Eccovi un altro dolce di Tedescheria e come buono! Ne vidi uno che era fattura della prima pasticceria di Trieste, lo assaggiai e mi piacque. Chiestane la ricetta la misi alla prova e riuscì perfettamente, quindi mentre ve lo descrivo, mi dichiaro gratissimo alla gentilezza di chi mi fece questo favore.
Distendete sulla medesima il ripieno e fatene un rocchio a guisa di salsicciotto tirando la sfoglia sugli orli per congiungerla. Dategli la circonferenza di 10 centimetri circa, schiacciatelo alquanto o lasciatelo tondo, ponetelo entro a una teglia di rame unta col burro avvolto intorno a sè stesso come farebbe la serpe; però non troppo serrato. Infine, con un pennello, spalmatelo con un composto liquido di burro sciolto e un rosso d'uovo.
Intridete il lievito col latte tiepido e un pugno della detta farina per formare un piccolo pane piuttosto sodo; fategli un taglio in croce e ponetelo in una cazzarolina con un velo di latte sotto, coperta e vicina al fuoco, badando che questo non la scaldi troppo.
Quando sarà ben cresciuto da arrivare alla bocca del vaso mettetelo in forno a calore non troppo ardente, sformatelo diaccio, spolverizzatelo di zucchero a velo e se credete (questo è à piacere) annaffiatelo col rhum.
Lasciate indietro le mandorle e i pinoli per aggiungerli dopo ed intridete il tutto con quattro uova, essendo così sempre in tempo di servirvi del quinto, se occorre per formare una pasta alquanto morbida. Fatene quattro pani della grossezza di un dito e larghi quanto una mano: collocateli in una teglia unta col burro e infarinata e dorateli sopra.
Per questi biscotti bisognerebbe vi faceste fare una cassettina di latta larga 10 centimetri e lunga poco meno del diametro del vostro forno di campagna per potervi entrare, se siete costretti di servirvi di esso e non del forno comune. Così i biscotti avranno il cantuccio dalle due parti e, tagliati larghi un centimetro e mezzo, saranno giusti di proporzione.
Avendo un giorno, il mio povero amico Antonio Mattei di Prato (del quale avrò occasione di riparlare), mangiata in casa mia questa pasta ne volle la ricetta, e subito, da quell'uomo industrioso ch'egli era, portandola a un grado maggiore di perfezione e riducendola finissima, la mise in vendita nella sua bottega. Mi raccontava poi essere stato tale l'incontro di questo dolce che quasi non si faceva pranzo per quelle campagne che non gli fosse ordinato. Così la gente volenterosa di aprirsi una via nel mondo coglie a volo qualunque occasione per tentar la fortuna la quale benchè dispensi talvolta i suoi favori a capriccio non si mostra però mai amica agl'infingardi e ai poltroni.
Vi descrivo la Torta ricciolina in due maniere con due ricette distinte perchè la prima avendola fatta fare, me presente, da un cuoco di professione, pensai di modificarla in modo che riescisse più gentile di aspetto e di gusto più delicato.
Distendetene una parte, alla grossezza di uno scudo, nel fondo di una teglia di rame del diametro di 20 a 21 centim. (che prima avrete unta di burro) e sopra alla medesima versate un marzapane fatto nelle seguenti proporzioni:
Dopo aver fatto alla teglia questa armatura, coprite la pasta del fondo colla metà delle fette di pan di Spagna intinte leggermente in rosolio di cedro. Sopra le medesime distendete la crema e coprite questa con le rimanenti fette di pan di Spagna egualmente asperse di rosolio. Ora montate colla frusta due delle tre chiare rimaste dalla crema e quando saranno ben sode versate a poco per volta nelle medesime grammi 130 di zucchero a velo e mescolate adagio per aver così la marenga colla quale coprirete la superficie del dolce, lasciando scoperto l'orlo della pasta frolla per dorarlo col rosso d'uovo. Cuocetela al forno o al forno di campagna e quando la marenga avrà preso colore copritela con un foglio.
Le mandorle, dopo averle sbucciate e asciugate bene, pestatele in un mortaio con una cucchiaiata del detto zucchero e mescolatele alla farina in modo che non appariscano bozzoli. Il resto dello zucchero ponetelo in una catinella coi rossi d'uovo e la raschiatura del limone lavorandoli con un mestolo per un quarto d'ora; versate la farina e lavorate ancora per più di mezz'ora. Montate con la frusta, in un vaso a parte, le sei chiare e quando saranno ben sode da sostenere un pezzo da due franchi di argento, versatele nella menzionata catinella e mescolate adagino adagino ogni cosa insieme. Per cuocerla versatela in una teglia di rame unta col burro e spolverizzata di zucchero a velo o farina, oppure in un cerchio di legno da staccio, il cui fondo sia stato chiuso con un foglio.
Se desiderate di tirare la pasta frolla senza impazzamento, lo zucchero pestatelo finissimo e mescolatelo colla farina; e il burro, se è sodo, rendetelo pastoso lavorandolo prima, con una mano bagnata, sulla spianatoia. Il lardo badate che non sappia di rancido. Farete di tutto un pastone maneggiandolo il meno possibile chè altrimenti vi si brucia, come dicono i cuochi nel loro linguaggio. Se vi tornasse comodo fate pure un giorno avanti questa pasta la quale cruda non soffre, e cotta migliora col tempo perchè frolla sempre di più. Nel servirvene per pasticci, crostate, torte ecc., assottigliatela da prima col matterello liscio e dopo, per più bellezza, lavorate con quello rigato la parte che deve stare di sopra, dorandola col rosso d'uovo. Se vi servite dello zucchero a velo la tirerete anche meglio. Per lavorarla meno, se in ultimo restano dei pastelli, uniteli insieme con un gocciolo di vino bianco, o di marsala.
Lavoratela la sera avanti, prima sulla spianatoia il lievito senza i condimenti, poi in una catinella per più di mezz'ora con una mano aggiungendo a poco per volta gli ingredienti e le uova. Poi copritela bene e ponetela in luogo tiepido perchè lieviti durante la notte. La mattina appresso rimpastatela e poi versatela in una teglia di rame unta e infarinata ove stia nella grossezza non maggiore di due dita. Fatto questo mandatela in caldana per la seconda lievitatura e passatela al forno. Si può anche compiere tutta l'operazione in casa e cuocerla nel forno da campagna; ma vi prevengo che questa è una pasta alquanto difficile a riuscir bene specialmente se la stagione è molto fredda. Meglio è che per farla aspettiate il dolco; ma non vi sgomentate alla prima prova.
La chiameremo stiacciata unta per distinguerla dalla precedente. Se quella ha il merito di riuscire più grata al gusto questa ha l'altro di una più facile esecuzione. La dose di questa stiacciata e la ricetta della torta mantovana mi furono favorite da quel brav'uomo, già rammentato, che fu Antonio Mattei di Prato; e dico bravo perch'egli aveva il genio dell'arte sua ed era uomo onesto e molto industrioso; ma questo mio caro amico, che mi rammentava sempre il Cisti fornaio di messer Boccaccio, morì l'anno 1885 lasciandomi addoloratissimo. Non sempre sono necessarie le lettere e le scienze per guadagnarsi la pubblica stima: anche un'arte assai umile accompagnata da un cuor gentile ed esercitata con perizia e decoro ci può far degni del rispetto e dell'amore del nostro simile.
Intridete il lievito di birra con mezzo bicchiere di acqua tiepida facendogli prendere la farina che occorre per formare un pane di giusta consistenza che collocherete sopra il monte della farina, entro a una catinella, coprendolo con uno strato della medesima. Questa