Molte di Voi, Signore e Signorine, sanno suonare bene il pianoforte o cantare con grazia squisita, molte altre hanno ambitissimi titoli di studi superiori, conoscono le lingue moderne, sono piacevoli letterate o fini pittrici, ed altre ancora sono esperte nel «tennis» o nel «golf», o guidano con salda mano il volante di una lussuosa automobile. Ma, ahimè, non certo tutte, facendo un piccolo esame di coscienza, potreste affermare di saper cuocere alla perfezione due uova alla «coque». Avete mai pensato che, non ostante le molte virtù di cui siete adorne, vi trovereste in un imbarazzo piuttosto serio, se per un caso fortuito foste costrette ad assumervi l'incarico di preparare la più modesta delle colazioni? Le Signore che ci leggono ne avranno certo fatta la non piacevole esperienza; ed anche Voi, gentili e graziose Signorine, che vi avviate a realizzare il vostro sogno d'amore, avrete, credete a noi, delle non lievi contrarietà se insieme alle doti della mente e del cuore non porterete al vostro compagno anche una perfetta conoscenza dell'arte della cucina. Pensate che non vi può essere una vera felicità là dove viene trascurata una parte così essenziale della nostra vita di tutti i giorni: l'alimentazione. Voi risponderete che è molto facile trovare una cuoca e trarsi rapidamente d'imbarazzo. Ebbene no. Ciò poteva accadere molti anni addietro; ma adesso, credete, questi tempi felici son passati, e le cuoche si fanno sempre più rare. E in ogni caso, anche quando voi per una fortunata combinazione foste riuscite a pescare questa perla rara, vi trovereste necessariamente costrette ad abdicare ad ogni vostra autorità, a rinunziare a qualsiasi controllo e lasciare che una persona mercenaria faccia e disfaccia a suo talento, imponendovi le sue opinioni, il più delle volte interessate o illogiche, spendendo il vostro danaro senza menomamente preoccuparsi di realizzare la più piccola economia. Di più le cuoche hanno i loro piatti di battaglia dai quali non ci si libera, e che, ripetuti alla sazietà, anche se ottimi, finiscono con lo stancare. Generalmente non si può chiedere alle cuoche più di quello che esse possono o vogliono dare. Inutile pensare dunque a preparazioni minuziose e pazienti. Tutto ciò che necessita un lavoro troppo lunga viene escluso e si ha il trionfo della cosidetta cucina volante: qualche frittura, molte frittate, dell'umido, carne al forno o in padella, il solito brodo o la non men solita pasta asciutta invariabilmente condita con burro e formaggio o con un po' di salsa di pomodoro, e l'eterna, malinconica verdura all' agro o in padella. Ed è tutto. Ma è questa la cucina? La cucina, la più gaia delle arti e insieme la più piacevole delle scienze, è qualche cosa di ben diverso; e solo conoscendone profondamente i segreti si può riuscire con semplicità di mezzi a preparare giorno per giorno una serie sempre variata di pietanze, spendendo il puro necessario e arrecando un senso di benessere nella propria famiglia. Con piena coscienza noi vi diciamo: Signore, perfezionate sempre più le vostre cognizioni di cucina; Signorine, imparate a ben cucinare. Un «menu» semplice e ben eseguito è la pace della famiglia, ed è anche la certezza di veder apparire a casa il vostro compagno non appena i suoi affari o il suo impiego lo lasceranno libero. La mensa famigliare, sulla quale a ora fissa faranno la loro gioconda apparizione due o tre pietanzine sapientemente preparate da manine care, sarà per lo sposo una immancabile attrazione.
giorno una serie sempre variata di pietanze, spendendo il puro necessario e arrecando un senso di benessere nella propria famiglia. Con piena
I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di
È innegabile che da qualche tempo in qua un grande progresso si è verificato anche in cucina. I nuovi metodi di riscaldamento, il diffondersi di utensili pratici ed igienici e sopratutto il salutare ritorno di molte signore alla immediata direzione della casa, hanno portato un evidente risveglio in questa parte tanto importante dell'azienda domestica, da cui principalmente dipende — non ci stancheremo mai di ripeterlo — il benessere e la prosperità della famiglia. La cucina, intesa nella sua vasta complessività, è arte e scienza insieme. E l'affermazione non sembrerà esagerata quando per cucina non s'intenda solamente il fatto più o meno meccanico di allestire qualche pietanza alla buona, ma quell'insieme di cognizioni tecniche che concorrono a fare dell'alimentazione una materia importante, quanto ad esempio, la conoscenza delle lingue o lo studio di uno strumento musicale. Conoscere la cucina non vuol dire mettersi alla stregua di una donna di servizio o di una cuoca, le quali generalmente sono appunto quelle che di cucina s'intendono meno, ma avere anche delle nozioni precise di igiene, di chimica elementare e di disegno: sapere, in altre parole, come si preparano nel miglior modo i cibi più svariati o la buona pasticceria, come si decora un piatto di cucina o una torta, come si fanno i liquori, i gelati, come si conservano le sostanze alimentari d'ogni specie, quali sono le cure da usarsi ai vini, e magari come si disegna un «menu» o si infiora una tavola. Accade spesso in famiglia, che una pietanza la quale generalmente vien bene, riesce qualche volta immangiabile. Come pure accade che un giorno la carne è troppo cruda, un altro troppo cotta; ora c'è troppo condimento, ora ce n'è troppo poco ecc. ecc. Tutto ciò dipende dal fatto semplicissimo che, in genere, si cucina a casaccio, e senza il più elementare raziocinio. Domandate a una donna di cucina perchè prepara una pietanza in quella data maniera; ed ella, novanta volte su cento, non saprà dirvene la ragione, o vi risponderà che fa così, come potrebbe fare in un altro modo. Tutto ciò, retaggio di una cucina empirica, deve scomparire. Se una pietanza riesce una volta, deve riuscire sempre; e la persona che sta al fornello, o per lei chi la dirige, deve sapere e perchè si cucina in quel dato modo, e perchè non si può cucinare che in quel modo. Come tutte le arti, come tutti i mestieri, anche la gastronomia ha le sue leggi, dalle quali non si può e non si deve derogare.
prosperità della famiglia. La cucina, intesa nella sua vasta complessività, è arte e scienza insieme. E l'affermazione non sembrerà esagerata quando per
Friggere bene non è da tutti, e spesso, anzi, è proprio qui che vengono miseramente a naufragare così la pretensiosa prosopopea di tante cuoche, come i facili entusiasmi di qualche dilettante di cucina. Generalmente si frigge male perchè non si ha un'idea esatta dell'operazione della frittura, la quale è essenzialmente operazione di «concentrazione». Per lo più si frigge a tre gradi principali: a padella moderata, a padella ben calda, a padella caldissima; stadi, codesti, che si riconoscono assai facilmente. Nondimeno chi non fosse molto pratico potrà regolarsi così. La frittura è moderatamente calda quando gettandovi dentro un pezzetto di pane, questo provoca l'azione del grasso o dell'olio, che incominciano il loro ufficio: è ben calda quando lasciandovi cadere una goccia d'acqua si sente un crepitio secco; e finalmente è caldissima allorchè dalla padella si sprigiona un leggero fumo biancastro. Naturalmente ad ogni preparazione sottoposta all'operazione della frittura deve adattarsi uno di questi tre gradi. Così si frigge a padella moderata tutto ciò che contiene acqua di vegetazione, come patate o altri legumi, o frutta; oppure pesce e carni piuttosto voluminosi, che debbono cuocere interamente nella frittura, e nei quali la cottura completa deve arrivare insieme con il croccante e il color d'oro dell'involucro esterno. Si friggono invece a padella ben calda quelle cose le quali hanno già subito un principio di cottura o una cottura completa. Si tratta in questo caso di formare subito intorno agli oggetti immersi nella frittura uno strato solido affinchè l'interno rimanga compresso e non vada a passeggiare per la padella. Si friggono così le costolette e qualunque altra preparazione alla Villeroy, le supplì, le crocchette di diverse specie, le creme fritte, ecc. Il terzo grado, cioè la frittura a padella caldissima, si usa per piccoli pesci, per provature, e in genere per tutte le cose di limitate proporzioni di cui il calore deve subito impossessarsi. La quantità della frittura deve essere sempre proporzionata all'importanza e al volume delle cose da friggere. In ogni caso questi oggetti devono essere completamente immersi. La pretesa economia di coloro che friggono con pochissimo liquido si risolve in loro danno, poichè prima di tutto il fritto vien male: molle o carbonizzato, e poi il poco liquido adoperato brucia facilmente e deve essere gettato via, mentre se si dispone di abbondante grasso o olio, alla fine si passa attraverso un setaccino e si tiene in serbo per un'altra volta. Qual'è la miglior frittura? II burro, intanto, no, poichè non ha forza nè resistenza. Nelle trattorie e negli alberghi dove c'è molto lavoro si adopera il grasso di rognone di bue, ciò che rappresenta la frittura classica di grande resistenza. Ma il grasso di bue si fredda troppo facilmente e lascia subito una patina sulle cose fritte, la quale a sua volta insega la bocca di chi mangia. Per famiglia è meglio dunque non pensare al grasso di bue e adoperare lo strutto o meglio ancora l'olio, mediante il quale si ottiene una frittura croccante e dorata. L'olio infatti senza considerare che dal lato igienico è infinitamente superiore allo strutto, dove non si mai quel che ci sia — può raggiungere fino i 290 gradi di calore, ciò che non si ottiene con nessuna altra frittura. Molti hanno una ingiustificata avversione per friggere con l'olio. Prendano dell'olio di qualità buona e provino. Ne saranno soddisfatti. L'olio fine non comunica nessun sapore sgradevole alle cose fritte. Molte volte si tratta di pregiudizi e nulla più.
patina sulle cose fritte, la quale a sua volta insega la bocca di chi mangia. Per famiglia è meglio dunque non pensare al grasso di bue e adoperare lo
Due sono i metodi per ottenere dell'arrosto: lo spiede o il forno. Dei due metodi, il primo è senza dubbio il migliore. Sarebbe quindi opportuno che in ogni famiglia ci fosse un girarrosto completo: composto cioè della grande conchiglia in ghisa dove si mette il carbone e qualche pezzetto di legna secca, del girarrosto propriamente detto, e della leccarda, sulla quale andranno a cadere i grassi che sgocciolano durante la cottura. Così senza fumo, senza cattivi odori e con una notevole economia di tempo si ottiene un arrosto ben colorito, succoso e profumato. Per questo genere di cottura dovete ricordare che l'intensità della sorgente calorifica deve essere proporzionata ai volume della carne da arrostire, affinchè la cottura della carne e la sua colorazione procedano di pari passo. Ricordate anche di ungere spesso la carne che sta arrostendo. Per l'arrosto al forno deve egualmente osservarsi lo stesso principio, che cioè cottura e colorazione procedano insieme. Mettete sempre le carni da cuocere nel forno già riscaldato, sia esso il forno della cucina a gas o il fornetto a lamiera, detto forno di campagna. Questa precauzione è necessaria per solidificare subito un leggerissimo strato all'esterno e racchiudere così i succhi che altrimenti andrebbero dispersi. Mantenete una giusta intensità di calore al forno, perchè in caso contrario l'arrosto vi risulterebbe insipido e molle come un pezzo di carne lessata.
in ogni famiglia ci fosse un girarrosto completo: composto cioè della grande conchiglia in ghisa dove si mette il carbone e qualche pezzetto di legna
Allo stesso modo, è inutile in famiglia pensare alla preparazione ugualmente lunga e noiosa della salsa vellutata, composta di burro e farina, ai quali si aggiunge del brodo, lasciando bollire per lunghissime ore. Dalla vellutata si ottiene poi l'alemanna, aggiungendo alla salsa ultimata dei rossi d'uovo e della crema di latte.
Allo stesso modo, è inutile in famiglia pensare alla preparazione ugualmente lunga e noiosa della salsa vellutata, composta di burro e farina, ai
Non ci sarebbe difficile presentare alle nostre lettrici una interminabile serie di antipasti freddi, poichè con un poco d'accortezza, infinite preparazioni di cucina possono venir portate a integrare la famiglia dei comuni antipasti. Ci limiteremo dunque al puro necessario, preferendo piuttosto accennare prima a quelle preparazioni che la cucina moderna accoglie tra gli antipasti raffinati, e cioè i «canapés», le barchette, le tartelette, le caroline, i burri composti, i burri creme, ecc.
preparazioni di cucina possono venir portate a integrare la famiglia dei comuni antipasti. Ci limiteremo dunque al puro necessario, preferendo piuttosto
Perchè questa pietanza conservi la sua finezza caratteristica, sarebbe necessario preparare in casa una pasta all'uovo, ben lavorata, tenuta piuttosto spessa, e ritagliata in fettuccine di un centimetro scarso di larghezza. Non volendo fare questo piccolo lavoro in famiglia potrete servirvi di fettuccine all'uovo comperate o delle abituali paste alimentari del commercio.
piuttosto spessa, e ritagliata in fettuccine di un centimetro scarso di larghezza. Non volendo fare questo piccolo lavoro in famiglia potrete servirvi di
Queste tagliatelle, vanto della succolenta cucina bolognese, sono poco conosciute fuori della cerchia delle due torri. A differenza di tutte le abituali paste all'uovo che si confezionano in famiglia, codeste tagliatelle sono colorate in verde mediante una piccola aggiunta di spinaci passati al setaccio i quali, oltre all'assicurare alla pasta il caratteristico colore, le comunicano anche un sapore tutto particolare. Di spinaci non ne occorrono molti. Dopo aver lessato come al solito un mazzo di spinaci ne prenderete, per la pasta, una quantità come una piccola mela, li spremerete energicamente per liberarli il più possibile dall'acqua e li passerete a setaccio. Molti si accontentano di tritare gli spinaci lessi sul tagliere, ma in questo caso la pasta non risulta abbastanza fine. Mettete sulla tavola di cucina da trecento a quattrocento grammi di farina, fate la fontana, rompete nel mezzo tre uova, aggiungete gli spinaci passati, un pizzico di sale e impastate il tutto come per la solita pasta all'uovo. È difficile precisare dosi esatte per la farina perchè alcune qualità assorbono più ed altre meno. Regolatevi per il meglio, cercando di ottenere una pasta piuttosto dura e ben lavorata. Stendetela in una o due sfoglie non troppo sottili e mettete ad asciugare le sfoglie su una tovaglia leggermente infarinata. Siccome gli spinaci comunicano un po' di umidità alla pasta, ci vorrà un pochino più di tempo prima che questa asciughi in modo che si possa tagliare senza che si attacchi. Quando dunque vedrete che la pasta è bene asciutta, spolverizzatela di farina, arrotolatela su se stessa e ritagliatela in tante fettuccine di un mezzo centimetro abbondante. Aprite le tagliatelle, e raccoglietele in un vassoio con salvietta perchè finiscano di asciugare. Fatte le tagliatelle bisogna preparare il sugo alla bolognese, il quale, anche, è un po' diverso dal solito sugo di umido. Per la quantità di pasta da noi data e che può bastare a quattro o cinque persone, prendete 150 grammi di carne magra di manzo e tritatela sul tagliere, o meglio passatela alla macchinetta con 50 grammi di pancetta salata (ventresca). Mettete sul fuoco una casseruola con 50 grammi di burro, una cipolla, una carota gialla e una costola di sedano, il tutto minutamente tritato, aggiungete la carne col grasso di maiale, un chiodo di garofano, e fate rosolare finchè carne e legumi abbiano preso un colore piuttosto scuro. Bagnate allora con un po' di brodo o acqua, condite con un po' di sale, aggiungete un cucchiaino da caffè — non più — di conserva di pomodoro, mescolate, coprite la casseruola e fate cuocere pian piano su fuoco moderato. C'è una tradizione bolognese più raffinata che consiglia di bagnare l'intingolo con latte invece che con brodo o acqua. È questione di gusti... e di spesa. Certo è che l'aggiunta di latte comunica alla salsa una maggiore finezza. Quando l'intingolo avrà sobollito per una mezz'ora si potranno aggiungere qualche fegatino di pollo, qualche dadino di prosciutto, qualche fungo secco fatto rinvenire in acqua fredda e qualche fettina di tartufo bianco. Ma tutte queste aggiunte sono facoltative e se ne potrà fare benissimo a meno, ottenendo ugualmente un ottimo risultato. Ultimata anche la salsa, lessate le tagliatelle, scolatele e conditele con l'intingolo, aggiungendo ancora qualche pezzetto di burro e del parmigiano grattato. Potrete mangiarle subito, o meglio lasciarle stufare un pochino nella terrina, coperte e vicine al fuoco affinchè possano insaporirsi meglio. Potendo disporre di qualche cucchiaiata di crema di latte, si può unire alla salsa al momento di condire le tagliatelle. In questo caso non è necessaria l'aggiunta del burro. Ci sono infine altri che dopo aver fatto arrosolare legumi e carne, prima di bagnarli col brodo, l'acqua o il latte, aggiungono nella casseruola una cucchiaiata di farina che serve a legare di più l'intingolo. Queste, le tagliatelle verdi. Crediamo inutile soffermarci sulle comuni tagliatelle alla bolognese, poinon differiscono dalle precedenti che per essere fatte con pasta all' uovo senza spinaci, fermo restando tutto il resto.
abituali paste all'uovo che si confezionano in famiglia, codeste tagliatelle sono colorate in verde mediante una piccola aggiunta di spinaci passati al
È un piatto di famiglia sano e gustoso, della cucina siciliana. Si potranno calcolare a seconda dell'appetito dei commensali, mezzo, uno o due piedi di porco a persona; ma noi crediamo che un piede a persona sia più che sufficiente. Si nettano bene i piedi e dopo averli raschiati e fiammeggiati, si mettono a cuocere in acqua con un po' di sale e qualche legume, come se si trattasse di preparare il brodo. Si lasciano bollire pian piano e a lungo fino a completa cottura. Mentre i piedi cuociono mondate un brocclo, dividetene la parte centrale in tante cimette, e lessatele, ma non troppo. Quando i piedi di porco saranno cotti, divideteli in due, e, se credete, portate via qualcuna delle ossa principali. Preparate anche delle salsiccie, facendole cuocere pian piano con un pochino di strutto o di olio in una padella, e bagnandole con qualche cucchiaiata di acqua per impedir loro di spaccarsi. Di queste salsiccie ne calcolerete una o due a persona. Quando le salsiccie saranno cotte, levatele dalla padella e tagliatele in fettine non troppo sottili. Prendete ora un tegame di terraglia, sul fondo di esso versate un ramaiolo o due di brodo in cui cossero i piedi di porco e fate un primo strato di piedi di porco. Su questo strato disponetene uno di broccoli, condite con abbondante pepe, un po' di formaggio grattato e qualche fettina di salsiccia cotta, e terminate con uno strato di fettine di formaggio fresco come mozzarella o provatura. Continuate a disporre a strati piedi, broccoli, salsiccie e formaggio fresco fino ad esaurimento, terminando con uno strato di broccoli. Versate su tutto un altro pochino di brodo e poi, a seconda del volume della pietanza, rompete in una scodella uno o due uova intiere, sbattetele come per frittata e poi versate queste uova sbattute, a cucchiaiate, sopra lo strato ultimo di broccoli. Mettete il tegame su un po' di brace, copritelo con un largo coperchio e su questo coperchio mettete anche della brace. Lasciate stufare così per una buona mezz'ora, e poi mandate in tavola senza travasare. L'uovo sbattuto avrà fatto alla superficie una appetitosa crosta dorata e i vari ingredienti avranno avuto modo di fondere armoniosamente i loro caratteristici sapori e profumi. C'è chi ama aggiungere una maggiore quantità di brodo per poter poi intingervi del pane, ma questa eccessiva diluizione nuoce, secondo noi, al risultato finale, sicchè crediamo sia meglio mettere soltanto quella quantità di brodo necessaria, affinchè quando il tegame verrà esposto al fuoco la pietanza non abbia ad attaccarsi, ma nello stesso tempo possa risultare, a cottura completa quasi asciutta.
È un piatto di famiglia sano e gustoso, della cucina siciliana. Si potranno calcolare a seconda dell'appetito dei commensali, mezzo, uno o due piedi
Bisogna scegliere dei panini di Vienna del tipo più piccolo possibile, calcolandone un paio a persona. Prendete dunque i panini, tagliatene una calotta, in modo da avere una specie di coperchio e, con un cucchiaino vuotateli di tutta la mollica. Si tratta ora di fare il ripieno, il quale potrà essere più o meno ricco a seconda della spesa che vorrete incontrare e in relazione anche con il tipo di colazione che avrete. Trattandosi infatti di una colazione di famiglia potrete, ad esempio, comporre il ripieno con funghi secchi, cotti in umido, amalgamati con un po' di carne trita avanzata e qualche pezzettino di prosciutto, o, se vorrete fare delle cose più ricche, potrete usare funghi, prosciutto, regaglie di pollo, qualche dadino d'uovo sodo, qualche fettina di mozzarella, ecc. Avete, dunque, la più ampia libertà di scelta. Certo è che più il ripieno sarà abbondante e variato, tanto più gustosa risulterà la pietanza. Riempite tutti i panini, rimettete loro i coperchi e tuffateli nel latte affinchè possano bene impregnarsene; passateli poi nella farina, nell'uovo sbattuto e finalmente friggeteli in una padella in cui sia abbondante olio o strutto. Quando avranno preso un bel color d'oro chiaro, estraeteli, lasciateli sgocciolare bene e accomodateli in un piatto con salvietta.
colazione di famiglia potrete, ad esempio, comporre il ripieno con funghi secchi, cotti in umido, amalgamati con un po' di carne trita avanzata e
In Piemonte la fonduta è uno dei piatti caratteristici di quella cucina, regionale, e si serve generalmente con un accompagno obbligato di tartufi bianchi. Ma trattandosi di cucina di famiglia si può rinunciare ai tartufi e preparare la fonduta più semplicemente: la pietanzina non perderà gran che della sua caratteristica. Per la fonduta occorre una speciale qualità di formaggio grasso, la fontina piemontese. Prendetene 300 gr. togliete via la corteccia, e dividete il formaggio in tanti dadini piccoli, che metterete in una scodella con mezzo bicchiere di latte. Lasciate ammorbidire il formaggio per circa mezz'ora, trascorsa la quale prendete una casseruola, rompeteci sei torli d'uovo e aggiungete un cucchiaino di farina. Stemperate il tutto con mezzo bicchiere di latte, e quando ogni cosa sarà ben sciolta aggiungete nella casseruola il formaggio in dadini con tutto il latte nel quale era in bagno. Mettete la casseruola su fuoco leggerissimo e con un cucchiaio di legno mescolate continuamente fino a che il formaggio sia ben sciolto e il composto sia diventato liscio come una crema. Ricordate che l'operazione va fatta a fuoco assai moderato e che la fonduta non deve bollire, Tirate indietro la casseruola, condite la fonduta con un pizzico di pepe bianco, ultimatela con qualche pezzetto di burro, versatela in un piatto e fatela servire. Sale generalmente non ne va messo poichè il formaggio basta di per sè a dare la giusta sapidità alla pietanza. A ogni modo prima di mandare in tavola assaggiate la fonduta, e, se del caso, aggiungete una presina di sale.
bianchi. Ma trattandosi di cucina di famiglia si può rinunciare ai tartufi e preparare la fonduta più semplicemente: la pietanzina non perderà gran che
Conoscete il pesce S. Pietro? Certo nella famiglia dei pesci non brilla per soverchia bellezza: scuro di aspetto, con un muso piuttosto imbronciato e delle ispide spine sulla groppa. Ma il S. Pietro può infischiarsene della sua poca venustà, e per due ragioni: la prima perchè è un pesce storico, la seconda perchè possiede una carne deliziosa. Si dice infatti che questo pesce fu toccato dalle mani dell'Apostolo pescatore, che non solo gli lasciò il suo nome, ma gli lasciò anche due segni visibili delle sante dita, segni che si riscontrano, uno di qua e uno di là, nel bel mezzo del dorso. Quanto alla squisitezza della sua carne, non è un mistero per i buongustai. Bollito o fritto il S. Pietro è buono, molto buono. E poichè della gente buona in questo tristo mondo ci si approfitta sempre, molti trattori e molti albergatori costruiscono coi filetti di S. Pietro, che costa meno, dei magnifici filetti di sogliole, che costano di più. È un ramo d'industria non troppo onesto, per quanto assai rimunerativo; e il S. Pietro, forse in omaggio al nome del grande Apostolo, cristianamente si rassegna, e lascia che la sua carne venga gabellata per filetti di sogliola alla Walenska. Réjane, Saint-Germain, Pompadour, Orly, Otéro, Mogador, ecc. Noi rifuggiamo dalle mistificazioni. Vi daremo dunque la ricetta per una squisita zuppa di pesce S. Pietro, zuppa che ha anche il pregio di uscire un po' dalla noia del consueto. Per otto persone acquistate un bel S. Pietro che pesi da un chilogrammo e mezzo a due. Nettatelo bene e risciacquatelo abbondantemente, e poi con un coltellino affilato sfilettatelo, staccando cioè dalla spina principale tutta la parte carnosa. L'operazione è facile e si eseguisce molto bene incominciando col fare un'incisione lunga e profonda su tutto il dorso e staccando poi con la lama del coltello tutta la carne dalla spina, prima da una parte e poi dall'altra. Se poi crederete che l'operazione sia troppo lunga, affidatela al negoziante che vi venderà il pesce, il quale vi caverà rapidamente d'impaccio. Mettete da parte la carne e tagliate in pezzi la testa e i cascami. Ponete una casseruola sul fuoco e in essa mettete un po' d'olio, una noce di burro, qualche aroma, come cipolla, carota gialla, prezzemolo, sedano, ecc., il tutto tritato, aggiungendo anche, se ne avete, un pizzico di funghi secchi. Appena i legumi saranno imbionditi mettete nella casseruola i cascami del pesce, e dopo che anche questi saranno rosolati bagnate ogni cosa con un litro e mezzo d'acqua ai quali aggiungerete un bicchiere di vino bianco. Condite con sale e pepe e lasciate bollire moderatamente. Dopo una mezz'ora prendete un'altra casseruola, metteteci una buona cucchiaiata di burro, e quando il burro sarà liquefatto aggiungete due cucchiaiate di farina, mescolate e lasciate cuocere pian piano per quattro o cinque minuti, sempre mescolando. Allora, per mezzo di, un colabrodo, passate il brodo del pesce nell'altra casseruola dove è la farina col burro, mescolate ancora per sciogliere bene la farina e continuate ad aggiungere il brodo di pesce fino a completo esaurimento. Rimettete il brodo sul fuoco e fate bollire nuovamente per un'ora, sull'angolo del fornello, togliendo man mano, con una cucchiaia bucata, la schiuma e le altre impurità che man mano verranno a galla. Quest'operazione, in termine di cucina, si chiama spogliare. Avvicinandosi l'ora del pranzo, prendete la carne del pesce lasciata in disparte, togliete la pelle e dividete i filetti in tanti pezzetti quadrati di un paio di dita di lato. Metteteli sul fuoco in una teglia con un po' di burro, conditeli con sale e pepe, bagnateli con un po' di vino bianco e lasciateli stufare, coperti, per qualche minuto. Appena cotti toglieteli dal fuoco mantenendoli in caldo vicino al fornello. Al momento di andare in tavola, mettete un paio di rossi d'uovo in una zuppiera, sbatteteli con una forchetta, stemperandoli con un po' di sugo di limone e conditeli con una cucchiaiata di prezzemolo trito. Su queste uova travasate il brodo di pesce, mescolate per amalgamare bene ogni cosa, poi distribuite nelle varie scodelle i quadratini di pesce cotto aggiungendo anche dei dadini di pane fritto, o più semplicemente, dei crostini abbrustoliti. Completate ogni scodella col brodo e fate portare in tavola.
Conoscete il pesce S. Pietro? Certo nella famiglia dei pesci non brilla per soverchia bellezza: scuro di aspetto, con un muso piuttosto imbronciato e
Prendete una cipolla piuttosto grande, tagliatela in fette sottili e gittate per un momento queste fette in un tegame con acqua in ebollizione. Dopo un minuto o due scolatele, passatele in acqua fredda e asciugatele in una salvietta. Mettete poi la cipolla a imbiondire in una teglia con qualche cucchiaiata d'olio, e quando avrà preso colore aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco. Fate ridurre l'intingolo della metà e poi aggiungete cinque o sei pomodori spellati e tagliati in pezzi, o, in mancanza di questi, una buona cucchiaiata di salsa di pomodoro. Fate cuocere il pomodoro e poi mettete nella teglia una ventina di sarde private della testa e ben nettate. Allineate codeste sarde in un solo strato, conditele con sale e pepe e poi ricopritele di mollica di pane grattata, mescolata con una cucchiaiata di semi di finocchio pestati nel mortaio. Fate sgocciolare sulla mollica di pane un po' d'olio, e poi mettete la teglia con le sarde in forno, o con un leggero fuoco sotto e sopra fino a che il pane abbia preso un bel colore e le sarde sieno cotte: per il che si richiederà circa una mezz'ora. Le sarde potranno essere servite così senza toglierle dalla teglia se si tratterà di una colazione di famiglia. Nel caso aveste degli ospiti, potrete travasarle nel piatto o meglio prepararle addirittura in uno di quei piatti di porcellana resistenti al fuoco, detti piatti da gratin.
colazione di famiglia. Nel caso aveste degli ospiti, potrete travasarle nel piatto o meglio prepararle addirittura in uno di quei piatti di porcellana
Sul modo di cucinare le aragoste, generalmente non si ha in famiglia una grande ricchezza di idee, perchè ci si limita per lo più all'eterna aragosta lessa, con la salsa maionese di rito. Certo questa maniera di rendere funebri onoranze al saporoso crostaceo non è da disprezzare, visto che il dolciastro della aragosta lega a meraviglia coll'untuosità della salsa maionese. Ma quando avrete gustato la aragosta arrosto, così come noi ve la insegnamo, al suo confronto troverete ben scipita la tradizionale aragosta lessa. Della aragosta non si deve abusare poichè la sua carne riesce piuttosto greve allo stomaco. Per quattro persone sarà sufficiente un'aragosta di mezzo chilogrammo. A differenza della aragosta lessa, questa da prepararsi arrosto va spaccata viva. Comprendiamo: non è una morte molto piacevole che si fa fare alla povera bestia, ma tra l'essere aperta viva o l'essere tuffata in un bagno d'acqua bollente, crediamo che l'aragosta non abbia predilezioni. Prendete dunque la aragosta, mettetela sul tagliere coricata sul ventre, poi tenendola ferma per il busto con la mano sinistra, infilate il coltello nel mezzo del dorso e dividetela in due nel senso della lunghezza. Angosciosi e brevi sono gli istanti! come canta Gioconda a Laura, e poi più nulla. Il crostaceo è passato rapidamente a miglior vita, portando forse seco un nostalgico ricordo di alighe verdi e di solitudini marine. Togliete con attenzione il budellino terroso che va dall'estremità della coda al busto, e poi ponete i due pezzi in una piccola teglia avvertendo che, naturalmente, la parte carnosa rimanga di sopra. Mettete in un piatto una mezza cucchiaiata di senape inglese, un pizzico di pepe, un po' di prezzemolo trito, una pizzicata d'origano e un pochino di sale. Sciogliete tutto ciò con un paio di cucchiaiate di olio, aggiungendo in ultimo un pezzo di burro, come una grossa noce sciolto in un tegamino. Stendete questa composizione sulla carne dell'aragosta, e ricopritela con della mollica di pane fresco grattata. Pigiate leggermente con la lama di un coltello la mollica, affinchè aderisca, sgocciolate su tutto un altro pochino d'olio e mettete la aragosta in forno piuttosto vivace per un quarto d'ora. Accomodate l'aragosta in un piatto e fatela portare subito in tavola, insieme con un piattino di spicchi di limone. E sarete piacevolmente sorprese del profumo e del sapore di questa aragosta racchiusa nel suo guscio, a cui il forno ha dato una colorazione fiammante.
Sul modo di cucinare le aragoste, generalmente non si ha in famiglia una grande ricchezza di idee, perchè ci si limita per lo più all'eterna aragosta
Per una famiglia un po' numerosa questa pietanza è raccomandabilissima. Prendete grammi 300 di farina, disponetela sulla tavola a fontana, nel centro mettete un pezzetto di burro (la quarta parte di un ettogrammo), 20 grammi di lievito di birra, sale e sciogliete il tutto con un bicchiere scarso di acqua tiepida. Impastate bene con la farina, battete un po' la pasta per renderla liscia e morbida e lasciatela riposare. Da sei ettogrammi di manzo tagliate sedici bistecchine. Nel centro di ognuna mettete una fettina di prosciutto, un pezzetto di burro, una presina di sale e arrotolate la bistecchina su sè stessa in modo da ottenere un involtino. Spianate la pasta, tagliatela in sedici quadrati e in ognuno di questi ponete un involtino di carne. Bagnate gli orli dei quadrati con acqua e racchiudete in essi gli involtini. Imburrate una grande teglia, disponetevi i piccoli pâtés non tanto vicino uno all'altro e infornate per circa tre quarti d'ora, fino a che i piccoli pâtés siano un po' gonfiati, coloriti e cotti a giusto punto. Potrete regolarvi che un ettogrammo di burro e un ettogrammo di prosciutto sono sufficienti per la composizione della pietanza. Mangiate i pâtés caldi o freddi: sono buonissimi in tutti e due i modi.
Per una famiglia un po' numerosa questa pietanza è raccomandabilissima. Prendete grammi 300 di farina, disponetela sulla tavola a fontana, nel centro
La cima è una famosa specialità della cucina genovese e costituisce un ottimo piatto di carne il quale non solo può tornare utilissimo nei pasti quotidiani, ma, per l'eleganza della sua confezione può servire anche come pietanza raffinata in occasione di qualche pranzo d'impegno. La sua esecuzione non presenta alcuna difficoltà. Bisogna provvedersi di uno speciale taglio di carne, cioè un pezzo di ventre di bue scelto vicino al petto, o anche di un pezzo di petto sottile. Notiamo qui che la vera cima genovese si fa col ventre, che però non offre altro che della pelle. Adoperando il petto si può utilizzare anche un po' di carne. Comunque, in possesso del pezzo di carne (ce ne vorrà circa mezzo chilogrammo) stendetelo sulla tavola e con un coltello ben tagliente apritelo in due senza però intaccare gli orli che dovranno rimanere di circa due centimetri. Per intenderci meglio, voi dovrete ottenere una specie di tasca aperta da un solo lato. Questo forma l'involucro destinato ad accogliere il ripieno. Il quale ripieno si fa così: prendete una animella di vitello, scottatela un istante in acqua bollente, liberatela da qualche pellicola e poi mettetela in una padellina con un pochino d'olio e di burro, un pezzettino d'aglio e poca cipolla. Fate cuocere piano per pochi minuti senza far rosolare l'animella, e poi toglietela dal fuoco e ritagliatela in dadini assai piccoli. Mettete in bagno 100 grammi di mollica di pane, spremetela e mettetela sul tagliere con 200 grammi di magro di maiale e 50 grammi di lardo. Tritate tutto assai fino, condite con sale e pepe, una buona pizzicata di foglie di maggiorana un uovo e un pugno di parmigiano grattato e in questo trito amalgamate l'animella in dadini e 100 grammi di pisellini sgranati. Nella stagione in cui non ci sono i piselli freschi si supplisce efficacemente e in modo assai sbrigativo con piselli in scatola. Ottenuto questo impasto, mettetelo dentro la tasca preparata, pigiate bene affinchè non restino vuoti e procurate di dare all'insieme una forma rotonda. Con un ago grosso e del filo forte cucite l'apertura della tasca, cucendo anche qualche eventuale strappo che si fosse fatto durante l'operazione. Fate due o tre legature con dello spago per mantenere in forma la cima e poi mettetela a cuocere in acqua, preferibilmente calda, nella quale aggiungerete una mezza cipolla, una costolina di sedano, un pezzo di carota gialla e un pezzetto di foglia di lauro. Trascorse un paio d'ore estraete la cima, mettetela in un piatto, copritela con una tavoletta e sulla tavoletta appoggiate un paio di ferri da stiro, affinchè l'interno possa ben pressarsi. Questa squisita pietanza si può mangiare calda o fredda. Se volete mangiarla calda tenetela a riposare vicino al fuoco. In questo caso, giunta l'ora del pranzo, l'affetterete con un coltello ben tagliente e la servirete con un piatto di verdura cotta, a vostra scelta. Se volete invece mangiarla fredda, lasciatela riposare più a lungo in un ambiente fresco, poi affettatela e servitela con accompagnamento di gelatina o di insalata russa o anche di verdura all'agro. Il brodo che avrete ottenuto dalla cottura della cima, è ottimo e potrà essere utilizzato per delle eccellenti minestre. La vera ricetta, quella che abbiamo descritta, vuole l'impiego di una animella di vitello. Volendo fare le cose in via più economica, potrete sopprimerla ed otterrete ugualmente un piatto di carne squisito e raccomandabilissimo per famiglia.
A quasi tutti riesce graditissimo il pollo alla diavola, il quale, a dispetto del suo nome infernale, è molto buono e si lascia mangiare senza la più piccola protesta. Sarà preferibile scegliere dei polli non troppo grossi, ma bene in carne e teneri. Dopo avere ben fiammeggiato il pollo per liberarlo dalla peluria, si mette sul tagliere con la groppa in alto, e con un coltello a punta si fende in lungo tutta la groppa. Si apre il pollo, si libera dalle interiora, ai lava e si asciuga. Fatto questo si rimette sul tagliere con la groppa tagliata in giù, e con la mano si preme sul petto, in modo da schiacciare il pollo senza tuttavia deformarlo. Si prepara un piatto con olio, sale e pepe, e con quest'olio preparato si unge bene il pollo, che si mette poi sulla gratella a fuoco piuttosto vivace. Si volta di quando in quando, e lo si unge spesso. Se il pollo è giovine, una mezz'ora di cottura è più che sufficiente. Si mette il pollo nel piatto e si guarnisce con qualche spicchio di limone. Nelle cucine di restaurant o di albergo si usa per questa preparazione una doppia gratella, nella quale il pollo rimane stretto, sì che non si volta il pollo, ma la gratella. Ma trattandosi di cucina di famiglia può bastare una semplice gratella da bistecche. Il pollo viene bene ugualmente.
di famiglia può bastare una semplice gratella da bistecche. Il pollo viene bene ugualmente.
Nel secondo metodo, quello casalingo, si cerca invece di ottenere il maggior profitto dalla lingua. Si passa sulla fiamma, si spella, si risciacqua e poi si mette a lesso. Una lingua ha un peso che generalmente oscilla da un chilogrammo e duecento a due chili. Con essa dunque, con o senza una piccola aggiunta di carne di manzo, si otterrà un brodo assai buono, specialmente se si avrà cura di abbondare in legumi. Questo brodo in una famiglia non troppo numerosa può servire anche un paio di volte: togliendosi così un pensiero a chi presiede alla direzione della cucina. Quando la lingua sarà cotta, ma non troppo — ci vorranno sempre un paio d'ore — estraetela dal brodo, e toglietele la seconda pelle, che verrà via molto facilmente. Se in famiglia non si è in troppi, una lingua di peso normale basterà comodamente per due pasti, e allora una volta potrà mangiarsi bollita con la salsa verde e in un altro pasto farla in agro-dolce nel modo facilissimo che insegniamo qui appresso. Tagliate la lingua in fette di mezzo centimetro e mettete queste fette in un piatto. Prendete un tegame piuttosto largo sia esso di rame o di terraglia, metteteci una cucchiaiata di strutto o di burro, un po' di cipolla finemente tritata, e un pezzettino di carota gialla. Aggiungete anche qualche fettina di grasso di prosciutto tritata sul tagliere con mezzo spicchio d'aglio e una cucchiaiata di prezzemolo, e quando la cipolla sarà leggermente colorita mettete nel tegame le fette di lingua procurando che non stiano troppo sovrapposte. Fate insaporire per qualche minuto, e poi spolverizzate le fette di lingua con una mezza cucchiaiata di farina; aggiungete ancora un nonnulla di sale e una pizzicata di pepe; voltate delicatamente le fette e poi bagnatele con mezzo bicchiere d'aceto e un bicchiere d acqua o meglio di brodo. Aggiungete ancora un paio di cucchiaiate di zucchero in polvere e un paio di cucchiaiate colme di cioccolato grattato, una foglia di alloro, che poi toglierete, un pugno di pinoli, e, se credete, qualche viscida secca che avrete tenuto a rinvenire in acqua tiepida e a cui avrete tolto il nocciolo. Mescolate adagio per unire tutti questi ingredienti e fate sobbollire dolcemente per una diecina di minuti affinchè la lingua possa insaporirsi perfettamente e la salsa restringersi a punto. Assaggiate la salsa e se vi parrà troppo forte aggiungete un altro pochino di zucchero; altrimenti correggete con poco aceto. Però è bene mantenerla piuttosto dolciastra. Va con sè che non avendo i pinoli e le visciole potrete farne a meno senza che il risultato finale ne venga menomamente compromesso. Accomodate le fette di lingua in un piatto, ricoprendole con la loro salsa che dovrà essere piuttosto densa, scura e vellutata.
piccola aggiunta di carne di manzo, si otterrà un brodo assai buono, specialmente se si avrà cura di abbondare in legumi. Questo brodo in una famiglia non
Non che il rognone sia un alimento di tutti i giorni, ma usato di quando in quando può piacere e contribuire a dare una certa varietà ai menù quotidiani. Ma il rognone viene generalmente mal preparato in casa; e spesso coloro che ne mangiano volentieri in trattoria o in albergo rinunziano a farlo cucinare in famiglia per quello sgradito sapore che esso acquista. Le donne di servizio e le cuoche hanno, per preparare il rognone, sistemi assolutamente barbareschi, e ne risulta una vivanda dura, tigliosa e non eccessivamente piacevole all'odorato. V'insegneremo qui il migliore modo per cucinare il rognone ed ottenere una pietanzina delle più squisite. Il rognone di vitello non è molto conveniente per famiglia. È ottimo, ma costa salato, quasi come una buona bistecca. In ogni modo per chi avesse l'occasione di cucinarlo eccone il semplicissimo procedimento. Si apre il rognone in due parti, e di ogni pezzo si fanno due fettine, si mettono queste fette in un piatto, si condiscono con olio, sale e pepe e si lasciano star così circa un'ora. Al momento di andare in tavola si dispone il rognone sulla gratella e si arrostisce a fuoco moderato. In pochi minuti sarà fatto. Accomodatelo in un piatto, spruzzateci su un po' di sugo di limone e mangiatelo caldissimo. Il rognone di vitello non esige operazioni preliminari, indispensabili invece quando si tratti del rognone di bue. Per ottenere un risultato certo, seguite perfettamente le istruzioni seguenti. Per sei persone prendete un bel rognone di bue, osservando che sia fresco e di bel colore — se avesse un color smorto e delle macchie verdastre rifiutatelo senz'altro — liberatelo accuratamente da ogni residuo di grasso, e tagliatelo, come un salame, in fette sottilissime. Mettete in una padella un cucchiaio di olio, o una piccolissima quantità di strutto; aggiungete il rognone tagliato, e mettete su fuoco molto forte. Dopo due o tre minuti, quando vedrete che il rognone perde il suo color sanguinolento ed incomincia a rosolarsi, levate la padella dal fuoco, versate il rognone in un colabrodo e appoggiate il colabrodo su una scodella. Vedrete ben presto che il rognone incomincerà a sgocciolare un sugo nerastro e sanguigno; lasciatelo sgocciolare per una diecina di minuti. Nettate intanto la padella, metteteci una cucchiaiata di strutto, o dell'olio se più vi piace, tagliate finemente una mezza cipolla e fatela imbiondire adagio adagio su fuoco moderato. Trascorsi i dieci minuti, il rognone avrà sgocciolato quasi una scodella di sangue e con esso tutte le sue impurità. Si ravviva allora il fuoco, si getta il rognone nella padella con la cipolla, si bagna con mezzo bicchiere di vino bianco, o meglio ancora due dita di buon marsala, ci si unisce un mezzo cucchiaio di salsa di pomodoro, sale e pepe, e sempre su fuoco vivace si fa cuocere per altri due o tre minuti. Si rovescia in un piatto, ci si getta sopra una cucchiaiata di prezzemolo finemente tritato e si contorna con crostini di pane fritto. È buona regola riscaldare prima il piatto versandoci un ramaiuolo d'acqua bollente e poi asciugandolo. Il rognone così preparato si può servire benissimo in una colazione anche elegante, e farà una ottima figura se verrà presentato in tavola in un piatto d'argento o di metallo argentato. Per concludere, il rognone deve cuocere appena quel tanto necessario e non inseccolirsi sul fuoco, deve gettar via completamente tutta la parte sanguigna e deve essere gustato appena fatto. Soltanto a questa condizione avrete una eccellente pietanza tenera e saporita. Con l'identico sistema potrete preparare i rognoni di maiale, i quali, purchè cucinati a regola d'arte, sono squisiti.
cucinare in famiglia per quello sgradito sapore che esso acquista. Le donne di servizio e le cuoche hanno, per preparare il rognone, sistemi
Nella galantina, come in tutte le vivande molto lavorate, entra un coefficiente non trascurabile: quello che potrebbe definirsi la questione della fede. Infatti, in gran parte delle galantine che si vendono sotto il titolo pomposo di galantine di pollo, il pollo — povera bestia calunniata — entra soltanto nominalmente. Eseguendo la galantina in casa, non solamente sarete sicuri di quello che mangerete, ma spenderete la metà di quello che dovreste spendere dal salsamentario o al restaurant, col vantaggio di avere un prodotto sceltissimo e di gusto infinitamente superiore. Praticamente la galantina consta di tre elementi principali: il mosaico, ossia quell'insieme di dadi di petto di pollo, tartufi, prosciutto, lingua, ecc., che danno alla galantina il suo caratteristico aspetto; il pesto o, come si dice in linguaggio di cucina, la farcia, che serve a cementare i vari pezzi del mosaico, e finalmente la pelle del pollo, che racchiude tutta la preparazione. Prendete un pollo o una gallina non troppo vecchia, badando che non abbia lacerazioni sulla pelle, fiammeggiatela per liberarla dalla peluria e poi collocatela sul tagliere col petto in giù. Tagliate il collo a due dita dalla attaccatura e spuntate le ali e le zampe. Poi con un coltellino a punta fate una lunga incisione sul mezzo del dorso, dal collo fino alla estremità opposta. Sollevate la pelle e aiutandovi con le dita e col coltellino, staccatela pian piano dalla cassa, prima da un lato e poi dall'altro. Arrivate che sarete alle ali rovesciate la pelle e cercate di farla uscire nè più nè meno si trattasse di un corpetto a maglia, e ugualmente fate per le cosce. Per far ciò facilmente, aiutatevi col coltellino, staccando man mano i piccoli nervi che trattengono la pelle. Continuate il vostro lavoro fino a che avrete tolto per intero la pelle. Prendete allora una terrinetta, arrotolate la pelle e mettetela dentro, bagnandola con un bicchierino di marsala e in questa terrinetta col marsala metterete anche i seguenti ingredienti che comporranno il mosaico interno della galantina: 1° Tutto il petto del pollo, staccato dalla cassa e tagliato in dadi. 2° Un ettogrammo di prosciutto — solo magro — tagliato in una sola fetta spessa e ritagliato in dadi. 3° Un ettogrammo di lingua allo scarlatto, anche tagliata in dadi; 4° Un pizzico di pistacchi, che terrete in bagno in un po' d'acqua tiepida, sbuccerete e lascerete interi. 5° Due o tre tartufi neri di buona qualità. Se adopererete tartufi in scatola basterà tagliarli in pezzi secondo la loro grossezza. Se invece adopererete tartufi freschi, dovrete prima spazzolarli accuratamente con un spazzolino e dell'acqua tiepida per poterli liberare bene dalla terra e poi toglier via anche qualche po' di corteccia dove la terra non si fosse potuta snidare perfettamente. 6° Un ettogrammo di lardo imbianchito. Per imbianchire il lardo farete così. Ne prenderete una fetta spessa del peso di un ettogrammo e la metterete sull'angolo del fornello in acqua bollente per una ventina di minuti. Trascorso questo tempo, l'estrarrete, la passerete in acqua fresca, l'asciugherete e la taglierete in dadi come il prosciutto e la lingua. Il lardo così preparato perde il suo sapore grasso e fa inoltre migliore effetto nel mosaico. Preparata tutta questa roba, conditela con pochissimo sale, un pizzico di pepe e un nonnulla di noce moscata e poi mescolate ogni cosa affinchè tutti gli ingredienti possano essere bagnati dal marsala. Coprite la terrinetta e lasciatela da parte. Ottenuto così il mosaico, passiamo alla confezione della farcia, ossia, come abbiamo già detto, al pesto che deve riunire i vari pezzi del mosaico. Prendete 400 grammi di vitello magro e tritatelo minutamente sul tagliere insieme con 400 grammi di lardo di buona qualità, e sopratutto non rancido. A questo pesto unirete tutta la carne rimasta attaccata al pollo e che staccherete accuratamente, privandola dei nervi e dei tendini, che abbondano specialmente nelle cosce. Pestate il più fino possibile e impastate col coltello in modo che carne e lardo non formino che un tutto unico, perfettamente amalgamato. Per maggiore economia od opportunità, potrete mettere nel trito metà carne di vitello e metà carne magra di maiale. Ma in questo caso, essendo la carne di maiale un poco più grassa, converrà fare quattro parti di carne mista e tre parti di lardo: ossia, nel nostro caso, duecento grammi di vitello, duecento di maiale e trecento di lardo. La farcia ben tritata sul tagliere può essere sufficientemente adatta per la galantina. Chi però volesse eseguire la preparazione a perfetta regola d'arte, dovrebbe dopo il tritamento sul tagliere, prendere un po' di farcia alla volta, pestarla in un mortaio di pietra, e dopo averla tutta pestata, passarla dal setaccio. È un supplemento di lavoro non assolutamente necessario in una cucina di famiglia, ma che permette di ottenere una lavorazione finissima e perfetta. Ultimata anche la farcia, estraete dalla terrinetta la pelle del pollo e tenetela da parte. Mettete allora nella terrinetta la farcia e impastando con le mani fate che i dadi di petto di pollo, lingua, prosciutto, ecc., vadano a distribuirsi nella carne trita. Non vi preoccupate del marsala rimasto nella terrinetta, perchè verrà assorbito nell'impasto. Svolgete sul tavolo la pelle del pollo, allargatela e su essa ponete l'impasto, al quale cercherete di dare una forma leggermente allungata come un polpettone. Tirate su i lembi della pelle, racchiudete l'impasto, e poi con un ago e del filo cucite intorno intorno la pelle sempre cercando di dare alla galantina una forma corretta. Se qualche pezzetto di pelle si fosse lacerata riprendetela con un punto. Per ultimo date coll'ago cinque o sei punzecchiature alla pelle, qua e là. Prendete adesso un tovagliolo e avvolgete in esso la galantina. Attorcigliate le due estremità del tovagliolo, come se doveste incartare una grossa caramella, e nei due punti di torsione fate due legature con lo spago, una di qua e una di là. Finalmente, fate un altro paio di legature nel mezzo della galantina. La parte più difficile del lavoro è fatta.
lavoro non assolutamente necessario in una cucina di famiglia, ma che permette di ottenere una lavorazione finissima e perfetta. Ultimata anche la
Se la cucina intesa nei suoi molteplici aspetti può simpaticamente interessare una signora, questo interesse è tanto maggiore nella pasticceria, la quale è un'arte così piacevole, delicata e fine che sembra ideata per gentili mani di donna. È qui che la genialità e il buon gusto di una signora possono trovare la loro migliore espressione, specie per quel che riguarda la sobria decorazione di dolci o di gelati, l'artistica maniera di accomodare per un buffet torte, paste dolci o pastine, e via dicendo. Conoscendo, per la lunga esperienza fattane, l'importanza che può avere in famiglia la confezione di una buona pasticceria, abbiamo accordato a questo capitolo un più ampio svolgimento, così da mettere in grado le nostre lettrici di eseguire agevolmente qualunque preparazione, anche la più difficile.
per un buffet torte, paste dolci o pastine, e via dicendo. Conoscendo, per la lunga esperienza fattane, l'importanza che può avere in famiglia la
Il pan di Spagna differisce dalla «genoise», con la quale ha una stretta affinità, e perchè viene lavorato freddo e perchè si montano separatamente i bianchi e i rossi delle uova. Mettete in una insalatiera cinque rossi d'uovo e cinque cucchiaiate colme di zucchero (150 grammi) e lavorate energicamente con un cucchiaio di legno finchè il composto sia ben montato, leggiero e rigonfio. Montate a parte i cinque bianchi d'uovo rimasti e sbatteteli bene con una frusta di fil di ferro, fino ad averli in neve ferma. Unite delicatamente le chiare alle uova e poi versate su tutto, a pioggia, cinque cucchiaiate di farina (125 grammi). Si potrà aromatizzare il pan di Spagna con un po' di vainiglia o con un po' di corteccia grattata di limone o di arancio. I pasticceri, che preparano delle grandi quantità di pan di Spagna, usano cuocerlo in stampe grandi rettangolari che foderano di carta e appoggiano sulle lastre da pasticceria. Ma trattandosi di modeste proporzioni di pasta, necessaria ai bisogni di famiglia, conviene meglio cuocere il pan di Spagna in una teglia, imburrata ed infarinata. Il pan di Spagna dovrà rimanere in forno per circa mezz'ora.
appoggiano sulle lastre da pasticceria. Ma trattandosi di modeste proporzioni di pasta, necessaria ai bisogni di famiglia, conviene meglio cuocere il pan di
Il Saint-Honoré consta essenzialmente di due parti: la parte inferiore formata da un disco di pasta sfogliata e la corona, formata da tanti piccoli choux ripieni di crema o zabaione, e attaccati al dolce con zucchero caramellato. Le dosi sono per sei persone. Fate anzitutto il disco di pasta sfogliata con burro grammi 100, farina grammi 100, tre cucchiai circa di acqua, un pizzico di sale. Ottenuta la pasta spolverizzate ancora di farina il tavolo e stendete la sfogliata all'altezza di un centimetro scarso, procurando di dare alla pasta una forma rotonda. Siccome è diffìcile che in famiglia si possegga un tagliapaste grandissimo, prendete un coperchio di casseruola o un piatto da frutta, purchè l'uno o l'altro abbiano il diametro di una ventina di centimetri, e con un coltellino tagliate la pasta intorno intorno in modo da avere un disco perfetto. Prendete questo disco delicatamente, senza deformarlo, appoggiatelo su una teglia leggermente unta di burro, e con le punte di una forchetta fateci qua e là qualche punzecchiatura, fino in fondo. Mettete la pasta in forno e cuocetela a fuoco brillante per circa un quarto d'ora, poi estraete il disco che si sarà ben gonfiato, e lasciatelo raffreddare. La metà dell'operazione è fatta e passate adesso alla preparazione degli choux. Preparate dunque una pasta da choux osservando le seguenti proporzioni: farina gr. 100, burro gr. 100, mezzo bicchiere scarso d'acqua e due uova grandi o tre se piccole. Fatta anche la pasta per gli choux mettetela in una tasca di tela con bocchetta liscia di circa un centimetro di apertura, o, in mancanza di tasca, in un cartoccio fatto con carta pesante, che chiuderete bene e di cui spunterete l'estremità in modo da lasciare una apertura circolare di un centimetro. Ungete leggermente di burro una teglia e premendo la parte superiore della tasca di tela o del cartoccio, fate uscire sulla teglia tante pallette di pasta grosse come noci. Fate cadere queste palle a distanza di qualche dito una dall'altra, perchè crescendo non s'attacchino fra loro. Quando avrete spinto dal cartoccio tutta la pasta infornate la teglia. Gli choux riescono benissimo a patto che il forno bruci. In forno gli choux crescono, si gonfiano e prendono un bel color d'oro, in tutto non dovranno rimanere in forno oltre dieci minuti. Aspettate prima di toglierli che la pasta sia ben rassodata, e gli choux siano asciutti, altrimenti correreste il rischio di vederli sgonfiare man mano che si freddano. Lasciateli freddare su un setaccio grande e quando saranno freddi fate a ciascuno di essi da un lato una incisione con le forbici lunga due o tre centimetri. Da questa specie di bocca introdurrete poi, nell'interno degli choux, per mezzo di un piccolo cartoccio di carta, un ripieno di crema pasticcerà semplice o meglio allo zabaione, fatta con due cucchiaiate di zucchero, una cucchiaiata di farina, due rossi d'uovo, un bicchiere di latte, e una cucchiaiata di marsala. Si tratta adesso di attaccare la corona di choux in giro al disco di
tavolo e stendete la sfogliata all'altezza di un centimetro scarso, procurando di dare alla pasta una forma rotonda. Siccome è diffìcile che in famiglia
Per candire qualunque frutto è indispensabile un pesa-sciroppi, istrumento semplicissimo che assicura la perfetta riuscita. Si tratta di una specie di termometro il quale resta diritto, in equilibrio in uno sciroppo, affondando più o meno in esso a seconda della densità del liquido. Si guarda il punto in cui la superficie dello sciroppo taglia il tubo di vetro numerato del pesa-sciroppi, e il numero che si troverà scritto sulla colonnina di vetro dell'apparecchio segnerà il grado di densità dello sciroppo da esaminarsi. Le nostre lettrici potranno acquistare il pesa-sciroppi sia presso gli ottici, che generalmente vendono anche strumenti di precisione, sia presso qualche negozio di articoli per cucina e pasticceria. Di tutte le frutta le castagne sono le più difficili a candirsi, a motivo della loro friabilità, e nei grandi laboratori ci sono all'uopo apparecchi speciali piuttosto costosi. Ma anche in famiglia, con un po' di diligenza, si può riuscire a fare qualcosa di buono. Prendete un centinaio di belle castagne. Le migliori sono quelle del Viterbese, del Napoletano, del Piemonte, della Toscana e della Provincia di Belluno. Anzi, per dir meglio, se desiderate avere un centinaio di castagne candite, preparatene circa centocinquanta, perchè — non spaventatevi! — parecchie vi si romperanno cuocendo. In un chilogrammo di bei marroni, ne entrano circa una sessantina. Regolatevi, dunque. Sbucciate accuratamente le castagne, e, se l'avete, mettetele in uno di quei cestini di rame in cui si mettono le uova, o si fa scolare l'insalata. Fate bollire dell'acqua in un caldaio e quando bollirà, se avete messo le castagne nel cestino, immergete questo nel caldaio, se no, gettate senz'altro le castagne nell'acqua in ebollizione. L'uso del cestino di metallo è raccomandato per non far muovere troppo le castagne mentre cuociono, ma se ne può anche fare a meno. Comunque sia, mantenete l'ebollizione lenta per impedire alle castagne di ballare una troppo incomposta danza. Quando le castagne, dopo pochi minuti, saranno cotte, ma non troppo, quando cioè potrete trapassarle facilmente con uno spillone, levatele dall'acqua e, accuratamente, con la punta di un coltellino, togliete loro la pellicola. Vedrete che parecchie si saranno rotte o si romperanno man mano che togliete la pellicola; ma voi non preoccupatevene troppo e accogliete l'inevitabile disastro con filosofica rassegnazione. In una teglia bassa e larga preparate uno sciroppo con un litro d'acqua — quattro bicchieri abbondanti — e 900 grammi di zucchero in pezzi. Mettete la teglia sul fuoco e portate lo sciroppo all'ebollizione, schiumandolo se vedrete che farà della schiuma biancastra. Fatto lo sciroppo lasciate che si freddi. Se vorrete verificarlo al pesa-sciroppi vedrete che segnerà circa 25 gradi. Siccome il pesa-sciroppi non potrebbe affondare nella teglia, mettete lo sciroppo in un secchietto o in qualunque altro recipiente alto e stretto. Potrete così verificarne facilmente la densità. Mettete con garbo le castagne nella teglia con lo sciroppo, ponete la teglia sul fuoco, e riscaldate sciroppo e castagne fino all'ebollizione. Al primo bollore togliete la teglia dal fuoco, copritela, e lasciate così le castagne fino al giorno dopo. Il giorno dopo inclinate la teglia e scolate tutto lo sciroppo, travasandolo in una casseruola. Aggiungete allo sciroppo un paio di cucchiaiate ben colme di zucchero e fatelo bollire per qualche minuto. Verificate col pesa-sciroppi la densità del liquido, che deve segnare 30 gradi, e così bollente versatelo nuovamente sulle castagne. Se lo sciroppo non avesse ancora raggiunto il grado necessario aggiungete ancora un po' di zucchero o fatelo bollire ancora. Coprite nuovamente [immagine e didascalia: Pesa sciroppi] la teglia e lasciate le castagne in riposo per un altro giorno. Il terzo giorno scolate di nuovo il liquido e con l'aggiunta di poco altro zucchero e con una leggera ebollizione portatelo a 32 gradi. Versatelo bollente sulle castagne e lasciate questo così fino al giorno successivo. Fatto questo accomodate le castagne in un vaso di vetro e ricopritele col loro sciroppo. Sarà bene, preparando lo sciroppo, di farci bollire insieme una stecca di vainiglia o metterci un pizzico di vainiglina, ciò che comunicherà alle castagne uno squisito profumo; come pure, ad evitare che
costosi. Ma anche in famiglia, con un po' di diligenza, si può riuscire a fare qualcosa di buono. Prendete un centinaio di belle castagne. Le migliori sono
riuscendo a creare quelle squisitezze che vanno sotto il nome di gelati leggeri. Generalmente noi siamo soliti di dividere i gelati in: gelati di crema o di frutta, da lavorarsi nella sorbettiera, e in gelati leggeri, cui accennavamo poc'anzi, e che comprendono i diversi biscuits, le bombe, le mousses, i puddings, i soufflés. C'è poi un'altra categoria di gelato che nei grandi pranzi viene servito a metà tavola, la cui formula tipo è il sorbetto, che si suddivide in granite, marquises, punchs e spooms. Il gelato alla sorbettiera, come si faceva fino a pochi anni addietro, va sempre più perdendo terreno. Il lavoro è piuttosto complicato, e non è certo in una famiglia che si può lavorare una certa quantità di gelato col primitivo e piuttosto costoso impianto di una sorbettiera e tutti i suoi accessori. Per le signore che amano fabbricare con le loro mani del gelato è indispensabile una di quelle macchinette americane a manovella, già imperniate nel loro secchio di legno. Queste macchinette costano relativamente poco e danno dei risultati certi, senza richiedere troppo tempo e troppa fatica. Non si deve fare altro che mettere la composizione da gelare, nel vaso centrale di ferro zincato, rimettere a posto le spatole interne, chiudere col coperchio, calcare tutt'intorno del ghiaccio pesto, mescolato col sale e girare la manovella. Dopo pochi minuti una resistenza un po' sensibile vi avverte che il composto è congelato ed attende di essere servito ai vostri ospiti. Tecnicamente parlando, i gelati possono essere magri o grassi, intendendo che nella composizione da gelare entra una minore o una maggiore quantità di zucchero. Anche qui «est modus in rebus». Infatti, un gelato troppo magro, cioè scarso di zucchero, riuscirà insipido e granuloso, mentre al contrario, un composto troppo grasso stenterà molto a congelarsi.
perdendo terreno. Il lavoro è piuttosto complicato, e non è certo in una famiglia che si può lavorare una certa quantità di gelato col primitivo e piuttosto
Per un buon gelato di crema seguite queste proporzioni modificandole a seconda della capacità della vostra macchinetta. Latte litri uno, zucchero gr. 300, rossi d'uovo n. 10, profumo di vainiglia o di limone. Si sbattono in una casseruola ben netta i rossi d'uovo con lo zucchero e quando sono montati vi si unisce a poco a poco il latte bollente, nel quale si sarà tenuta in infusione una mezza stecca di vainiglia, o una sottile corteccia di limone. Non c'è bisogno di dire che, tanto l'uria che [immagine e didascalia: Macchinetta da gelato tipo per famiglia.] l'altra vanno tolte al momento della manipolazione. Rimettete la crema sul fuoco, sempre mescolando con un cucchiaio di legno e quando vedrete che è leggermente addensata e vela il cucchiaio, travasatela in una terrinetta attendendo che si freddi, e mescolandola di quando in quando, per impedirle di fare la pellicola superficiale. Condizione essenziale è che il composto non debba bollire. È anche buona pratica, dopo aver cotto la crema, di passarla da un setaccino. Mettete poi questa crema nella macchinetta, circondatela di ghiaccio pesto e gelatela nel modo che si disse più sopra. Avrete così un gelato da servire in bicchieri a forma di coppa e che si chiama «mantecato». Il mantecato si può facilmente ridurre in pezzo duro. Basterà provvedersi di una forma grande o di qualche formetta piccola, per operare senza troppa fatica la trasformazione. Le forme più adatte per questo genere di lavoro sono costituite da un cerchio sul quale vanno a incastrarsi due coperchi, uno sopra e uno sotto. Queste stampe possono essere di rame stagnato o anche di ferro stagnato, e sono in vendita in tutti i negozi di articoli di cucina. Ottenuto dunque il mantecato, foderate di carta la stampa grande o le stampine, riempite sollecitamente col mantecato, pareggiate la superficie, coprite con un foglietto di carta e finite calcando il coperchio. Mettete sotto ghiaccio per un'ora, poi aprite la stampina e sformate il gelato. Il ghiaccio dev'essere ridotto in piccolissimi pezzi e mescolato al sale in queste proporzioni: per ogni chilo di ghiaccio, 150 grammi di sale grosso. C'è anche chi consiglia di aggiungere una piccola dose di salnitro, ma il sale è già sufficiente per avere un efficace miscuglio frigorifero. I gelatieri usano uno speciale sale molto economico detto sale pastorizio; ma questo sale viene venduto dai depositi governativi soltanto in grandi quantità.
limone. Non c'è bisogno di dire che, tanto l'uria che [immagine e didascalia: Macchinetta da gelato tipo per famiglia.] l'altra vanno tolte al momento
Trattandosi di preparazioni eseguite in famiglia dove, naturalmente, non si possono avere a propria disposizione i vari utensili di cui può disporre il professionista, ci si può anche fermare qui, e si sarà ottenuto, pur con semplicità di mezzi, un risultato già abbastanza soddisfacente. Il lavoro più importante ed anche più difficile, così per le violette candite, come per i fiori d'arancio e le rose, che, su per giù, subiscono tutti la medesima preparazione, è quello della rifinitura a regola d'arte, cioè la brillantatura. Non ostante, come ho già detto, ci si possa arrestare alla prima parte già descritta, esporrò brevemente anche il sistema della brillantatura, per qualcuna tra le più volenterose delle lettrici di questo volume, che vorrà cimentarvisi.
Trattandosi di preparazioni eseguite in famiglia dove, naturalmente, non si possono avere a propria disposizione i vari utensili di cui può disporre
C'è un liquore gradevolissimo, l'alchermes, che caduto nelle mani di speculatori e di inesperti è a poco a poco diventato un vero veleno. Specialmente quello che molti pasticceri adoperano giornalmente per bagnare torte, diplomatici, zuppe inglesi, ecc., ha un orribile sapore dove unica nota dominante è il garofano. Eppure niente di più stomatico di un bicchierino di buon alchermes. Questo liquore così ingiustamente detronizzato da tante altre specialità venute dopo, ha un'origine illustre poichè sembra debba attribuirsi a Caterina dÈ Medici, che lo fece conoscere per la prima volta alla Corte di Francia. Alla manipolazione pare non fosse estraneo il profumiere e alchimista della regina, Roggieri, ma comunque sia, alla nobile famiglia medicea restò attribuita la creazione di questo elixir che, Leone X e Clemente VII ambedue della Casa Medici, chiamarono «Elixir di lunga Vita», e di cui il segreto di fabbricazione venne gelosamente custodito nella nobile famiglia, tanto che in Francia lo si chiamò «Liquore dei Medici». Mettete in un mortaio e pestate le seguenti droghe:
Corte di Francia. Alla manipolazione pare non fosse estraneo il profumiere e alchimista della regina, Roggieri, ma comunque sia, alla nobile famiglia
Per conservare i carciofi in scatola ci sono diversi sistemi. V'insegneremo il più semplice che è anche il migliore. Alcuni consigliano di dare ai carciofi qualche minuto di ebollizione; ma siccome il carciofo dovrà bollire ancora quando sarà chiuso nella scatola, diventa eccessivamente cotto, tanto che lo si utilizza difficilmente. Prima di tutto per fare i carciofi in scatola ci vogliono... le scatole. Scatole speciali, cilindriche, di latta, con coperchio, le quali si fanno generalmente della capacità di un litro, e si vendono ovunque. Una delle condizioni essenziali della riuscita delle conserve è la sterilizzazione completa dei recipienti, quindi sarà buona regola nettare accuratamente l'interno delle scatole passandoci, per eccesso di precauzione, un batuffolo di bambagia inzuppato nell'alcool di buona qualità. (Non quello industriale!). Fate bollire per qualche minuto una certa quantità d'acqua proporzionata al numero delle scatole che vorrete fare e salatela abbondantemente come si trattasse di cuocervi dei maccheroni. Poi toglietela dal fuoco e lasciatela raffreddare coperta, spremendoci un po' di limone. I carciofi potrete metterli in scatola in due modi: o con le foglie, o gettando via tutte queste e conservando il solo fondo. Se avete dei carciofi molto teneri conservateli con le foglie altrimenti vai meglio mettere da parte i soli fondi, che sono poi la cosa migliore del carciofo. Esaminiamo i due casi. Nel primo, mondate accuratamente i carciofi, spuntatene l'estremità superiore e il torsolo, spaccateli in due, toglietene il fieno interno— se c'è — stropicciateli subito con un pezzo di limone, e gettateli a mano a mano in una grande catina d'acqua fresca, salata e acidulata con del limone. Nel secondo caso, se volete conservare i soli fondi, private i carciofi di tutte le foglie, mozzate completamente il torsolo e poi. per mezzo di un coltellino, tornite i fondi, in modo che rimangano come tante scodelline, stropicciateli col limone e passateli ugualmente nell'acqua fresca acidulata. Quando avrete preparato tutti i carciofi, o i fondi, scolateli dall'acqua e aggiustateli nelle scatole badando di arrivare a un paio di dita sotto l'orlo e evitando di lasciare troppi spazi vuoti. Versate poi in ogni scatola un po' dell'acqua salata che avrete fatto bollire e che dovrà essersi freddata, e fate in modo che quest'acqua copra perfettamente i carciofi, sempre rimanendo un po' sotto l'orlo della scatola. Mettete ad ogni scatola il coperchio, ed accordatevi con lo stagnaio di famiglia perchè proceda immediatamente alla saldatura. Immergete poi le scatole saldate in un caldaio pieno di acqua fredda, portate l'acqua all'ebollizione e fate bollire mezz'ora per i carciofi e venticinque minuti per i fondi. Se durante la cottura vi accorgeste che da qualche scatola si sprigionano delle bollicine, significa che il coperchio non è stato saldato bene, ed occorre risaldarlo. Estraete le scatole dall'acqua, asciugatele, scriveteci sopra quel che contengono, e poi mettete in dispensa. I carciofi così conservati si adoperano come se fossero freschi. Aprendo le scatole con attenzione, nettandole bene, ed asciugandole, con la sola spesa di un coperchio nuovo si possono utilizzare più volte. Quando estrarrete i carciofi dalle scatole passateli in abbondante acqua fresca per toglier loro quel leggero odore di chiuso che qualche volta contraggono.
, sempre rimanendo un po' sotto l'orlo della scatola. Mettete ad ogni scatola il coperchio, ed accordatevi con lo stagnaio di famiglia perchè proceda
I chimici hanno portato anche nel campo della conservazione del burro le loro ricerche e, naturalmente, molti sono i metodi proposti. Ma noi ci limiteremo ad insegnarvi quelli che per la loro praticità sono i più adatti a venire eseguiti in una famiglia. Una delle operazioni fondamentali per la conservazione del burro è quella d'impastarlo su una tavola di marmo, con le mani bagnate, allo scopo di eliminare tutto il siero che ancora il burro potesse contenere. Il burro va impastato energicamente come se si trattasse di fare una pasta da tagliatelle. Il marmo deve essere ben pulito, e lavato precedentemente con acqua bollente. Per facilitare l'eliminazione della parte lattifera, sarà bene lavare più volte il burro, mentre lo si impasta, con acqua fresca. Compiuta questa operazione preliminare si possono seguire due sistemi principali. 1o — Si può mettere il burro a strati in un vaso di terraglia pigiando bene i vari strati in modo da non lasciare vuoti, e quando il vaso sarà ben riempito capovolgerlo in una terrinetta contenente acqua fresca. II vaso col burro compie allora lo stesso ufficio della campana del palombaro, elimina cioè l'aria, e permette al burro di conservarsi piuttosto lungamente. L'acqua della terrinetta deve essere rinnovata ogni giorno. 2° — Dopo impastato il burro, lo si cosparge di sale fino, in ragione di un cinque o sei per cento del suo peso — cioè cinquanta o sessanta grammi per un chilogrammo — lo si mette in vaso come è detto più innanzi riempiendolo fino all'orlo, e poi si ricopre con una mussolina bianca, sulla quale si mette ancora uno strato di sale, chiudendo poi il vaso con un foglio di carta pergamena. Quando poi si incomincia ad adoperare il burro, si toglie dal vaso in strati orizzontali, riempiendo il vuoto con acqua fresca, che si rinnoverà tutti i giorni, oppure capovolgendo il vaso nella terrinetta, come più sopra. I barattoli vanno tenuti in una stanza fresca ed asciutta. Questi due sistemi danno ottimi risultati, come buon risultato dà la ghiacciaia, che conserva il burro a temperatura bassissima. Il burro si conserva assai bene con la fusione, o, come si dice, chiarificandolo. Giova però notare che con questo sistema esso perde una certa quantità del suo sapore, e quindi, mentre è ottimo per condimenti, per frittura e in tutte le preparazioni calde, non è ugualmente saporito consumandolo freddo. La chiarificazione si fa così. Si mette il burro in una casseruola, su fuoco debolissimo, e si fa fondere, senza che debba soffriggere. Si tiene la casseruola sul fuoco per una ventina di minuti, fino a che la caseina e il siero si separino e si depongano, lasciando apparire il burro limpidissimo. Si schiuma allora, si passa da un velo o da un setaccino finissimo, e si travasa in un barattolo terraglia. Quando il burro si è rappreso, si ricopre di uno strato di sale, e si chiude con un coperchio o con un foglio di carta pergamenata. Anziché fondere il burro su fuoco nudo, si può anche operare a bagnomaria. Si può conservare così il burro per un lungo periodo di tempo. Per togliere il rancido al burro, il metodo seguente è raccomandabilissimo. Si mette il burro in una terrinetta con acqua, nella quale si sia messo un po' di bicarbonato di soda — 15 grammi per un chilo di burro — e lo si impasta in quest'acqua, lasciandovelo poi per un paio d'ore. Trascorso questo tempo si estrae, si risciacqua in acqua fresca, si stende un po' sottilmente con le mani, si sala con 50 grammi di sale per ogni chilo, si impasta nuovamente e si conserva in barattoli di terraglia. Chiuderemo queste note insegnandovi un mezzo spicciativo per riconoscere se il burro è puro o è mescolato con altri grassi. Si mette un pezzetto di burro come una nocciola in un tubetto di vetro — una di quelle piccole provette adoperate nei laboratori chimici — o in un altro piccolo recipiente, vi si aggiunge un ugual volume di ammoniaca, e si espone alla fiamma di una lampada a spirito per portare burro e ammoniaca all'ebollizione. Dopo pochi secondi di ebollizione, si aggiunge un volume di ammoniaca leggermente maggiore del primo, si chiude il recipiente e si agita. Se il burro contiene margarina, oppure se è irrancidito, si produce una schiuma persistente, mentre nessuna schiuma si produrrà se il burro è puro e fresco.
limiteremo ad insegnarvi quelli che per la loro praticità sono i più adatti a venire eseguiti in una famiglia. Una delle operazioni fondamentali per la
Conservazione all'olio. — Un metodo che dà risultati certi, e che è specialmente consigliabile per famiglia è il seguente: Si mettono le uova in un grande tegame, in modo che possano rimanere in un solo strato, si ricoprono completamente d'olio, e si lasciano così per 24 ore. Trascorso questo tempo si estraggono e si lasciano sgocciolare per un'altra giornata. Allora si asciugano leggermente, si avvolgono in caria pergamena e si ripongono in luogo asciutto, tenendole, come al solito, ritte. Oppure si depongono, senza avvolgerle nella carta, in una cassetta con polvere di carbone o segatura, ricordando di tenerle sempre ritte. L'olio che si consuma è pochissimo, e quello che resta può venire adoperato per frittura. Con questo sistema si sono conservate le uova fino a due anni, con una perdita minima, essendo il numero delle uova andate a male inferiore al 2 per cento. Perchè questa conservazione dia ottimi risultati, è necessario che le uova siano di giornata o, per lo meno, freschissime.
Conservazione all'olio. — Un metodo che dà risultati certi, e che è specialmente consigliabile per famiglia è il seguente: Si mettono le uova in un
Per un chilogrammo di salsiccie, tritate o passate grossolanamente a macchina 850 grammi di carne di maiale e 150 grammi di lardo non salato. Naturalmente facendo le salsiccie per uso proprio è bene adoperare carne di prima scelta, senza troppi nervi nè tendini. Condite l'impasto con una trentina di grammi di sale, abbondante pepe nero in polvere e un mezzo cucchiaino di salnitro in polvere. Maneggiate accuratamente la pasta, affinchè tutti i vari ingredienti si amalgamino perfettamente. Fornitevi di qualche metro di budellino in salamoia, che potrete acquistare presso i negozianti che lavorano carni di maiale, risciacquatelo accuratamente in acqua fresca e poi immergetelo in acqua tiepida per fargli acquistare una maggiore morbidezza. Coloro che lavorano carni suine hanno una speciale macchinetta per insaccare. Ma in famiglia si può raggiungere ugualmente lo scopo usando un imbuto a largo collo. Introducete dunque il collo dell'imbuto nel budello, e facendo una operazione simile a quella di calzare un guanto, aggrinzite man mano il budello, raccogliendolo tutto sul collo stesso dell'imbuto. Legate l'estremità del budello e poi tenendo verticalmente l'imbuto per il collo, in modo che il budello non debba scivolar via, mettete nel cavo dell'imbuto un po' di carne alla volta spingendola con un bastoncino per farla passare nell'intestino del maiale. È un'operazione facilissima. Man mano che la carne scende l'accompagnerete con una breve pressione della mano in modo che non rimangano vuoti, e nello stesso tempo lascerete scivolare a poco a poco dalla mano che tiene l'imbuto, un altro po' di budello. Se pi fosse qualche pezzetto rotto vi affretterete a fare una legatura per potere andare innanzi. Quando avrete insaccato tutta la carne, fate ad intervalli regolari di quattro dita delle legature sul lungo salcicciotto, e avrete così ottenuto una ventina di salsiccie, che lascerete asciugare per qualche giorno in un luogo tiepido.
. Coloro che lavorano carni suine hanno una speciale macchinetta per insaccare. Ma in famiglia si può raggiungere ugualmente lo scopo usando un imbuto a
Lo zampone ed il coteghino non differiscono sensibilmente riguardo all'impasto; la sola differenza notevole è che lo zampone viene insaccato nella cotenna che riveste la zampa anteriore del maiale, mentre il coteghino si insacca nel budello. Desiderando confezionare uno zampone, conviene prima di tutto provvedersi la zampa di maiale. Bisogna che questa venga staccata il più in alto possibile, per avere una maggiore capacità, e che non sia stata forata dagli uncini. Rovesciate la pelle, e con un coltello tagliente staccate pian piano la cotenna dai nervi e dalle ossa. Andate adagio e disossate con pazienza senza fare lacerazioni, continuando sempre a rovesciare la pelle, sino a che arriverete alle ultime falangi, che lascerete attaccate. Avrete così una specie di calza che stropiccierete con un pugno di sale, tanto all'interno che all'esterno, spolverizzerete di pepe, e metterete in una terrinetta con un peso sopra, lasciandola così per una diecina di giorni. Trascorso questo tempo si toglie la zampa dalla terrinetta, si risciacqua con un bicchiere di vino bianco, e si lascia in bagno nel vino mentre si prepara l'impasto. Ogni chilogrammo di esso è formato con: carne magra di maiale (collo o spalla) gr. 700, cotenna fresca tritata gr. 300, sale gr. 35, spezie gr. 5, salnitro gr. 3. L'impasto dello zampone non deve essere molto grasso. Quindi è sufficiente quel po' di grasso che è attaccato alle cotenne. Se però queste fossero molto magre occorrerà aggiungere una cinquantina di grammi di lardo non salato. Bisogna prima fare a pezzetti le cotenne e tritarle nella macchina, e poi tritarle nuovamente insieme con la carne e il grasso. Dopo aver tritato tutto si aggiungono il sale, le spezie e il salnitro, e si impasta ogni cosa con le mani affinchè la pasta rimanga uniformemente condita. Si asciuga la zampa, e vi si versa la pasta, spingendo bene perchè non restino vuoti. Poi con un grosso ago e dello spago, si fa alla sommità una specie di infilzetta, si stringe, e lo zampone è fatto. Con un chilogrammo d'impasto si ottiene uno zampone di media grandezza. La confezione del coteghino è più sbrigativa. Vi procurerete da un pizzicagnolo o da un norcino dei budelli di maiale grandi, già salati, li metterete in bagno nel vino bianco, e poi li riempirete col seguente impasto, che è un po' più grasso di quello degli zamponi. Per ogni chilogrammo d'impasto prendete: Carne magra, collo o spalla grammi 500, cotenne fresche gr. 300, lardo o pancetta, non salati, grammi 200, sale gr. 35, spezie gr. 5, salnitro gr. 3. Si procede in tutto come per lo zampone. L'insaccatura potrete farla o con le mani o con un grosso imbuto, regolandovi come vi fu detto per le salsiccie. Date ai coteghini una lunghezza di circa 20 centimetri, e chiudeteli alle due estremità con dello spago, facendo con esso, nella parte superiore del coteghino, un occhiello per appenderli. Vi abbiamo dato le quantità del sale, delle spezie e del salnitro in grammi. Chi non ha a sua disposizione una bilancia usi le seguenti misure che, su per giù, corrispondono, cioè: Sale fino gr. 35 = due cucchiai da tavola. Spezie gr. 5 = due cucchiaini da caffè. Salnitro gr. 3 = mezzo cucchiaino scarso da caffè. Naturalmente, se aumenterete le dosi dell'impasto, aumenterete anche in proporzione il sale e le spezie. Fatti gli zamponi o i coteghini bisognerebbe passarli alla stufa speciale; in famiglia si supplisce a ciò appendendoli in un luogo caldo, in modo che la temperatura si mantenga dai 25 ai 35 gradi. È bene che da prima la temperatura sia leggera per salire man mano gradatamente. Sono sufficienti una trentina di ore di stufa. Si comprende che nelle grandi fabbriche la stufa ha importanza grandissima dovendo garantire la lunga conservazione del prodotto, che viene spedito o esportato. Ma poichè in famiglia lo zampone o il coteghino si mangeranno appena stagionati, senza aspettare troppo, si può essere certi, seguendo i nostri consigli, di avere un risultato soddisfacente anche senza impianti costosi, valendosi della cappa del camino, o di una stufetta a gas o a legna, con la quale si eleverà la temperatura dell'ambiente di quel tanto necessario. Dopo ciò si appendono in un luogo asciutto, nè troppo caldo, nè troppo freddo e si lasciano stagionare per una ventina di giorni e.più. Fate attenzione che i coteghini o gli zamponi non si tocchino fra loro. Per la perfetta riuscita degli zamponi e dei coteghini occorrono delle speciali spezie, la cui composizione è — da alcuni fabbricanti — tenuta celata come si trattasse di un gran segreto. Ecco dunque il famoso segreto. Prendete una cucchiaiata di pepe in granelli, tre o quattro chiodi di garofani, un pezzo di cannella in stecchi lungo circa quattro centimetri, l'ottava parte di una noce moscata, uno o due pezzi di macis, che, come sapete, è l'involucro della noce moscata, due foglie di alloro e una pizzicata di timo. Pestate ogni cosa nel mortaio e passate da un setaccino raccogliendo la polvere in un foglio di carta. Se rimarranno droghe nel setaccio pestatele di nuovo sino a che passino tutte. Mescolate la polvere aromatica ottenuta e conservatela in un vasetto ben chiuso.
le spezie. Fatti gli zamponi o i coteghini bisognerebbe passarli alla stufa speciale; in famiglia si supplisce a ciò appendendoli in un luogo caldo, in
Si prepara generalmente in Comacchio, dove sono vasti edifici con parecchie centinaia di lavoranti, maschi e femmine. Può calcolarsi che se ne preparino circa 10.000 quintali annui, ripartiti in quasi 25.000 barili. La preparazione è semplicissima. Ogni fabbrica ha una vasta cucina con delle specie di camini bassi (focaie), dove arde un fuoco di legna e dove gli spiedi con le anguille in pezzi vengono appoggiati a delle alte spidiere. Arrostito il pesce e freddato si passa alle imbarilatrici che lo stivano nelle botti e lo conciano di aceto. L'operazione dunque è semplicissima e può essere eseguita con certezza di riuscita anche in famiglia. Per nostra esperienza personale possiamo assicurare che la preparazione riesce anche benissimo servendosi del forno anzichè dello spiede. Prendete dunque una anguilla di circa un chilogrammo, lavatela accuratamente, e dividetela in cinque o sei pezzi, gettando via naturalmente la testa e la coda. Sventratela e asciugatela accomodando poi i vari pezzi in una teglia con un nonnulla d'olio e qualche foglia di alloro, sale e pepe. Fatela cuocere nel forno per circa un'ora, estraete i vari pezzi, lasciateli sgocciolare e poi aggiustateli in una terrinetta dove possano stare raccolti senza lasciare troppo spazio. Mettete a bollire un paio di bicchieri di aceto con un pizzico di sale, qualche granello di pepe, un paio di spicchi d'aglio mondati, due o tre foglie di alloro, un rametto di rosmarino e tre o quattro chiodi di garofani. Fate dare un bollo all'aceto e poi versatelo così caldo sull'anguilla. Coprite la terrinetta, e di quando in quando rivoltate i pezzi affinchè possano imbeverarsi di aceto. Preparate questa anguilla marinata tre o quattro giorni prima per averla ben saporita. Si conserva per moltissimo tempo.
eseguita con certezza di riuscita anche in famiglia. Per nostra esperienza personale possiamo assicurare che la preparazione riesce anche benissimo
La questione dei funghi commestibili e dei funghi velenosi è quella che più deve preoccupare chi è a capo di una famiglia, poichè l'esperienza insegna quanto sia difficile poter giudicare se un fungo è o non è velenoso. Gli avvelenamenti con funghi non sono purtroppo infrequenti e la storia ci dice che anche personaggi illustri trovarono la fine cibandosi di funghi. Nelle grandi città si procede ad una verifica che può dare sufficienti elementi di garanzia; ma il pericolo maggiore è nei piccoli centri e nelle campagne dove i funghi vengono venduti senza controllo, quando non sono addirittura raccolti per uso proprio. In genere vengono cucinate una cinquantina di specie di funghi, tra le quali ve ne sono circa venti velenose, difficilissime a conoscersi dalle commestibili, presentando lo stesso aspetto e gli stessi caratteri. Si dice, ad esempio, della infallibile sicurezza dell'ovolo vero (amanita caesarea) e del cocco od ovolo bianco, ma anche in questa famiglia c'è l'ovolo falso o malefico e il cocco bastardo, ambedue velenosi. Nel gruppo degli agarici sono anche funghi commestibili e velenosi, come, ad esempio, il prataiolo, l'agarico grigiastro, ecc., facilmente confondibili con la rossola velenosa, il fungo peperone, l'agarico dissenterico, ecc. Nè maggiore sicurezza offre il fungo porcino, potendo essere facilmente confuso col porcino malefico. È risaputo che le prove empiriche dell'aglio, della cipolla o quelle del cucchiaio d'argento o della lama di coltello sono assolutamente da escludersi. Meglio attenersi in genere ai seguenti consigli, per i quali sono da schivarsi: Quei funghi che quantunque abbiano, come il prataiolo, il cappello bianco ed emisferico hanno la base del gambo bulbosa. — Quelli che con gambo grande e gibboso o squamoso, sostengono un cappello cosparso di verruche, oppure hanno la pelle coperta di pustole. — Quelli che infranti o screpolati fra le dita emanano un odore narcotico disgustoso. — Quelli che esalano un odore d'aglio, o che hanno sapore bruciante. — Tutti quei funghi che hanno il cappello tinto di rosso, azzurro o verde. — Quelli che spezzati o tagliati con un coltello assumono, al contatto dell'aria colorazioni diverse. — Quelli che tagliati si trovano pieni di succo lattiginoso. — Quelli che hanno la carne cordacea o sugherosa. — Quelli che non sono in nessun modo toccati dagli insetti, e, finalmente, quelli che si ritrovano su tronchi di albero dotati di proprietà deleterie. Ad ogni modo, e per concludere, bisogna usare solo di quei funghi che in ciascun paese l'esperienza secolare ha dimostrato essere veramente commestibili. In caso di sintomi di avvelenamento per funghi ricorrere immediatamente in attesa del medico a un vomitivo (acqua calda saponata) e subito dopo somministrare un energico purgante di olio di ricino. Evitare qualsiasi bevanda acida, o acque purgative in cui entri il sal di cucina.
La questione dei funghi commestibili e dei funghi velenosi è quella che più deve preoccupare chi è a capo di una famiglia, poichè l'esperienza