Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di
. I piselli colti appena, devono essere sgusciati al momento e gettati in aqua bollente, salati leggermente e bolliti solo 15 o 20 minuti. Quanto più si lasciano bollire, tanto più perdono sapore e diventano duri, e questo si dica anche dei piselli secchi. Devono essere cotti in aqua abbondante, e, levati, farli subito scolare. Se secchi, sarà meglio gettarli in aqua fresca un'ora prima di cocerli e mettere un po' di zuccaro in quella nella quale bollono. La buccia fresca dei piselli, massime dei primaticci, facendola bollire assai e passata allo staccio, dà una sostanza che messa nel brodo fa la zuppa più saporita e gustosa. I piselli freschi e teneri sono più digeribili che i secchi, e si mangiano anche crudi. Si cucinano in diversi modi, colle minestre, colle carni, nei manicaretti. Accompagnano benissimo il capretto, il vitello, i piccioni e le anitre. In ogni caso, ripeto, non devono mai essere stracotti. I piselli si fanno seccare col medesimo metodo dei fagioli e degli altri legumi. Un modo facile e poco costoso è di distenderli su di un piatto o foglio di carta e farli essiccare in un forno abbastanza tepido da potervi tenere la mano. Si raggrinzeranno, ma saranno saporitissimi ed eccellenti per zuppa e ragoùts. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere perfettamente maturi, e si leva ai grani stessi la prima scorza. In Francia, colla buccia mista ad altre erbe aromatiche ed amare, si faceva una specie di birra, usata principalmente dai contadini. Nel Chili, è molto popolare la chicha de oloja, bevanda fermentata che si fabbrica coi piselli e col maiz. Nell'anno 1536, il cardinale Lorenzo Campeggio à dato un pranzo in Trastevere alla maestà cesarea di Carlo V, imperatore. Era giorno quadragesimale «et prima fu posta la tavola con quattro tovaglie profumate... et dopo vari serviti;» furono portati «piselli alessati con la scorza et serviti con aceto et pepe sopra, libre 8 in 4 piatti.» Poi dopo molti altri servizii «levata la tovaglia et data l'aqua alle mani si mutò salviete con forcine d' oro et d' argento con stecchi profumati in 12 tazze d' oro et mazzetti di fiori con garofoli profumati» e tra le altre cose furono ancora serviti «piselletti teneri con la scorza conditi, libre 6 in 3 piatti.» Tanto ci tramanda Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare, del quale papa Pio V dice:
saporitissimi ed eccellenti per zuppa e ragoùts. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere
. I Greci poi raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il fairepart, ma ufficiale invito d'intervenire. Una dea sola fu esclusa: la dea Discordia. E questa, per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo, dicendo: «Alla più bella di voi,» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch'erano difatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto, per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere, in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se lo mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anche essa al dito. Avvenne che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo che aveva deposto su di un sasso, e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton, mentre riposava in giardino, dobbiamo la scoperta dell'attrazione. La quale attrazione, del pomo, era già scoperta migliaia d'anni fa da Eva. Ed è per questa attrazione che il re Wadislao di Polonia fuggiva e cadeva in deliquio alla vista di un pomo. Il nostro popolo, prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm) della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessari (el pomm quand l'è madur, bisogna ch' el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fa córr a pomm). Proverbi sul pomo:
sua volta, e se la legò anche essa al dito. Avvenne che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il
erbacea, annuale, indigena, piuttosto coltivata che spontanea, fiorisce in giugno e luglio. Si propaga per semi in primavera, vuol terreno mobile, fresco, sostanzioso. Il seme va gettato rado e coperto leggermente e vanno sradicate le pianticelle troppo vicine, sarchiate se bisogna. Il raccolto si fa subito che i fusti incominciano ad ingiallire e quando alla maggior parte dei fiori inferiori succedono dei semi nerastri, che sono i migliori, senza aspettare che maturino gli altri, che sono gli infimi e fanno perdere i primi. Tagliate le pianticelle, lasciatele alquanto in riposo, perchè i semi finiscano di perfezionarsi, poi battete, vagliate, crivellate. I semi conservano la loro facoltà germinativa per tre o quattro anni, purchè distesi in granaio arioso. Per gli usi medicinali servirsene il più presto possibile, perchè quanto più è recente, tanto più è migliore: al secondo anno comincia già a deteriorare. Nel linguaggio dei fiori: Dispetto. Àvvene due varietà: la bianca e la nera. La prima à fiori grandi d'un giallo pallido,, di sapore delicato, viene coltivata molto in Inghilterra e preferita per uso gastronomico. La nera à fiori piccoli gialli, dà seme più minuto ed à sapore più forte ed acuto, e questa è la più usitata. Polverizzato il seme della senape nera, serve a preparare coll'aqua, o col mosto, o coll'aceto, o collo zuccaro, o col brodo, o misto a droghe e sapori, le varie paste liquide dette mostarde o salse di senape, in uso giornaliero per la tavola. I giovani getti della senape si mangiano in insalata. La specie detta della China, dalla sua provenienza, arriva fino ad un metro e più di altezza. À larghe foglie, fiori gialli. Si semina in agosto, bisogna irrorarla quando nasce. I semi anno virtù germinatrice fino ai 4 anni. In capo ad un mese si possono raccogliere le foglie che danno un prodotto abbondante, che si cucinano ed ànno un gusto gradevole. È uno dei legumi più apprezzati dei paesi caldi. La senape eccita l'appetito ed aiuta a digerire. A prevenire e sopprimere la sua azione topica sulle mucose nasali applicate alle narici un po' di mollica di pane fresco. È antichissimo l'uso gastronomico della senape. Columella, de re rustica, ci conservò la ricetta di due salse che componevano i Romani. L'una, quale press' a poco la facciamo noi oggi, e serviva per condire le rape, l'altra con pignola ed amido, che raggiungeva esimia bianchezza, serviva al più nobile uso, di tornagusto per carni lessate e pesci. Galeno suggerisce di renderla dolce. È colla senape che si fabbrica la mostarda e lo si rende più o men dolce coll'unirvi zuccaro, miele o mosto d'uva, mostarda viene da mosto. La senape stuzzica l'appetito, favorisce la digestione e rallegra lo spirito. Il filosofo Kant usava masticarne i semi per rinvigorire la memoria. La senape serve in medicina a farne i così detti senapismi, e se ne cava un olio risolutivo. È eminentemente antiscorbutica. Lo storico Ray narra che all'assedio della Rocella, dove lo scorbuto aveva già colpito centinaia di soldati, la malattia si arrestò prontamente, facendo prendere a tutti come rimedio e preservativo l'infusione di senape nel vino bianco. Dietro ciò l'ammiragliato d'Olanda, prescrisse che tutti i vascelli dovessero sempre portarne seco sufficiente provvigione. La Scuola Salernitana dice della senape:
raccogliere le foglie che danno un prodotto abbondante, che si cucinano ed ànno un gusto gradevole. È uno dei legumi più apprezzati dei paesi caldi
La gelatina. — Estratta la galantina dalla casseruola, verificate quanto liquido c'è ancora, e se si fosse molto ristretto allungatelo un pochino e continuate l'ebollizione lenta e regolare per un altro paio d'ore, affinchè il brodo possa bene aromatizzarsi e i piedi di vitello abbiano il tempo di disfarsi, comunicando così al brodo tutta la parte gelatinosa. Passatelo allora da un colabrodo, raccoglietelo in una insalatiera e lasciatelo così fino al giorno dopo, affinchè possa freddarsi completamente. L'indomani troverete alla superficie uno strato solido di grasso, che leverete facilmente con un cucchiaio, e sotto, con molta probabilità, specie se la stagione è fredda, il brodo rappreso in gelatina. Ma questa gelatina non è in genere così limpida, come deve essere, e allora occorre chiarificarla. Per far questo, mettete in un caldaino o in una grande casseruola, un uovo intero e un mezzo bicchierino di marsala, aggiungete la gelatina e con una frusta in filo di ferro sbattete energicamente tino a sciogliere il tutto. Mettete allora il caldaino sul fuoco e sempre sbattendo portate il liquido fino all'ebollizione. Vedrete allora che l'uovo e la chiara si stracciano alla superficie e negli interstizi appare il brodo limpidissimo. Tirate indietro il caldaino, copritelo e lasciate il brodo in riposo per quattro o cinque minuti, sull'angolo del fornello. Intanto prendete una sedia di cucina, capovolgetela e appoggiatela così capovolta sul tavolo, in modo che le quattro gambe rimangano in su. Sulle estremità delle quattro gambe ponete un tovagliolo bagnato e strizzato e attorno ad ogni gamba fate una legatura con dello spago, in modo che la salvietta non possa sfuggire. Avrete così ottenuto una specie di filtro, sotto il quale metterete una terrina o una insalatiera per raccogliere il brodo che verserete sul tovagliolo. Vedrete che la gelatina passerà limpidissima e di un bel colore ambrato. Quando sarà tutta passata versatela in una stampa grande, liscia e mettetela sul ghiaccio, per farla rapprendere. Al momento di preparare la galantina per il pranzo capovolgete la stampa con la gelatina su un tovagliolo bagnato e spremuto, e tagliate la gelatina in crostoni rettangolari o triangolari, che disporrete in giro sull'orlo del piatto che contiene la galantina. Se non foste sicure della forza gelatinosa del brodo, o in altre parole se temeste che la gelatina non si rapprendesse provatene un poco, prima di chiarificarla, sul ghiaccio per qualche minuto. Se vi sembrerà troppo molle potrete aggiungere quattro o cinque fogli di colla di pesce. La migliore colla di pesce è la cosidetta «gelatina marca oro» che si vende in tutte le drogherie. Questa colla, che si presenta in foglietti rettangolari trasparenti, è assolutamente insapore, tanto che si adopera anche per pasticceria, ed è affatto innocua. Per adoperarla, bisogna prima tenerla una ventina di minuti in
raccogliere il brodo che verserete sul tovagliolo. Vedrete che la gelatina passerà limpidissima e di un bel colore ambrato. Quando sarà tutta passata
Bisogna tener presente che le fragole, a contatto dello stagno o della latta, perdono il loro bel colore rosso per assumere una colorazione violacea sporca, di pessimo effetto. Occorrerà dunque, confezionando questa bavarese, adoperare solamente: un setaccino di crine rosso (che è generalmente il più adatto per pasticceria) un recipiente di maiolica o di terraglia per raccogliere il passato di fragole e, finalmente, una stampa di ferro smaltato o di rame non stagnato per condensare la bavarese. Premessi questi piccoli avvertimenti, procediamo nel nostro lavoro. Prendete mezzo chilogrammo di fragole piccole e passatele dal setaccio di crine rosso, raccogliendo la purè in una terrinetta di porcellana. Su questa purè grattate, con un pezzo di vetro o con una piccola grattugia, la scorza di un limone, avvertendo di grattare soltanto la parte gialla e non la bianca che comunicherebbe un sapore amarognolo al composto. Spremete sulle fragole il sugo della metà del limone, e aggiungete nella terrinetta 200 grammi di zucchero al velo. Avrete intanto messo in acqua fresca 25 grammi di gelatina marca oro — circa 12 fogli — e dopo una diecina di minuti, quando la gelatina sarà ben rammollita, prendetela su con le mani, strizzatela e e mettetela in una casseruolina con tre o quattro cucchiaiate d'acqua. Tenete la casseruolina sull'angolo del fornello e fate liquefare la gelatina a calore dolce. Quando la gelatina sarà ben liquefatta passatela dal setaccino raccogliendola nello stesso recipiente dove è già la purè di fragole. Mescolate bene ogni cosa, e mettete la terrinetta su un po' di ghiaccio per raffreddare il composto. Quando vedrete che incomincia a divenire spesso, mischiatevi adagio adagio un quarto di litro di panna di latte montata (chantilly). Prendete una stampa da budino — che, come vi abbiamo già detto, dovrà essere di ferro smaltato o di rame non stagnato — e ungetela leggermente di olio d'olivo o meglio di olio di mandorle dolci. L'oleatura della stampa dovrà essere fatta con parsimonia e dopo che si sarà passato un velo d'olio dappertutto si capovolgerà la stampa tenendola così per qualche minuto allo scopo di far cadere tutto l'olio superfluo. In questa stampa oleata mettete il composto a cucchiaiate. Battete leggermente la stampa su uno strofinaccio affinchè non restino vuoti e finalmente mettete a congelare la bavarese sul ghiaccio lasciandovela per circa un'ora, fino a che si sarà ben rappresa.
più adatto per pasticceria) un recipiente di maiolica o di terraglia per raccogliere il passato di fragole e, finalmente, una stampa di ferro smaltato
Per questo delicato lavoro di bomboneria occorrono le violette doppie di Parma e — naturalmente — freschissime. Si privano del gambo e si tuffano in acqua fresca per ripulirle bene. Si tolgono delicatamente dall'acqua, si raccolgono su un ampio setaccio e si lasciano sgocciolare per qualche ora, tenendole in un luogo fresco. Bisogna adesso preparare dello zucchero nel seguente modo. Prendete una buona quantità di zucchero, in polvere molto fina, mettetelo su un setaccio di seta e fatene cadere la parte impalpabile, cioè lo zucchero cosidetto al velo, che riserverete per altri lavori. Sul setaccio rimarrà della polvere di zucchero che, presa tra le dita, rassomiglia ad un semolino a grana finissima, e che è appunto quello che serve alla preparazione. Questo zucchero va adesso colorito in viola. Per i vari lavori di pasticceria ci sono in commercio degli speciali colori innocui di diverse Case, e già pronti per l'uso. Siccome però tutti questi colori sono molto concentrati e densi, per il lavoro delle violette candite bisogna diluirli, affinchè il colore possa aver modo di ripartirsi tra tutti i granellini dello zucchero. Per diluire il colore si fa così: si prende un po' di color viola concentrato e si stempera con mezzo bicchiere d'acqua bollente. Avvenuta la soluzione si lascia freddare e si rifinisce con un bicchierino d'alcool puro e una o due gocce di essenza di violetta. Si raccoglie il colore ottenuto in una bottiglina e si conserva. Si stende lo zucchero su un foglio grande di carta bianca e vi si versa, a gocce, il colore viola, impastando bene con le due mani affinchè questo colore, che è dotato di grande potenza colorante, vada a tingere uniformemente ogni granellino. Si giudica del risultato ottenuto, e se l'intonazione generale dello zucchero non rispondesse al vero colore delle violette di Parma, se ne può correggere la nuance con qualche goccia di color «rosa brillante». Stendete bene lo zucchero sulla carta, e lasciate asciugare completamente, all'aria. Sciogliete a bagnomaria della gomma arabica in pezzi con poca acqua e a parte preparate uno sciroppo di zucchero al profumo di vainiglia. Questo sciroppo misurato col pesa-sciroppi dovrà segnare 32 gradi. Unite la gomma fusa e densa allo sciroppo e tenete il tutto in caldo, senza che il calore però sia eccessivo. Prendete le violette, mettetene poche alla volta in una terrinetta di porcellana e versateci su un pochino del composto di gomma e sciroppo: tanto che basti appena appena a bagnarle. Operando con attenzione, girate le violette nel liquido affinchè restino inumidite in ogni parte. Appoggiatele subito sullo zucchero colorato e rotolatele in esso con grande delicatezza in modo da far loro raccogliere la maggiore quantità di zucchero. Procedete così fino ad avere esaurito tutte le violette e poi collocatele bene allargate su un grande setaccio di seta lasciandole per qualche giorno in luogo tiepido, onde abbiano ad asciugarsi completamente.
far loro raccogliere la maggiore quantità di zucchero. Procedete così fino ad avere esaurito tutte le violette e poi collocatele bene allargate su un
Noto legume annuale. Quello detto campestre nasce spontaneamente in alcune parti d'Italia e di Germania. Ma il sativum è quello coltivato negli orti. Avvene molte varietà. Il nano (P. humile) primaticcio olandese da noi detto anche quarantin. Il quadrato (P. quadratum) o reale bianco e verde. L'umbrellatum, che è piuttosto d'ornamento nei giardini. L'excorticatum, pisello dolce zuccherino che si mangia unitamente al guscio detto in francese Pois goulus e da noi Taccole, ed altre. Nel linguaggio dei fiori: confidenza. Si può seminarli in varie epoche e averli tutti i mesi. Il pisello ama terreno leggero, sostanzioso, lavorato e soleggiato; non vuol essere riseminato nel medesimo luogo. Si fa seccare e si conserva per l'inverno. La varietà verde, in Francia è coltivata su larga scala. In Inghilterra si coltiva il pisello per alimentare le pecore nell'inverno. Vuolsi che il nome di pisello l'abbia da Pisa, antichissima città del Peloponneso, da dove sembra venuto in Italia, come vennero alcuni abitanti di quella Pisa a fabbricare la nostra sull'Arno, che pure battezzarono Pisa, teste Strabone. Altri lo vuole dal nome originario del legume in lingua celtica, o dal vocabolo greco, che significa cadere. Il nostro nome di erbion pare sia un corrotto dell'Arneja spagnuolo o un prolungamento dell'erbse tedesco. Il pisello fu sempre ritenuto uno dei più graziosi legumi. La storia ci tramanda che aveva l'onore delle tavole reali. Gli autori greci e latini ne parlarono tutti con vera benevolenza, i più maldicenti lo accusano di flattulenze. Perfino l'austerissimo Eupolim, forse il più antico commediografo greco, ne fa menzione onorata. L'imperatore Tito ne andava matto. I medici non potendone dir male, come al loro solito, lasciano però scappare qualche bieca osservazione. Baldassare Pisanelli, medico bolognese, nel suo Trattato dei cibi et del bere, dice: « I piselli non sono molto differenti dalle fave, ma fanno venire sospiri et inducono strane meditationi. » Con sua bona pace, il pisello è l'ottimo fra i legumi, digeribile, saporito, nutriente. I freschi e teneri sono più digeribili che i secchi, questi alquanto flattulenti, bisogna lasciarli macerare nell'aqua. Si mangiano anche crudi lorchè sono freschi e tenerelli. Si cucinano in diversi modi : colle minestre, colle carni, nei manicaretti. I piselli si fanno seccare col medesimo metodo dei fagioli e degli altri legumi. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere perfettamente maturi, e si leva ai grani stessi la prima scorza. In Francia, colla buccia mista ad altre erbe aromatiche ed amare, si faceva una specie di birra usata principalmente dai contadini. Nel Chili è molto popolare la chicha de oloja, bevanda fermentata che si fabbrica coi piselli e col maiz. Nell'anno 1536 il cardinale Lorenzo Campeggio à dato un pranzo in Transtevere alla Maestà Cesarea di Carlo V, Imperatore. Era giorno quadragesimale « et prima fu posta la tavola con quattro tovaglie profumate.... et dopo vari servi i ; » furono portati « piselli alessati con la scorza et serviti con aceto et pepe sopra, libre 8 in 4 piatti. » Poi dopo molti altri servizii « levata la tovaglia et data l'aqua alle mani si mutò salviete con forcine d'oro et d'argento con stecchi profumati in 12 tazze d'oro et mazzetti di fiori con garofoli profumati » e tra le altre cose furono ancora serviti « piselletti teneri con la scorda conditi libre 6 in 3 piatti. » Tanto ci tramanda Bartolomeo Scappi, maestro nell'arte del cucinare, del quale Papa Pio V dice: « Peritissimi magistri Bartolomei Scappij qui nunc prefectus est ex nostris intimis coquis. (Dal Breve: Datum Romæ apud Petrum. Tertio Kalendis Aprilis, anno quinto).
legumi. Si conservano verdi nell'aqua e aceto e prima di mangiarli si lavano in aqua fresca. Devonsi però raccogliere perfettamente maturi, e si leva