È preferibile mettere a cuocere il pesce di mare, da servirsi lesso, con acqua fredda e qualche legume, portando l'acqua pian piano fino all'ebollizione. Raggiunta questa si tira indietro la pesciera e si continua la cottura col recipiente coperto e sull'angolo del fornello, di modo che l'acqua pur essendo caldissima non debba più levare il bollore. Questa permanenza sull'angolo del fornello si prolungherà più o meno a seconda della grossezza del pesce e potrà variare da pochi minuti, per i pesci piccoli, a qualche ora, per i pesci di grandissime dimensioni.
essendo caldissima non debba più levare il bollore. Questa permanenza sull'angolo del fornello si prolungherà più o meno a seconda della grossezza
La gelatina eseguita nel modo descritto più sopra è senza dubbio una preparazione squisita e adatta specialmente quando si debba somministrare a un ammalato o a un convalescente. Ma quando si tratti di decorazioni di piatti freddi il molto tempo che questa gelatina esige può sembrare sciupato. Eccovi dunque in queste caso un'ottima ricetta di gelatina sbrigativa, che, tutto sommato non vi costerà che pochi minuti di lavoro. E otterrete un risultato eccellente che non vi farà certo rimpiangere quell'indefinibile composizione che molti salsamentari vendono per gelatina, che non sa di niente, e, in compenso, costa un occhio della testa. Per mezzo litro di gelatina, sufficiente a guarnire una pietanza fredda per sei parsone, mettete in bagno in una terrinetta con acqua fredda orto fogli di gelatina marca oro (pari a 20 gr.) e lasciate così per una diecina di minuti, fino a che la gelatina sia ben rammollita, spremetela un po' tra le mani e mettetela nella casseruola. Aggiungete un pezzettino di cipolla, tre o quattro granellini di pepe, una chiara d'ovo e un cucchiaino di estratto di carne. Molte persone sono un po' scettiche quando si parla loro di estratti di carne. Dobbiamo dire che queste persone hanno torto, perchè un vasetto di estratto di carne può essere qualche volta in cucina una piccola provvidenza. Si può essere d'accordo nel non abusarne, ma l'usarne ci toglierà spesso, e con una spesa insignificante, da qualche preoccupazione, quando, ad esempio, il brodo non sarà riuscito abbastanza sapido, o i sughi non abbiano raggiunto quel gusto che ci prefiggevamo, ecc. ecc. In questi, e in tanti altri casi consimili, un mezzo cucchiaino di estratto di carne salva magnificamente la situazione.
La gelatina eseguita nel modo descritto più sopra è senza dubbio una preparazione squisita e adatta specialmente quando si debba somministrare a un
Molti credono che questo tradizionale piatto napolitano sia esclusiva specialità dei «pizzaioli» e che si debba mangiarlo soltanto da loro. È un errore. La pizza alla napolitana si può fare benissimo in casa dove riesce buona come nella più accreditata pizzeria. La vera pizza alla napolitana va cotta nel forno da pane, in mezzo ad una fiamma vivace di sarmenti; ma non è detto che non si possa ottenerla anche nei nostri fornetti domestici. Per una pizza sufficiente a sei persone occorrono circa 400 grammi di pasta da pane. Chi vuol comprarla bella e pronta dal fornaio può farlo, ma noi consigliamo di confezionare la pasta in casa: ciò è molto meglio. Prendete 350 grammi di farina, disponetela a corona sulla tavola, metteteci dentro 10 grammi di lievito di birra, aggiungete un pizzico di sale, stemperate il lievito con un pochino d'acqua tiepida e impastate con altra acqua tiepida; in tutto un bicchiere. Lavorate energicamente la pasta affinchè risulti ben liscia, elastica e relativamente morbida. Poi fatene una palla e mettetela in una terrinetta, nel cui fondo avrete spolverato un po' di farina. Coprite la terrinetta e mettetela in luogo tiepido perchè la pasta possa lievitare.
Molti credono che questo tradizionale piatto napolitano sia esclusiva specialità dei «pizzaioli» e che si debba mangiarlo soltanto da loro. È un
Mettete a lessare mezzo chilogrammo di patate, e quando saranno cotte sbucciatele, schiacciatele sulla tavola di cucina e impastatele con mezzo ettogrammo di burro, un buon pizzico di sale, un nonnulla di noce moscata, una cucchiaiata di parmigiano e quattro cucchiaiate colme di farina. Rompete in un piatto un uovo, sbattetelo come per frittata e aggiungetene la metà nella pasta: l'altra metà la serberete per indorare i pasticcini. Impastate tutti gli ingredienti aiutandovi con un po' di farina, con la quale spolverizzerete, di quando in quando, la tavola. Dovrà riuscirvi una pasta unita e asciutta, che si possa stendere col rullo di legno. Ottenuto l'impasto, servendovi sempre di un po' di farina, affinchè la pasta non debba attaccarsi alla tavola e al rullo, stendetela allo spessore di mezzo centimetro scarso. Per facilitare l'operazione sarà bene che dividiate la pasta in quattro o cinque pezzi, e che stendiate questi pezzi uno alla volta. Prendete un tagliapasta rotondo del diametro di circa 10 centimetri, oppure un bicchiere a larga bocca o anche una coppa da champagne, adattatissima per questo scopo; e tagliate tanti dischi rotondi che metterete allineati da una parte ricordandovi di spolverizzare sempre la tavola con un pochino di farina. I ritagli li rimpasterete e li ristenderete, ottenendone muovi dischi; e così farete fino a completo esaurimento della pasta. Lavate e spinate un ettogrammo di acciughe salate e dividetele in pezzi. Mettete su ogni disco qualche pezzetto di alice, una presina di pepe, e poi ripiegate ogni disco in due su sè stesso in modo da rinchiudere dentro le alici. Pigiate leggermente con le dita sul bordo in modo che questa specie di fagottini risultino chiusi perfettamente. Imburrate una teglia grande e disponete in essa uno accanto all'altro i pasticcini, passate su ognuno di essi un po' dell'uovo sbattuto tenuto da parte, servendovi di una penna o di un pennello e poi ponete la teglia in forno piuttosto vivace per una diecina di minuti, fino a che i pasticcini abbiano preso una bella tinta color d'oro pallido. Accomodateli su un piatto con salvietta e mangiateli caldi. Con questa dose otterrete circa 25 pasticcini, sufficienti a sei persone.
asciutta, che si possa stendere col rullo di legno. Ottenuto l'impasto, servendovi sempre di un po' di farina, affinchè la pasta non debba attaccarsi
Questa pietanza, di una semplicità e di una esecuzione assolutamente primordiali, non solamente riabilita il polipo, che — sia detto fra parentesi — nelle famiglie dei pesci gode di una fama volgaruccia anzichenò, ma immediatamente solleva lo spregiato mollusco ad altezze che non esiteremmo a chiamare epiche. C'è forse qualcosa di più squisito, di più appetitoso, di più delizioso di un polipo alla luciana? Quale pesce può compiere il prodigio di riempirvi la cucina di un profumo più intenso ? Uno di quei profumi che scendono allo stomaco «per vie non conosciute», come avrebbe detto il buon Stecchetti e che vi fanno venire l'acquolina in bocca. Di più il materiale di cucina occorrente non contribuirà certo a mandarvi in rovina: una pentola di coccio, un pezzo di carta paglia e un po' di spago. L'abbiamo già detto: si tratta di una preparazione primordiale. Il polipo che occorre deve essere di scoglio: quei polipi cioè che hanno una doppia fila di ventose sui tentacoli, e che sono detti a Napoli «veraci». Contrariamente poi a quanto si usa per le altre preparazioni sarà da preferirsi un polipo piuttosto grosso. E non abbiate timore che riesca duro: quando avrete seguito con diligenza i nostri consigli scambierete il vostro polipo per un pezzo di vitellino da latte, tanto sarà tenero. Comperato dunque il polipo, nettatelo bene, togliendo via la vescichetta della tinta, gli occhi e tutta la pelle. Quest'ultima operazione, che a prima vista può sembrare difficile, non lo è in realtà, se vi aiuterete con un piccolo coltello a punta. Fatta dunque un po' di toletta al polipo procedete ad un'altra operazione, che se non è molto gentile è però necessaria: quella della bastonatura; poichè il polipo «ama» di essere bastonato, come si legge in quei libri di cucina a base di strafalcioni. Naturalmente est modus... con quel che segue; e voi badate affinchè nella furia del combattimento il polipo non debba restare massacrato e coi tentacoli in pezzi. Dopo la bastonatura esso avrà perduto la rigidità delle fibre e sarà pronto per la cottura. La quale, come già abbiamo accennato, dovrà farsi in una pentola di terraglia, di capacità tale che il polipo possa occuparne i due terzi dell'altezza. Lavate adesso il polipo e, senza asciugarlo, deponetelo nella pentola. Conditelo con sale e pepe — è molto indicato, se piace, del peperoncino — qualche ciuffo di prezzemolo e abbondante olio (mezzo bicchiere un po' scarso per un polipo di mezzo chilogrammo). Chiudete ora la pentola con un paio di fogli di carta paglia — quella carta gialla usata dai rivenditori di generi alimentari — assicurate la carta con qualche giro di spago che fisserete sotto i manici e in ultimo coprite con un coperchio. Mettete la pentola su poca brace accesa, quasi delle ceneri calde, e lasciate che il polipo cuocia lentamente, insensibilmene, per un paio d'ore, per abbandonarlo poi sul camino fino al momento di mangiare, che esso guadagna ad essere gustato tiepido o freddo affatto. Vi ripetiamo la raccomandazione che il fuoco sia quasi niente, poichè in caso contrario rovinereste tutto. Pian piano, durante la cottura, un profumo allettatore si sprigionerà dalla pentola. Ma voi non vi lasciate vincere dalla tentazione di scoprirla fino a che non sia trascorso il tempo stabilito e sarà giunta l'ora del desinare. Togliete allora la carta, e avrete la sorpresa di vedere che il polipo è diventato come una specie di grosso crisantemo rossastro, tenerissimo, galleggiante in un brodo squisito, che la munifica bestia ha generosamente elargito. Non gli fate l'ingiuria di travasarlo. Adagiate la pentola in un piatto con salvietta, e fatelo portare in tavola così come si trova. È un piatto marinaresco, e va servito senza troppe cerimonie. In tavola dividetelo in pezzi, e fate che ogni commensale condisca il polipo con qualche cucchiaiata del suo brodo, un pochino d'olio e, se piace, qualche goccia di sugo di limone.
strafalcioni. Naturalmente est modus... con quel che segue; e voi badate affinchè nella furia del combattimento il polipo non debba restare massacrato e coi
Per sei persone provvedetevi di mezzo chilogrammo di cuore di bue, che farete tagliare in fettine piccole e piuttosto sottili. Mettete a rinvenire nell'acqua fredda un paio di pugni di funghi secchi. Nettateli bene, scolateli e metteteli a cuocere in una padellina con un pochino d olio. Conditeli con sale e pepe e poi aggiungeteci un paio di cucchiaiate di salsa di pomodoro, mezzo bicchiere d'acqua e lasciateli cuocere coperti su fuoco moderato. Quando i funghi saranno cotti metteteli da parte. Pochi minuti prima dell'ora di pranzo, mettete in una padella piuttosto grande un po' di strutto o d'olio e quando il grasso sarà caldo, mettete giù il cuore tagliato in fettine. Conditelo con sale e pepe e portate la cottura con fuoco piuttosto vivace, perchè il cuore non debba indurirsi: quattro o cinque minuti saranno sufficienti. Rovesciate allora nella padella grande i funghi con la salsa, e se questa fosse troppo densa, diluitela con qualche cucchiaiata d'acqua; fate dare ancora un bollo e versate nel piatto di servizio. A rendere questa pietanza più elegante potrete circondarla di crostini di pane fritti.
vivace, perchè il cuore non debba indurirsi: quattro o cinque minuti saranno sufficienti. Rovesciate allora nella padella grande i funghi con la salsa, e
Circa le barbabietole noi consiglieremmo di non servirsene, o di servirsene solamente per la decorazione, poichè comunicano un color rosso a tutta la maionese, ciò che la rende poco gradevole alla vista. Ad ogni modo se si vogliono adoperare delle barbabietole — lessate o cotte al forno — converrà prima tagliarle in fette e tenerle quattro o cinque ore in un bagno d'aceto, che ne fìssa sufficientemente il colore. Raccogliete tutti i legumi lessati e tagliati in piccoli pezzi in un'insalatiera e conditeli con sale, pepe, olio, aceto, e, se credete, un cucchiaino di mostarda sciolta in un dito d'acqua. Circa la quantità regolatevi. Per sei persone, ad esempio, potrete adoperare cinque o sei patate di mezzana grandezza, un paio di carote gialle grandette, una piccola cima di cavolfiore o di broccolo, oppure un paio di zucchine, un paio di carciofi, un pugno di fagiolini, ecc. Nell'insalata unirete anche una cucchiaiata di capperi, qualche cetriolino in fettine e due o tre alici lavate, spinate e tagliate in filettimi, e, se ne avete, una o due cucchiaiate di aceto al dragoncello. Se dovete servire la sola insalata russa, mischiate in essa qualche cucchiaiata di salsa maionese, accomodatela a cupola in un piatto, ricopritela di salsa maionese e decoratela con cetriolini, capperi, uova sode, acciughe ecc. Se invece dovrete fare una maionese, dopo aver preparato l'insalata russa, preparate anche il pesce. Il pesce per la maionese può essere delle più svariate qualità: cefalo, spigola, palombo, aragosta, ecc. Si preferiscano i pesci che possono spinarsi completamente. Certo di questi tempi in cui gli alimenti in genere, e specie i pesci, sono carissimi, troveremmo inopportuno sacrificare un dentice o una spigola per una maionese. Queste qualità fini possono adoperarsi soltanto in via eccezionale, o quando, ad esempio, da un pranzo siano rimasti un bel pezzo di pesce lesso o arrosto. E allora l'utilizzazione è convenientissima. Altrimenti si adopererà del cefalo o, di preferenza, del palombo, che ha una sola spina e si prepara facilissimamente. Quando il pesce non sia avanzato, e si debba preparare espressamente per la maionese, invece di lessarlo, è meglio spinarlo, tagliarlo in fette, e poi cuocerlo in una teglia con un po' di burro o olio, sale e pepe. Appena cotto, ciò che accade in pochissimi minuti, si leva dal fuoco, vi si spreme su un po' di sugo di limone e si lascia raffreddare.
avanzato, e si debba preparare espressamente per la maionese, invece di lessarlo, è meglio spinarlo, tagliarlo in fette, e poi cuocerlo in una teglia
Per fare questi zuccherini sarebbe necessario uno speciale polsonetto con becco acuminato; ma chi non deve produrne una gran quantità può utilizzare qualsiasi casseruolina, purchè ben netta. Mettete dunque in un piccolo recipiente sei cucchiaiate di zucchero in polvere, e una cucchiaiata o due di acqua. Mescolate e fate scaldare su fuoco moderato in modo che lo zucchero non debba liquefarsi completamente ma diventare appena colante. Levate allora la casseruolina dal fuoco, mettete nello zucchero tre o quattro goccie di essenza di menta, mischiate, e servendovi di un cucchiaio da tavola fate cadere sul marmo del tavolo di cucina, bene asciutto, lo zucchero a goccie regolari della grandezza di due centesimi. Quando, dopo qualche ora, queste pastiglie si saranno solidificate, staccatele con garbo con una lama di coltello, e serbatele in una scatola di latta chiusa e in luogo asciutto. Questi zuccherini possono aromatizzarsi con qualche altra essenza, e colorirsi con colori innocui da pasticceria.
acqua. Mescolate e fate scaldare su fuoco moderato in modo che lo zucchero non debba liquefarsi completamente ma diventare appena colante. Levate
I gnocchi di latte alla romana erano, ai tempi jadis, il piatto di prammatica che i buoni romani solevano accompagnare ad ogni riunione che avesse lo scopo di festeggiare qualche cosa, e specialmente trovavano il loro trionfo in rinfreschi per battesimo o in cene carnevalesche. Il loro regno è — come del resto tante altre tradizioni di una Roma che può dirsi sparita — da tempo tramontato. Ma poichè si tratta di un piatto sano e gustoso, non sarà forse inutile rievocarlo. Mettete in una terrinetta sei rossi d'uovo, tre cucchiaiate ben colme di farina, un cucchiaio d'amido in polvere, un cucchiaio di zucchero, un cucchiaino di fecola di patate, un pizzico di sale e un nonnulla di noce moscata. Sciogliete il tutto con due bicchieri di latte in modo che non ci siano grumi, aiutandovi in questa operazione con una forchetta o meglio ancora con una frusta di fil di ferro, e travasate questo composto in una casseruola a fondo non troppo sottile. Aggiungete mezzo ettogrammo di burro e fate cuocere su fuoco moderato sempre mescolando con un cucchiaio di legno o con la frusta. Di quando in quando tirate indietro la casseruola e mescolate un po' più energicamente, e, facendo attenzione che il composto non debba attaccarsi, fate addensare questa specie di crema, che dovrà cuocere una diecina di minuti e risultare liscia, vellutata e consistente. Bagnate con un po' d'acqua il tavolo di marmo della cucina e versateci la crema, pareggiandola con un coltello, e dandole su per giù l'altezza di un centimetro. Lasciate freddare completamente, e quando la crema sarà ben rappresa dividetela con un coltello in tanti pezzi a forma di piccoli rombi che disporrete con garbo su una tortiera unta di burro. Fatto il primo strato ne farete un secondo e così di seguito, avvertendo di spolverizzare ogni strato con del parmigiano grattato e poca cannella in polvere. Messi a posto tutti gli gnocchi sgocciolate su essi un po' di burro liquefatto e passate la terriera in forno per una ventina di minuti, fino a che gli gnocchi avranno preso un bel color d'oro. A questo punto toglieteli dal fuoco, fateli portare in tavola e mangiateli caldi.
composto non debba attaccarsi, fate addensare questa specie di crema, che dovrà cuocere una diecina di minuti e risultare liscia, vellutata e
— (Dio, che preoccupazione, e che tentazione anche! Ma, e se scottasse? Provo o non provo? Prendo lo stecchino!) — o dopo il breve monologo che abbiamo sommariamente riassunto, con lo stecchino; e quando anche lo zucchero sarà alla caramella, versatelo pian piano e sempre mescolando, nella grande casseruola a bagno-maria, dove già sono il miele e le chiare. Fate attenzione che il grado di cottura dello zucchero non passi, e lo zucchero non debba colorirsi, altrimenti avreste dello zucchero bruciato. Sarà opportuno che, quando la cottura del miele è bene avanzata, cominciate a prepararvi lo zucchero, in modo da poterlo aggiungere nella casseruola grande, poco dopo messe le chiare. Fedeli alla consegna, non vi stancate mai di mescolare. Le chiare messe nel composto diluiscono necessariamente miele e zucchero. È dunque necessario, dopo fatto il miscuglio, di continuare un altro po' la cottura. Vedrete intanto che la massa bianca si va restringendo e indurendo. Provatene qualche po' nell'acqua, e quando constaterete che il composto è ben duro, senza tuttavia essere arrivato proprio alla caramella, mescolateci dentro le mandorle e le nocciole, calde, il candito in pezzetti — il quale ultimo non è necessario — e la raschiatura di un limone, che profumerà il torrone deliziosamente. Mescolate in fretta, perchè la massa tende a indurirsi, e procurate che le mandorle e le nocciole si amalgamino bene col composto di miele e zucchero. Ed ora il torrone è cotto; e ve ne accorgerete dal profumo che sale dalla vostra casseruola. Occorrerebbe adesso avere una specie di riquadratura di latta per colare il torrone. Ma trattandosi di piccole quantità, senza troppe complicazioni mettete delle ostie sul marmo di cucina, e su queste versate il torrone, cercando di dargli forma rettangolare, e aiutandovi in ciò con le mani o con una larga lama di coltello. Dovrete ottenere un rettangolo di una ventina di centimetri per quindici, e alto un paio di dita. Applicate anche sopra delle ostie, e pressate il torrone con un leggero peso. Lasciate così per un quarto d'ora e poi tagliate il torrone in pezzi lunghi. Ne otterrete da quattro a sei, secondo quanto vorrete farli grossi. Incartate i pezzi in carta paraffinata, per conservarli meglio.
casseruola a bagno-maria, dove già sono il miele e le chiare. Fate attenzione che il grado di cottura dello zucchero non passi, e lo zucchero non debba
Il gelato, col corteggio biondo e ghiotto di pastine che gli fanno scorta d'onore, è la conclusione graditissima di ogni fine desinare; non solo, ma durante la stagione estiva offre il più piacevole dei ristori, anche nel periodo che corre tra un pasto e l'altro. L'arte dei composti ghiacciati pare rimonti alla più lontana antichità, e, specialmente a un seguace di Maometto sembra si debba l'idea di far congelare succhi di frutta in un vaso circondato di ghiaccio. Ma senza addentrarci in queste noiose quanto inutili nebulosità della storia, accontentiamoci di affermare che certamente agli italiani del secolo XVII si deve la creazione e la divulgazione del vero gelato. Nel 1660 un meridionale, tal Procopio Calpelli, emigrava a Parigi fondando il famoso «Caffè Procopio», sparito da pochi anni, e nella capitale della Francia lanciava la sua celebre industria refrigerante, che otteneva un successo colossale. Il gelato non era allora un rinfresco accessibile a tutti: costava molto ed era solo riservato ai grandi signori. A questo proposito le cronache del tempo narrano che il giorno in cui il grande Condé ricevette nel suo Castello di Chantilly la regale visita di Luigi XIV, destarono generale ammirazione dei gelati in forma d'uovo che il genio di Vatel aveva preparato per gli ospiti illustri. Da quel tempo l'industria della gelateria ha progredito e si è popolarizzata, concorrendo a ciò la facile produzione del ghiaccio e le macchine sempre più perfezionate. E finalmente, anche la cucina di lusso si è impadronita di questo ramo dell'arte dulciaria,
rimonti alla più lontana antichità, e, specialmente a un seguace di Maometto sembra si debba l'idea di far congelare succhi di frutta in un vaso
Per un buon gelato di crema seguite queste proporzioni modificandole a seconda della capacità della vostra macchinetta. Latte litri uno, zucchero gr. 300, rossi d'uovo n. 10, profumo di vainiglia o di limone. Si sbattono in una casseruola ben netta i rossi d'uovo con lo zucchero e quando sono montati vi si unisce a poco a poco il latte bollente, nel quale si sarà tenuta in infusione una mezza stecca di vainiglia, o una sottile corteccia di limone. Non c'è bisogno di dire che, tanto l'uria che [immagine e didascalia: Macchinetta da gelato tipo per famiglia.] l'altra vanno tolte al momento della manipolazione. Rimettete la crema sul fuoco, sempre mescolando con un cucchiaio di legno e quando vedrete che è leggermente addensata e vela il cucchiaio, travasatela in una terrinetta attendendo che si freddi, e mescolandola di quando in quando, per impedirle di fare la pellicola superficiale. Condizione essenziale è che il composto non debba bollire. È anche buona pratica, dopo aver cotto la crema, di passarla da un setaccino. Mettete poi questa crema nella macchinetta, circondatela di ghiaccio pesto e gelatela nel modo che si disse più sopra. Avrete così un gelato da servire in bicchieri a forma di coppa e che si chiama «mantecato». Il mantecato si può facilmente ridurre in pezzo duro. Basterà provvedersi di una forma grande o di qualche formetta piccola, per operare senza troppa fatica la trasformazione. Le forme più adatte per questo genere di lavoro sono costituite da un cerchio sul quale vanno a incastrarsi due coperchi, uno sopra e uno sotto. Queste stampe possono essere di rame stagnato o anche di ferro stagnato, e sono in vendita in tutti i negozi di articoli di cucina. Ottenuto dunque il mantecato, foderate di carta la stampa grande o le stampine, riempite sollecitamente col mantecato, pareggiate la superficie, coprite con un foglietto di carta e finite calcando il coperchio. Mettete sotto ghiaccio per un'ora, poi aprite la stampina e sformate il gelato. Il ghiaccio dev'essere ridotto in piccolissimi pezzi e mescolato al sale in queste proporzioni: per ogni chilo di ghiaccio, 150 grammi di sale grosso. C'è anche chi consiglia di aggiungere una piccola dose di salnitro, ma il sale è già sufficiente per avere un efficace miscuglio frigorifero. I gelatieri usano uno speciale sale molto economico detto sale pastorizio; ma questo sale viene venduto dai depositi governativi soltanto in grandi quantità.
. Condizione essenziale è che il composto non debba bollire. È anche buona pratica, dopo aver cotto la crema, di passarla da un setaccino. Mettete poi
C'è un liquore gradevolissimo, l'alchermes, che caduto nelle mani di speculatori e di inesperti è a poco a poco diventato un vero veleno. Specialmente quello che molti pasticceri adoperano giornalmente per bagnare torte, diplomatici, zuppe inglesi, ecc., ha un orribile sapore dove unica nota dominante è il garofano. Eppure niente di più stomatico di un bicchierino di buon alchermes. Questo liquore così ingiustamente detronizzato da tante altre specialità venute dopo, ha un'origine illustre poichè sembra debba attribuirsi a Caterina dÈ Medici, che lo fece conoscere per la prima volta alla Corte di Francia. Alla manipolazione pare non fosse estraneo il profumiere e alchimista della regina, Roggieri, ma comunque sia, alla nobile famiglia medicea restò attribuita la creazione di questo elixir che, Leone X e Clemente VII ambedue della Casa Medici, chiamarono «Elixir di lunga Vita», e di cui il segreto di fabbricazione venne gelosamente custodito nella nobile famiglia, tanto che in Francia lo si chiamò «Liquore dei Medici». Mettete in un mortaio e pestate le seguenti droghe:
specialità venute dopo, ha un'origine illustre poichè sembra debba attribuirsi a Caterina dÈ Medici, che lo fece conoscere per la prima volta alla
I chimici hanno portato anche nel campo della conservazione del burro le loro ricerche e, naturalmente, molti sono i metodi proposti. Ma noi ci limiteremo ad insegnarvi quelli che per la loro praticità sono i più adatti a venire eseguiti in una famiglia. Una delle operazioni fondamentali per la conservazione del burro è quella d'impastarlo su una tavola di marmo, con le mani bagnate, allo scopo di eliminare tutto il siero che ancora il burro potesse contenere. Il burro va impastato energicamente come se si trattasse di fare una pasta da tagliatelle. Il marmo deve essere ben pulito, e lavato precedentemente con acqua bollente. Per facilitare l'eliminazione della parte lattifera, sarà bene lavare più volte il burro, mentre lo si impasta, con acqua fresca. Compiuta questa operazione preliminare si possono seguire due sistemi principali. 1o — Si può mettere il burro a strati in un vaso di terraglia pigiando bene i vari strati in modo da non lasciare vuoti, e quando il vaso sarà ben riempito capovolgerlo in una terrinetta contenente acqua fresca. II vaso col burro compie allora lo stesso ufficio della campana del palombaro, elimina cioè l'aria, e permette al burro di conservarsi piuttosto lungamente. L'acqua della terrinetta deve essere rinnovata ogni giorno. 2° — Dopo impastato il burro, lo si cosparge di sale fino, in ragione di un cinque o sei per cento del suo peso — cioè cinquanta o sessanta grammi per un chilogrammo — lo si mette in vaso come è detto più innanzi riempiendolo fino all'orlo, e poi si ricopre con una mussolina bianca, sulla quale si mette ancora uno strato di sale, chiudendo poi il vaso con un foglio di carta pergamena. Quando poi si incomincia ad adoperare il burro, si toglie dal vaso in strati orizzontali, riempiendo il vuoto con acqua fresca, che si rinnoverà tutti i giorni, oppure capovolgendo il vaso nella terrinetta, come più sopra. I barattoli vanno tenuti in una stanza fresca ed asciutta. Questi due sistemi danno ottimi risultati, come buon risultato dà la ghiacciaia, che conserva il burro a temperatura bassissima. Il burro si conserva assai bene con la fusione, o, come si dice, chiarificandolo. Giova però notare che con questo sistema esso perde una certa quantità del suo sapore, e quindi, mentre è ottimo per condimenti, per frittura e in tutte le preparazioni calde, non è ugualmente saporito consumandolo freddo. La chiarificazione si fa così. Si mette il burro in una casseruola, su fuoco debolissimo, e si fa fondere, senza che debba soffriggere. Si tiene la casseruola sul fuoco per una ventina di minuti, fino a che la caseina e il siero si separino e si depongano, lasciando apparire il burro limpidissimo. Si schiuma allora, si passa da un velo o da un setaccino finissimo, e si travasa in un barattolo terraglia. Quando il burro si è rappreso, si ricopre di uno strato di sale, e si chiude con un coperchio o con un foglio di carta pergamenata. Anziché fondere il burro su fuoco nudo, si può anche operare a bagnomaria. Si può conservare così il burro per un lungo periodo di tempo. Per togliere il rancido al burro, il metodo seguente è raccomandabilissimo. Si mette il burro in una terrinetta con acqua, nella quale si sia messo un po' di bicarbonato di soda — 15 grammi per un chilo di burro — e lo si impasta in quest'acqua, lasciandovelo poi per un paio d'ore. Trascorso questo tempo si estrae, si risciacqua in acqua fresca, si stende un po' sottilmente con le mani, si sala con 50 grammi di sale per ogni chilo, si impasta nuovamente e si conserva in barattoli di terraglia. Chiuderemo queste note insegnandovi un mezzo spicciativo per riconoscere se il burro è puro o è mescolato con altri grassi. Si mette un pezzetto di burro come una nocciola in un tubetto di vetro — una di quelle piccole provette adoperate nei laboratori chimici — o in un altro piccolo recipiente, vi si aggiunge un ugual volume di ammoniaca, e si espone alla fiamma di una lampada a spirito per portare burro e ammoniaca all'ebollizione. Dopo pochi secondi di ebollizione, si aggiunge un volume di ammoniaca leggermente maggiore del primo, si chiude il recipiente e si agita. Se il burro contiene margarina, oppure se è irrancidito, si produce una schiuma persistente, mentre nessuna schiuma si produrrà se il burro è puro e fresco.
si fa così. Si mette il burro in una casseruola, su fuoco debolissimo, e si fa fondere, senza che debba soffriggere. Si tiene la casseruola sul fuoco
Per un chilogrammo di salsiccie, tritate o passate grossolanamente a macchina 850 grammi di carne di maiale e 150 grammi di lardo non salato. Naturalmente facendo le salsiccie per uso proprio è bene adoperare carne di prima scelta, senza troppi nervi nè tendini. Condite l'impasto con una trentina di grammi di sale, abbondante pepe nero in polvere e un mezzo cucchiaino di salnitro in polvere. Maneggiate accuratamente la pasta, affinchè tutti i vari ingredienti si amalgamino perfettamente. Fornitevi di qualche metro di budellino in salamoia, che potrete acquistare presso i negozianti che lavorano carni di maiale, risciacquatelo accuratamente in acqua fresca e poi immergetelo in acqua tiepida per fargli acquistare una maggiore morbidezza. Coloro che lavorano carni suine hanno una speciale macchinetta per insaccare. Ma in famiglia si può raggiungere ugualmente lo scopo usando un imbuto a largo collo. Introducete dunque il collo dell'imbuto nel budello, e facendo una operazione simile a quella di calzare un guanto, aggrinzite man mano il budello, raccogliendolo tutto sul collo stesso dell'imbuto. Legate l'estremità del budello e poi tenendo verticalmente l'imbuto per il collo, in modo che il budello non debba scivolar via, mettete nel cavo dell'imbuto un po' di carne alla volta spingendola con un bastoncino per farla passare nell'intestino del maiale. È un'operazione facilissima. Man mano che la carne scende l'accompagnerete con una breve pressione della mano in modo che non rimangano vuoti, e nello stesso tempo lascerete scivolare a poco a poco dalla mano che tiene l'imbuto, un altro po' di budello. Se pi fosse qualche pezzetto rotto vi affretterete a fare una legatura per potere andare innanzi. Quando avrete insaccato tutta la carne, fate ad intervalli regolari di quattro dita delle legature sul lungo salcicciotto, e avrete così ottenuto una ventina di salsiccie, che lascerete asciugare per qualche giorno in un luogo tiepido.
che il budello non debba scivolar via, mettete nel cavo dell'imbuto un po' di carne alla volta spingendola con un bastoncino per farla passare nell