermes, ecc.
, limone, arancio, tè e chi più ne ha ne metta. C'è il punch forte dove predominano il rhum o l'arac, e il punch dolce in cui invece si abbonda in
Si versa poi in ogni scatola una soluzione ottenuta facendo bollire dell'acqua con sale e zucchero in queste proporzioni: acqua litri uno, sale grammi 20 e zucchero grammi 20, cioè un cucchiaio scarso da tavola di sale e di zucchero. Aumentate la quantità di questo bagno secondo il numero delle scatole e distribuitelo in esse per mezzo di un ramaiolo. Questa soluzione va messa nelle scatole quando è completamente fredda. Fate stagnare le scatole dallo stagnaio, mettetele in un caldaio pieno di acqua fredda, e quando l'acqua bollirà, contate una mezz'ora di ebollizione, trascorsa la quale, togliete il caldaio dal fuoco, aspettate che le scatole si siano freddate nell'acqua, tiratele su, asciugatele bene e riponetele in luogo fresco. Giova avvertire che i piselli, così preparati, perdono un po' del loro colore e risultano piuttosto giallognoli. È per questo che nelle grandi case si pratica il così detto rinverdimento. Il processo è identico a quello già descritto, solamente si fanno cuocere i piselli in una soluzione molto diluita di solfato di rame, che in piccola quantità è, come sapete, permesso dai regolamenti sanitari. Noi non sapremmo consigliarvelo troppo. Ad ogni modo per chi volesse praticare questa conservazione, insegnamo il modo di eseguirla. Dopo sbucciati e scelti i piselli si pesano; e per ogni cinque chilogrammi di piselli si mettono sul fuoco cinque litri di acqua. Appena l'acqua bollirà vi si gettano i piselli, e dopo il primo bollore si aggiunge nel caldaio una soluzione ottenuta, sciogliendo in un dito d'acqua (50 grammi) grammi 5 di solfato di rame. Mescolate con un cucchiaio di legno e, trascorsi i minuti stabiliti per la cottura, gettate i piselli nell'acqua fresca, risciacquandoli accuratamente, passandoli poi per un po' di tempo — una mezz'ora — ad acqua corrente, affinchè ogni traccia di solfato di rame, non combinato col pisello, possa venire eliminata. I piselli riacquistano il loro verde primitivo. Il resto dell'operazione è in tutto simile a quella descritta più sopra.
chi volesse praticare questa conservazione, insegnamo il modo di eseguirla. Dopo sbucciati e scelti i piselli si pesano; e per ogni cinque chilogrammi
Si mette un solo piatto, a sinistra del quale si disporranno la forchetta, e la forchetta speciale per il pesce; e a destra il coltello, il coltello del pesce e il cucchiaio. Col procedere del servizio le posate che non servono più vengono tolte, e le altre cambiate a ogni vivanda. C'è chi usa mettere in tavola fin dal principio il coltello e la forchettina per il «dessert», disponendoli orrizzantalmente tra il piatto e i bicchieri. Ma è un ingombro inutile, ed è molto meglio portarli solo al momento opportuno. Per i bicchieri seguite la disposizione della nostra figura, nella quale abbiamo tracciato anche delle linee di guida. Sul bicchiere da acqua si posa il segnaposto col nome del convitato. Il bicchiere per il vino del Reno o per il vino bianco secco, che si servirà col pesce, è generalmente colorato in verde o in rosa (n. 11) e mette una nota simpatica nella uniforme limpidità dell'altra cristalleria. Il bicchierino del liquore si porta in tavola in ultimo, quando si serve il caffè. Alla destra di ciascun convitato si può mettere il «menu».
del pesce e il cucchiaio. Col procedere del servizio le posate che non servono più vengono tolte, e le altre cambiate a ogni vivanda. C'è chi usa
Se a mensa sono invitati solamente degli ospiti di sesso maschile, chi serve a tavola presenterà per tutta la durata del pranzo sempre per primo il piatto alla padrona di casa, servendo man mano gli altri ospiti, incominciando dal più ragguardevole, che siederà alla destra della padrona di casa, e lasciando per ultimo il padrone di casa. Maggiore oculatezza occorre quando insieme agli uomini siedono a mensa delle signore. In questo caso se tra queste signore ce n'è una che per condizione sociale, o nobiltà o età avanzata sia nettamente al di sopra delle altre, sarà sempre da costei che incomincerà il servizio, il quale passerà poi alla padrona di casa e alle altre signore, per seguitare cogli uomini e finire al padrone di casa. Se però le signore sono, come generalmente accade, tutte di eguale condizione sociale, la cameriera incomincerà ogni volta da una signora differente, servirà subito dopo la padrona di casa e passerà quindi a servire le altre signore. Ultimi verranno gli uomini e quindi il padrone di casa. Rammentiamo che una volta serviti si deve incominciare subito a mangiare, senza attendere che siano serviti gli altri. La regola dell'antico galateo è stata dunque completamente abolita dal galateo moderno, e questo sistema, che potrà sembrare discutibile, è stato invece accettato affinchè gli ospiti possano gustare le vivande calde e quindi nel miglior modo che possa mettere in rilievo i loro pregi.
Se a mensa sono invitati solamente degli ospiti di sesso maschile, chi serve a tavola presenterà per tutta la durata del pranzo sempre per primo il