È innegabile che da qualche tempo in qua un grande progresso si è verificato anche in cucina. I nuovi metodi di riscaldamento, il diffondersi di utensili pratici ed igienici e sopratutto il salutare ritorno di molte signore alla immediata direzione della casa, hanno portato un evidente risveglio in questa parte tanto importante dell'azienda domestica, da cui principalmente dipende — non ci stancheremo mai di ripeterlo — il benessere e la prosperità della famiglia. La cucina, intesa nella sua vasta complessività, è arte e scienza insieme. E l'affermazione non sembrerà esagerata quando per cucina non s'intenda solamente il fatto più o meno meccanico di allestire qualche pietanza alla buona, ma quell'insieme di cognizioni tecniche che concorrono a fare dell'alimentazione una materia importante, quanto ad esempio, la conoscenza delle lingue o lo studio di uno strumento musicale. Conoscere la cucina non vuol dire mettersi alla stregua di una donna di servizio o di una cuoca, le quali generalmente sono appunto quelle che di cucina s'intendono meno, ma avere anche delle nozioni precise di igiene, di chimica elementare e di disegno: sapere, in altre parole, come si preparano nel miglior modo i cibi più svariati o la buona pasticceria, come si decora un piatto di cucina o una torta, come si fanno i liquori, i gelati, come si conservano le sostanze alimentari d'ogni specie, quali sono le cure da usarsi ai vini, e magari come si disegna un «menu» o si infiora una tavola. Accade spesso in famiglia, che una pietanza la quale generalmente vien bene, riesce qualche volta immangiabile. Come pure accade che un giorno la carne è troppo cruda, un altro troppo cotta; ora c'è troppo condimento, ora ce n'è troppo poco ecc. ecc. Tutto ciò dipende dal fatto semplicissimo che, in genere, si cucina a casaccio, e senza il più elementare raziocinio. Domandate a una donna di cucina perchè prepara una pietanza in quella data maniera; ed ella, novanta volte su cento, non saprà dirvene la ragione, o vi risponderà che fa così, come potrebbe fare in un altro modo. Tutto ciò, retaggio di una cucina empirica, deve scomparire. Se una pietanza riesce una volta, deve riuscire sempre; e la persona che sta al fornello, o per lei chi la dirige, deve sapere e perchè si cucina in quel dato modo, e perchè non si può cucinare che in quel modo. Come tutte le arti, come tutti i mestieri, anche la gastronomia ha le sue leggi, dalle quali non si può e non si deve derogare.
cruda, un altro troppo cotta; ora c'è troppo condimento, ora ce n'è troppo poco ecc. ecc. Tutto ciò dipende dal fatto semplicissimo che, in genere, si
I tipi di farcia descritti più sopra sono quelli che potremmo dire classici, e che trovano il loro maggiore impiego per bordure e per chenelle. Ce n'è poi un altro tipo appartenente all'antica cucina e che va sotto il nome di Godiveau, di cui anche stimiamo opportuno tener parola.
I tipi di farcia descritti più sopra sono quelli che potremmo dire classici, e che trovano il loro maggiore impiego per bordure e per chenelle. Ce n
Dopo che avrete sciolto nuovamente il semolino e dopo aver rifuso del brodo nella pentola, mettete nuovamente il semolino nel mezzo della salvietta, copritelo di nuovo col coperchio e riannodate le cocche come la prima volta. Rimettete il coperchio col semolino pendente di sotto, stuccate un'altra volta la pentola e lasciate bollire per altre tre ore. Chi vi dirà che il cuscussù esige una fatica enorme e una perdita di tempo considerevole, esagera certamente, poichè eccezione fatta per la prima lavorazione del semolino e la preparazione dei legumi, non ci si dovrà avvicinare alla pentola che dopo le prime 3 ore, per poi lasciare bollire ancora senza preoccupazioni. Trascorse altre due ore e mezzo o tre ore, togliete il semolino dalla salvietta, lavoratelo un'ultima volta con le mani aggiungendoci pian piano un mezzo ramaiolo della sgrassatura del brodo dei legumi e un mezzo ramaiolo della sgrassatura del brodo di carne. Assaggiate il semolino per verificarne la sapidità, poi mettetelo in caldo in una stufa tiepida mescolandolo di quando in quando con un cucchiaio ed aggiungendoci a intervalli un pochino di sgrassatura delle due pentole. Prendete adesso un centinaio di grammi di carne magra di vitello, tritatela finemente o passatela alla macchinetta, aggiungeteci una metà del suo volume di mollica di pane, bagnata nell'acqua e spremuta, un rosso d'uovo, un mezzo cucchiaino d'olio, un pizzico di sale, e impastate il tutto. Con le mani leggermente unte d'olio foggiate da questo impasto delle polpettine grosse un poco più di una nocciola. Mettete un po' d'olio in una padellina e fate cuocere in essa le polpettine. Quando saranno rassodate aggiungete nella padella tre o quattro fegatini di pollo, divisi in due pezzi ognuno, fate rosolare ancora un momento, e poi bagnate polpettine e fegatini di pollo con mezzo ramaiolo di brodo. Mettete la padella sull'angolo del fornello e lasciate bollire piano piano per mezz'ora. Compiute tutte le operazioni, se nella pentola del brodo di carne ce n'è rimasto ancora, travasatelo nella pentola dei legumi e preparatevi per servire il cuscussù. Prendete un piatto grande, accomodate nel mezzo il semolino, disponendolo a cupola alta e intorno disponete dei bouquets alternati di legumi scolati e varietà di bollito. Il bue e il vitello li ritaglierete in fette, e il pollame in pezzi regolari. Se avrete impiegato anche il salame di bue, affettate anche questo facendone un bouquet separato, come separati devono essere il bue, il vitello e il pollame. Ai due lati del piatto accomodate in due piccole piramidi le polpettine e i fegatini, e fate portare in tavola insieme con una zuppiera contenente il brodo, il quale viene servito in tazze e serve anche per allungare un pochino il cuscussù se qualche commensale ama di mangiarlo più sciolto. Un'ultima cosa. Il cuscussù comporterebbe un'ultima guarnizione, quella delle uova sode, cotte però alla maniera araba e cioè bollite per 24 ore in una pentolina contenente acqua, un po' di grasso o di olio, e qualche legume. Le uova, per questa cottura prolungatissima, acquistano un colore nerastro che a qualcuno di noi non potrà piacere, senza contare il disturbo di tenere una pentola sull'angolo del fornello a bollicchiare per 24 ore. Si può rinunziare a queste uova, che del resto vengono abitualmente servite nei caffè e nelle trattorie arabe, e rimpiazzarle con delle uova sode, cotte pochi minuti com'è nostra consuetudine, sgusciate e ritagliate in spicchi. L'importante è di comporre con il semolino, le uova, le carni, i legumi e le polpettine una decorazione attraente che rallegri anche la vista. Ed ora, signore mie, al termine di questo lungo discorso confidiamo di essere riusciti a spiegarci chiaramente, come sempre; non solo, ma di avervi fatto nascere il desiderio di esperimentare questa pietanza che nella cucina ebraica e in quella araba costituisce il non plus ultra delle preparazioni tipiche e desiderate. L'Artusi sopracitato asserisce che tutto questo «impazzamento» non è giustificato per il cuscussù. Ma egli evidentemente non lo conosceva e non lo sapeva fare.
. Compiute tutte le operazioni, se nella pentola del brodo di carne ce n'è rimasto ancora, travasatelo nella pentola dei legumi e preparatevi per servire
I veri vermicelli con le vongole sono facilissimi, ma non tutti, specie i non napolitani, li sanno cucinare a perfetta regola d'arte. Questi vermicelli non tollerano elementi estranei di nessun genere: non debbono esser fatti che con olio, un po' d'aglio, vongole e pomodoro; e soprattutto niente alici, che taluni erroneamente aggiungono. Per riuscire bene, bisogna che i vermicelli abbondino in sugo e in vongole. Per quattro persone noi vi consiglieremmo quindi un chilogrammo di questi saporitissimi frutti di mare. Un nemico capitale da evitare a qualunque costo è la rena; quindi prima di ogni altra cosa mettete le vongole in una catinella piena d'acqua e lavatele energicamente; cambiando, se occorre, l'acqua. Fatto ciò passatele in una padella piuttosto grande con una cucchiaiata d'olio, copritele e mettetele sul fuoco. Fate saltellare le vongole affinchè possano sentire tutte ugualmente il calore. Vedrete che in due o tre minuti saranno aperte. Levate allora la padella dal fuoco e aiutandovi con un cucchiaino staccate a una a una le vongole dal guscio. I gusci li getterete, le vongole le raccoglierete in una scodella. Se vi accorgeste che le vongole contenessero ancora molta rena, potrete lavarle un'altra volta con un ramaiolo d'acqua appena tiepida, poi tirarle su, e passarle in un'altra scodella pulita. Quando avrete sgusciato tutte le vongole, vedrete che nella padella sarà rimasto un abbondante liquido dall'aspetto torbido. Guardate di non gettarlo via perchè è appunto quello che darà il profumo alla pietanza. Prima di adoperarlo però voi dovrete aspettare un pochino, per dar modo alla rena di posarsi sul fondo della padella. Soltanto allora inclinate leggermente questa e decantate il sugo in una tazza, avvertendo che il fondo terroso rimanga nella padella. Dopo questa operazione principale, prendete un tegame di terracotta o una padella o anche una casseruola di rame, ove metterete mezzo bicchiere d'olio e uno spicchio d'aglio. Portate sul fuoco, e appena l'aglio incomincia a soffriggere toglietelo, e aggiungete tre o quattro cucchiaiate di salsa di pomodoro in scatola o un chilogrammo abbondante di pomodori freschi passati dal setaccio. Condite con sale e pepe, aggiungete il sugo delle vongole, un pochino di acqua, se ce n'è bisogno, e fate cuocere la salsa. Quando questa sarà addensata aggiungete le vongole, e lasciatele bollire per due o tre minuti, affinchè non induriscano troppo. Avrete messo intanto a cuocere la quantità di vermicelli necessaria — per quattro persone circa mezzo chilogrammo. — Teneteli piuttosto duri di cottura, scolateli, conditeli con la salsa preparata, finiteli con un pizzico di pepe e una cucchiaiata o due di prezzemolo trito ben verde.
pochino di acqua, se ce n'è bisogno, e fate cuocere la salsa. Quando questa sarà addensata aggiungete le vongole, e lasciatele bollire per due o tre minuti
Bisogna anzitutto preparare una pasta lievitata, che farete così. Mettete sulla tavola di cucina mezzo chilogrammo di farina — ricordatevi che è buona precauzione passare la farina dal setaccio — disponetela a fontana e nel vuoto mettete 20 grammi di lievito di birra sciolti in due dita d'acqua appena tiepida, un pizzico di sale, un pizzico di pepe, e impastate il tutto servendovi di altra acqua tiepida (un bicchiere e più). Regolatevi che la pasta deve risultare molto morbida. Lavoratela energicamente, come se si trattasse di fare il pane; poi quando sarà bene elastica, fatene una palla e mettetela in una terrinetta spolverizzata di farina, copritela, portatela sul camino o in un luogo caldo, ma non troppo, e lasciate che lieviti per un paio d'ore. Quando la pasta sarà ben rigonfia, rovesciatela sulla tavola infarinata, prendetene uno alla volta dei pezzetti grossi come un uovo, allargateli, tirando con le mani, e foggiatene delle pizzette sottili che getterete subito in una padella con olio o strutto caldissimi. Queste pizzette non devono stare in padella che pochi secondi e appena colorite da una parte dovranno essere voltate dall'altra. Solo così si ottengono leggiere. Mentre la pasta lievita, con olio, aglio e pomodori spellati e privati dei semi, sale e pepe, preparate un denso sugo di pomodoro. Occorrono dei pomodori piuttosto grossi e carnosi tagliati in pezzi grandi, e bisogna che la cottura sia fatta vivacemente affinchè i pomodori stessi non abbiano a disfarsi troppo. Quando il pomodoro sarà cotto, aromatizzatelo con un pizzico di origano e mettetelo da parte. Mentre le pizzette friggono riscaldate — se ce n'è bisogno — il pomodoro. Levate poi le pizzette dalla padella, accomodatele in un piatto largo mettendo sopra ognuna una abbondante cucchiaiata di pomodoro, e mandate in tavola immediatamente. Con mezzo chilogrammo di farina vengono circa venticinque pizzette. Per questa dose occorrono da un chilo e mezzo a due chilogrammi di pomodori.
troppo. Quando il pomodoro sarà cotto, aromatizzatelo con un pizzico di origano e mettetelo da parte. Mentre le pizzette friggono riscaldate — se ce n'è
Mettete a cuocere in una casseruola un chilogrammo di patate sbucciate e tagliate in spicchi grossi, aggiungendo nell'acqua un po' di sale. Appena le patate saranno cotte scolate tutta l'acqua e mettete un po' di brace sul coperchio, della casseruola affinchè le patate possano bene asciugarsi. Dopo pochi minuti rovesciatele sul tavolo di marmo e schiacciatele perfettamente, in modo che non restino granelli. Impastate la purè ottenuta con quattro torli d'uovo, spianate l'impasto all'altezza di un dito e mettetelo a freddare in un grande piatto imburrato. Prendete un chilogrammo abbondante di baccalà ben ammollato, fatelo in pezzi grandi e passatelo in una casseruola con acqua fredda che porterete all'ebollizione. Lasciate bollire pian piano due o tre minuti, e poi estraete il baccalà, al quale toglierete tutte le spine, dividendo la polpa in piccoli pezzi. Preparate adesso una besciamella piuttosto densa fatta con mezzo litro scarso di latte, mezzo ettogrammo di burro e un paio di cucchiaiate colme di farina. Del sale non ce n'è bisogno essendo il baccalà di per sè stesso salato. Mettete i pezzi di baccalà nella besciamella e con un cucchiaio di legno mescolate il tutto. Prendete adesso una stampa da timballo o, in mancanza di questa, una casseruola della capacità di circa un litro e mezzo, imburrate abbondantemente la stampa e disponete con diligenza sul fondo e intorno alle pareti uno strato delle patate preparate, lasciando indietro una parte di queste patate per coprire poi il timballo. Nel vuoto interno mettete i pezzi di baccalà con la besciamella, battete leggermente la stampa affinchè non rimangano vuoti, e poi chiudete il timballo con le patate rimaste, pigiando intorno intorno con le dita affinchè il baccalà rimanga ben chiuso nell'interno. Mettete la stampa in un recipiente più grande contenente acqua bollente e cuocete a bagnomaria per un'ora circa, ricordando che l'acqua del bagnomaria, pur essendo sempre prossima all'ebollizione, non deve mai levare il bollore. Al momento di andare in tavola rovesciate il timballo sopra un piatto grande rotondo, e circondatene la base con dei gruppetti alternati di carote gialle in piccoli dadi, lessate e passate al burro, e di spinaci al burro. Volendo servire anche una salsa potrete servirvi di una besciamella piuttosto liquida. In questo caso, senza fare troppo sciupìo di tempo, preparando la besciamella densa per amalgamare i pezzi di baccalà, potrete lasciarne indietro un pochino, per poi diluirla al momento con un bicchiere scarso di latte.
besciamella piuttosto densa fatta con mezzo litro scarso di latte, mezzo ettogrammo di burro e un paio di cucchiaiate colme di farina. Del sale non ce n'è
Su questi carciofi c'è tutta una leggenda di difficoltà, assolutamente immaginarie, poichè non c' è forse una preparazione più semplice. Uno solo è il punto su cui si basa la riuscita: la quantità d'olio necessaria per friggere. Chi ha paura di mettere olio nella padella rinunzi a fare i carciofi «alla giudìa» in casa, e si accontenti di andarli a mangiare in uno dei tanti locali romani che la moda ha consacrato. I carciofi vengono mondati, leggermente battuti sulla tavola per allargarne un po' le foglie, spolverizzati di sale nell'interno, e messi in padella, col torsolo in alto, in modo che l'olio li ricopra quasi interamente. Man mano che cuociono si schiacciano leggermente, e se ce n'è bisogno, si voltano. Debbono diventare color d'oro scuro, e ben croccanti all'esterno. Come vedete, una cosa di una semplicità primordiale. Del resto la questione dell'olio è in gran parte apparente. Adoperando infatti una discreta quantità d'olio, questo non si brucierà come accade quando ce n'è troppo poco ma vi servirà per molte volte, permettendovi, a rigor di logica, di realizzare anzi una piccola economia.
l'olio li ricopra quasi interamente. Man mano che cuociono si schiacciano leggermente, e se ce n'è bisogno, si voltano. Debbono diventare color d'oro
Le ricette più semplici sono quelle che vengono meno alla mente. Ed è per questo che vi consigliamo codesta facile pietanzina, la quale, se decorata con un po' di gusto, è, oltre che di bell'effetto, anche appetitosa. Prendete dei carciofi, sbucciateli, tagliateli a metà, togliete il fieno dall'interno se ve n'è, stropicciateli esternamente con un po' di limone e lessateli in acqua leggermente salata. Quando saranno cotti lasciateli sgocciolare bene e appena freddi accomodateli in bell'ordine in un piatto grande. Riempite questi mezzi carciofi di salsa maionese, decorateli con qualche cappero, filettini di cetriolini sotto aceto e, se volete, intramezzate i carciofi con mezze uova sode ricoperte anch'esse di salsa. Per una diecina e più di mezzi carciofi può bastare una maionese fatta con un uovo.
'interno se ve n'è, stropicciateli esternamente con un po' di limone e lessateli in acqua leggermente salata. Quando saranno cotti lasciateli sgocciolare
La melanzana è originaria dell'India, e si è naturalizzata felicemente, da tempo remotissimo, nei nostri orti occidentali. La melanzana, non ha avuto mai un consenso unanime di simpatie: portata alle stelle da alcuni, sprezzata da altri; consumata copiosamente in alcune provincie, rifiutata o adoperata con grande parsimonia e diffidenza in altri mercati. Nell'Italia meridionale, nella Sicilia, se n'è sempre fatto un consumo grandissimo in confronto delle altre provincie; a Roma, per esempio, fino a poco tempo fa veniva scarsamente usata ed anche ora alcuni buoni romani conservano per la melanzana la tradizionale ed ingiustificata avversione. Intorno alla melanzana c'è una grande leggenda da sfatare: quella delle difficoltà per la sua preparazione. Secondo alcuni autori di cucina per preparare un piatto di melanzane c'è da fare tale una fatica e da superare un tale complesso di complicazioni che ne passa la voglia. Gli autori culinari consigliano di mettere le melanzane sotto sale per qualche ora, poi di risciacquarle, asciugarle, ecc., ecc. Tutte fatiche inutili e tutto tempo sprecato. La salatura delle melanzane è uno dei tanti procedimeni della cucina empirica, che le nostre lettrici debbono assolutamente abbandonare. Uno solo è il punto importante: scegliere delle melanzane di buona qualità: preferibilmente le napolitane. Risolta questa principale questione, non vi sono altre difficoltà: tagliate le melanzane e cucinatele subito, senza timore che vi riescano di sapore acre o amarognolo. Noi crediamo anzi che una delle ragioni del cattivo gusto che prendono talvolta le melanzane sia dovuto appunto alla salatura.
adoperata con grande parsimonia e diffidenza in altri mercati. Nell'Italia meridionale, nella Sicilia, se n'è sempre fatto un consumo grandissimo in
Per avere un'eccellente pasta «brioche» occorrono delle materie di prima qualità: cioè farina finissima, burro eccellente ed ottimo lievito di birra, freschissimo. Le dosi sono le seguenti: farina grammi 200 — burro grammi 120 — zucchero grammi 16 — lievito di birra grammi 8 — sale grammi 2 — uova intere n. 2.
Le dosi sono: Farina di prima qualità gr. 180; burro gr. 125; lievito di birra gr. 25; uvetta secca gr. 60; uova intere n. 3; un pizzico di sale; una cucchiaiata di zucchero in polvere. Stacciate la farina, e prendetene la quarta parte che scioglierete in una tazza con il lievito e circa due dita d'acqua appena tiepida, in modo da avere una pasta piuttosto liquida, coprite la tazza e mettetela in luogo tiepido, ma non troppo vicino al fuoco. Questa precauzione è indispensabile, perchè se il lievito sente troppo calore si brucia e perde tutta la sua efficacia. Dopo circa un quarto d'ora il lievito avrà raddoppiato il suo volume. Versatelo allora in una terrinetta dove avrete messo il resto della farina, un pizzico di sale, le tre uova e il burro, di cui conserverete un pezzetto che vi servirà per imburrare la stampa. Impastate tutto con la mano, e poi lavorate con forza la pasta, sollevandola con le dita e sbattendola energicamente contro le pareti della terrina. Dopo cinque o sei minuti la pasta dovrà essere liscia, vellutata ed elastica, e dovrà staccarsi tutta intera. Aggiungete allora lo zucchero, lavorate un altro poco, e mettete in ultimo l'uvetta, che avrete accuratamente mondata e tenuta in bagno in un pochino d'acqua tiepida. Imburrate una stampa della capacità di un litro e mezzo circa. Preferite una stampa piuttosto alta, a disegno ampio, e vuota nel mezzo. Prendete la pasta a piccoli pezzi e fateli cadere nella stampa. La pasta dovrà occupare poco più di un terzo di essa. Mettete la stampa in luogo tiepido e lasciate lievitare. Guardate bene che non vi siano correnti d'aria, nè un eccessivo calore. Dopo un'ora e un quarto, o un'ora e mezzo, la pasta sarà salita fino all'orlo della stampa. Infornate allora il babà, tenendolo per una mezz'ora in forno moderato, così da averlo di un bel colore d'oro. Per assicurarvi della cottura potrete anche immergere nel dolce un lungo ago e vedere se vi rimane attaccata della pasta ancora cruda. Sformate il babà e versateci sopra a cucchiaiate uno sciroppo bollente al rhum, che avrete preparato così. Mettete al fuoco una casseruolina con mezzo bicchiere d'acqua e tre cucchiaiate di zucchero. Fate bollire, ritirate lo sciroppo dal fuoco e mescolatevi un bicchierino di rhum. Per rifinire il babà a perfetta regola d'arte conviene ora fare un piccolo lavoro accessorio, ultimando il dolce con una leggerissima copertura di zucchero detta «ghiaccia piangente». Quest'ultima parte dell'operazione non è, a rigor di termini, necessarissima; ma quando vi sarete abituate ad ultimare il babà in questo modo, continuerete a farlo così, poichè troverete che il lievissimo e semplice lavoro supplementare comunica al babà una finezza di gran lunga superiore. Mettete in una tazza da caffè e latte tre o quattro cucchiaiate di zucchero al velo. In mancanza di questo supplirete con dello zucchero pestato finissimo e poi passato per un setaccino di velato. Inumidite lo zucchero con poca acqua e mescolate con un cucchiaino aggiungendo man mano altra acqua, fino ad avere la densità di una crema piuttosto colante. Regolatevi quindi nell'aggiungere acqua e non mettetene che la quantità strettamente necessaria per non essere costrette ad aggiungere altro zucchero. Preparato questo composto di zucchero spalmate di marmellata d'albicocca il babà già inzuppato, mettendone poca e dappertutto, e poi con un cucchiaio fate cadere dalla cupola in giù lo zucchero colante. Questa operazione è bene farla dopo aver messo il babà in una teglia. Se lo zucchero si spargesse sul fondo di essa Io riporterete sul dolce servendovi di una lama di coltello. Seminate sulla sommità del babà delle pizzicate di
Le dosi sono: Farina di prima qualità gr. 180; burro gr. 125; lievito di birra gr. 25; uvetta secca gr. 60; uova intere n. 3; un pizzico di sale; una
Del panettone, il famoso dolce specialità milanese, esistono numerose ricette, e ci è anche occorso di leggerne alcune, amenissime, a base di cremore e bicarbonato. Vi offriamo, secondo la nostra consuetudine, la ricetta milanese autentica, non nascondendovi che la lavorazione è piuttosto lunga e difficile e che condizione essenziale per la riuscita è di disporre di un forno a mattoni. Le dosi sono le seguenti: Farina kg. 1, lievito di pane gr. 500, burro gr. 250, zucchero gr. 250, sale gr. 9, gialli d'uovo n. 6, uova intiere n. 3, qualche cucchiaiata di uva sultana e cedro candito a dadi. Il panettone di Milano è tra le poche preparazioni nelle quali si impiega il lievito di pane. Il lievito dev'essere tenuto piuttosto forte, perchè la pasta, a causa delle uova, dello zucchero e del burro viene ad essere molto ingrassata. La preparazione del lievito ha un'importanza principale. Si prendono 100 grammi di pasta di pane, si aggiungono un paio di cucchiaiate di farina e di acqua tiepida tanto da ottenere una pasta un po' dura, se ne fa una pallottola sulla quale si tracciano due tagli in croce. Si mette una salviettina infarinata sul fondo di un recipiente, ci si pone sopra la palla di lievito, si copre e si lascia lievitare in un luogo tiepido per circa tre ore. Trascorso questo tempo si pesa il lievito e si rimpasta con una quantità di farina uguale al suo peso, aggiungendo naturalmente acqua tiepida in proporzione. Si lavora bene la pasta, se ne fa nuovamente una palla, si taglia in croce e si rimette a lievitare per altre tre ore, trascorse le quali si ripesa il lievito e si rimpasta con un uguale peso di farina, regolandosi come si è detto prima. Quando il lievito sarà cresciuto per la terza volta è pronto per essere adoperato per il panettone. Si fa la fontana con la farina già pesata (1 chilogrammo) e nel mezzo si mette il sale e 500 grammi del lievito preparato (se vi avanzerà del lievito lo terrete in serbo per altri usi). Sul lievito si versa il burro sciolto vicino al fuoco e s'incomincia ad impastare, aggiungendo i rossi d'uovo e le uova intere, poi lo zucchero sciolto in poca acqua tiepida. Se vedete che c'è bisogno di acqua aggiungetene poca alla volta. Lavorate energicamente la pasta a lungo, in modo che risulti piuttosto dura, lucida ed asciutta. Per ultimo si aggiunge l'uvetta e il cedro candito tagliato in piccoli dadi. Si lascia riposare la pasta per un'ora e poi si taglia in tanti pezzi per quanti panettoni si vogliono fare. Ogni pezzo si rotola con entrambe le mani e se ne fa una palla, che si dispone su carta unta e infarinata. Molti usano circondare il panettone con una striscia alta di carta unta affinchè possa crescere molto in altezza. Si mettono a lievitare i panettoni in luogo tiepido per circa 6 ore e quando essi saranno aumentati di volume e soffici al tatto, si fa su ognuno un leggerissimo taglio in croce e si passano in forno ben caldo. Man mano che prendono colore si portano alla bocca del forno e sollecitamente si sollevano con le dita i quattro angoli dove fu fatto il taglio, mettendo nel mezzo un pezzetto di burro. Si rimettono i panettoni in forno, si chiude, applicando sulla bocca del forno stesso uno strofinaccio bagnato, allo scopo di sviluppare nel forno un po' di vapore, che darà lucentezza al. panettone.
. 500, burro gr. 250, zucchero gr. 250, sale gr. 9, gialli d'uovo n. 6, uova intiere n. 3, qualche cucchiaiata di uva sultana e cedro candito a dadi. Il
Generalmente, a proposito di pasta Margherita, si fa un po' di confusione, e qualunque genere di torta viene battezzata col nome di questa pasta squisita. Dobbiamo anzitutto dire che la vera pasta Margherita deve cuocersi — a perfetta regola d'arte — non nelle usuali teglie, ma in speciali stampe quadrangolari un po' svasate e molto alte di bordi. Ecco le proporzioni: uova intere n. 3, rossi d'uovo n. 6, zucchero semolato gr. 200, farina gr. 100, fecola gr. 100, burro gr. 75, profumo di vainiglia o di vainiglina.
quadrangolari un po' svasate e molto alte di bordi. Ecco le proporzioni: uova intere n. 3, rossi d'uovo n. 6, zucchero semolato gr. 200, farina gr. 100
La base principale di questo dolce è costituita da una farina di mandorle che si ottiene pestando nel mortaio delle mandorle secche e dello zucchero. Preparate in due piatti separati, un ettogrammo di mandorle secche (s'intende sgusciate) e un ettogrammo e mezzo di zucchero in pezzi. Mettete nel mortaio un po' di mandorle alla volta con un pochino di zucchero e pestate col pestello per ridurre le mandorle in polvere. Le mandorle vanno pestate così come sono, senza toglier loro la buccia. Man mano che avrete pestato un po' di mandorle con lo zucchero passate questa farina da un setaccino di fil di ferro a maglie non troppo sottili. La farina che passerà la raccoglierete in un grande foglio di carta e i frantumi di mandorle che rimarranno sul setaccio li pesterete nuovamente insieme con altre mandorle e nuovo zucchero, finchè avrete esaurito tutte le mandorle e tutto lo zucchero. Badate di non adoperare troppo zucchero in principio perchè correreste il rischio di esaurire presto la dose messa da parte e di dover poi pestare le mandorle sole, col pericolo di far cavar loro l'olio. Ottenuta questa farina di mandorle zuccherata mettetela sulla tavola di marmo della cucina o sulla spianatoia di legno ed unitele due cucchiaiate colmissime di farina (65 grammi), due cucchiaini da caffè di cannella in polvere, un pezzo di burro come una grossa noce, un uovo intiero e la corteccia raschiata di mezzo limone. Da principio vi sembrerà che tutti questi ingredienti stentino ad unirsi, ma pian piano, impastando con pazienza otterrete una pasta omogenea. Guardatevi dall'aggiungere la più piccola quantità d'acqua che non ve n'è affatto bisogno. Ungete di burro una teglia piuttosto grande e velatela con un po' di farina capovolgendo e battendo poi la teglia per farne cadere l'eccesso. Rotolate la pasta con le mani leggermente infarinate e fatene un cilindro come un grosso maccherone che taglierete in tanti pezzetti come grosse nocciole. Schiacciate con le dita queste nocciole all'altezza di mezzo centimetro, dando loro una forma leggermente ovale, la forma presso a poco delle fave, e allineatele nella teglia, lasciando tra l'una e l'altra una piccola distanza, affinchè cuocendo e allargandosi un poco non si attacchino fra loro. Mettete la teglia in forno di calore moderato e date alle fave una ventina di minuti di cottura fino a che saranno diventate di un bel colore biondo. Staccatele con garbo dalla teglia, lasciatele asciugare su un setaccio grande e quando saranno fredde riponetele in una scatola chiusa, se volete che si conservino croccanti. Crediamo opportuno avvertirvi che all'uscita dal forno le fave sono molli e che solo col freddarsi acquistano quel croccante così piacevole. Con questa dose otterrete una cinquantina di fave, equivalenti in peso a due ettogrammi e mezzo e più.
pian piano, impastando con pazienza otterrete una pasta omogenea. Guardatevi dall'aggiungere la più piccola quantità d'acqua che non ve n'è affatto
Lavorate in una terrinetta con un cucchiaio di legno, mezzo panino di burro finchè sia ben soffice, aggiungete due cucchiaiate di zucchero al velo, poi, lavorando sempre, due cucchiaiate colme di farina, poi ancora la raschiatura di un po' di corteccia di limone e finalmente due chiare d'uovo. Mescolate per amalgamar bene ogni cosa, ma non lavorate troppo le chiare perchè non ce n'è bisogno. Fate un cartoccio di carta resistente, metteteci il composto, chiudetelo bene; poi spuntate con le forbici l'estremità inferiore in modo da lasciare un'apertura del diametro di mezzo centimetro circa, e premendo con le dita al disopra del cartoccio, fate uscire dal disotto questa specie di pasta molle. Avrete leggermente unto di burro una teglia, e su questa, premendo il cartoccio, farete cadere il composto nella grossezza di un lapis e nella lunghezza di una diecina di centimetri, badando che questi bastoncini non siano troppo vicini gli uni agli altri perchè, cuocendo, si spianano e allora si attaccherebbero tra loro. Infornate i biscotti a forno roventissimo e quando dopo pochi minuti avranno leggermente dorato gli orli, pur rimanendo bianchi, levateli dal forno e lasciateli freddare.
. Mescolate per amalgamar bene ogni cosa, ma non lavorate troppo le chiare perchè non ce n'è bisogno. Fate un cartoccio di carta resistente, metteteci il
Questi biscotti, che hanno nella pasticceria tante utili applicazioni, sono in particolar modo adatti per i bambini. Per una quindicina di savoiardi occorrono le seguenti proporzioni: zucchero in polvere gr. 40, farina gr. 20, farina di patate gr. 20, uova n. 2, un pizzico di sale. E per chi non avesse la bilancia: un paio di cucchiaiate di zucchero, un cucchiaio di farina, uno di fecola, avvertendo che queste cucchiaiate non siano troppo colme. Separate i bianchi dai rossi. I bianchi li metterete da parte, i rossi li passerete in una terrinetta con lo zucchero in polvere. Non occorre lavorarli molto, basteranno tre o quattro minuti: il tempo cioè di ben mescolare zucchero ed uova. Unite allora al composto le due farine, e lasciate riposare. Fatto ciò, montate le chiare in neve, servendovi di una frusta in ferro stagnato; ma guardate che le chiare sieno sostenutissime, perchè è da questo che dipende la buona riuscita dei biscotti. Quindi non vi stancate di sbattere. Quando le chiare saranno montate unitele delicatamente ai rossi, servendovi di un cucchiaio di legno e sollevando il composto affinchè i bianchi non si sciupino troppo. Prendete due fogli di carta spessa; ungete leggermente di burro l'uno, e fate un cartoccio con l'altro. Mettete il composto nel cartoccio, chiudete questo e spuntatene l'estremità in modo da lasciare un'apertura di un centimetro di diametro. Premendo delicatamente sulla sommità del cartoccio, fate uscire sul foglio di carta unto, tanti bastoncini grossi come un dito e lunghi una diecina di centimetri, facendo attenzione di non farli troppo vicini uno all'altro. Quando avrete esaurito la pasta mettete il foglio di carta sopra una teglia e spolverizzate i biscotti con zucchero al velo. Lo zucchero dovrà essere messo sui biscotti o con uno spolverizzatore, o facendolo cadere da un setaccino.
occorrono le seguenti proporzioni: zucchero in polvere gr. 40, farina gr. 20, farina di patate gr. 20, uova n. 2, un pizzico di sale. E per chi non
Per un dolce per otto persone fate una pasta brioche con la dose seguente: farina gr. 200, burro gr. 120, lievito gr. 10, sale gr. 2, zucchero gr. 16, uova intiere n. 2. Quando la pasta sarà pronta rotolatela in palla e mettetela in una stampa possibilmente svasata e scanalata, come una grande tartelette. Questa stampa dovrà essere leggermente unta di burro ed avere la capacità di un litro abbondante. Aspettate che la pasta abbia quasi raddoppiato il suo volume, ciò che avverrà in meno di un'ora, poi doratela e cuocetela in forno piuttosto vivace per circa mezz'ora. Se in estate, cuocete in uno sciroppo denso qualche albicocca divisa a metà e qualche pesca in spicchi, e poi lasciate freddare la frutta sul ghiaccio. In altre stagioni provvedetevi di frutta allo sciroppo conservata in scatole. Tagliate col coltello la cupola della brioche e tenetela da parte. Con un coltellino togliete poi la mollica nell'interno della brioche lasciando tutto intorno uno spessore di un paio di centimetri, così da avere una specie di scatola. Ordinerete anche al vostro lattaio un quarto di litro di crema Chantilly, che terrete anche in ghiaccio insieme con la frutta. Pochi momenti prima di far servire il dolce, mettete nel fondo della brioche una cucchiaiata di crema, e su questa fate uno strato di frutta sciroppate. Continuate a riempire il vuoto della brioche, alternando strati di crema e di frutta e finite con uno strato di crema. Rimettete a posto la cupola tagliata, restituendo così alla brioche la sua forma primitiva, mettete il dolce in un piatto con salvietta e fatelo portare in tavola.
, uova intiere n. 2. Quando la pasta sarà pronta rotolatela in palla e mettetela in una stampa possibilmente svasata e scanalata, come una grande
Ecco le proporzioni: Miele grammi 200, zucchero grammi 200, nocciole sgusciate grammi 500, cacao grammi 180, chiare d'uovo n. 2. Mettete il miele in una casseruola piuttosto grande e poi ponete questa in un'altra casseruola ancora più grande contenente acqua bollente. È preferibile cuocere il miele a bagno-maria perchè non si colorisce e non brucia. Il lavoro è più lungo, ma il risultato è di gran lunga superiore. Provvedetevi di un cucchiaio di legno ben netto e mescolate continuamente il miele, la cui cottura avverrà in circa un'ora e mezzo. Pesate le nocciole sgusciate e mettetele in forno tiepido affinchè possano leggermente abbrustolirsi, e mettete il cacao in una casseruolina sciogliendolo con mezzo bicchiere di sciroppo di zucchero fatto con tre cucchiaiate di zucchero e due cucchiaiate d'acqua. Potrete adoperare cacao in polvere o meglio quel genere di cacao usato in pasticceria detto cacao in pasta, che è sotto forma di tavolette e non dolcificato. È la migliore qualità, specialmente adatta per questi lavori. Sciogliete il cacao su fuoco debolissimo e lavoratelo con un cucchiaio in modo d'averlo ben liscio e della densità di una crema spessa. Se vi riuscisse troppo denso aggiungete qualche altra goccia d'acqua. Provate di quando in quando la cottura del miele che dovrà giungere alla caramella. Avrete intanto montato in neve le due chiare e quando il miele sarà cotto le verserete poco alla volta nella massa fusa mescolando sempre. Pochi minuti prima che il miele arrivi di cottura cuocete anche lo zucchero e quando anche questo sarà arrivato alla «caramella» versatelo nella casseruola più grande dove c'è il miele con le chiare. Fatto ciò aggiungete il cacao sciolto e da ultimo le nocciole torrefatte, che dovranno essere tiepide. Mescolate per amalgamare bene ogni cosa, togliete dal fuoco, ed il torrone è fatto. Non resterà che travasarlo: o in una riquadratura di latta o, senza troppe complicazioni, su delle ostie allineate sul marmo di cucina cercando di dargli forma rettangolare, e aiutandovi in ciò con le mani o con una larga lama di coltello. Ricoprite anche il disopra del torrone con le ostie e pressatelo leggermente lasciandolo così per una mezz'ora per dargli il tempo di solidificarsi. Tagliatelo poi in pezzi lunghi che avvolgerete in carta paraffinata.
Ecco le proporzioni: Miele grammi 200, zucchero grammi 200, nocciole sgusciate grammi 500, cacao grammi 180, chiare d'uovo n. 2. Mettete il miele in
Per un buon gelato di crema seguite queste proporzioni modificandole a seconda della capacità della vostra macchinetta. Latte litri uno, zucchero gr. 300, rossi d'uovo n. 10, profumo di vainiglia o di limone. Si sbattono in una casseruola ben netta i rossi d'uovo con lo zucchero e quando sono montati vi si unisce a poco a poco il latte bollente, nel quale si sarà tenuta in infusione una mezza stecca di vainiglia, o una sottile corteccia di limone. Non c'è bisogno di dire che, tanto l'uria che [immagine e didascalia: Macchinetta da gelato tipo per famiglia.] l'altra vanno tolte al momento della manipolazione. Rimettete la crema sul fuoco, sempre mescolando con un cucchiaio di legno e quando vedrete che è leggermente addensata e vela il cucchiaio, travasatela in una terrinetta attendendo che si freddi, e mescolandola di quando in quando, per impedirle di fare la pellicola superficiale. Condizione essenziale è che il composto non debba bollire. È anche buona pratica, dopo aver cotto la crema, di passarla da un setaccino. Mettete poi questa crema nella macchinetta, circondatela di ghiaccio pesto e gelatela nel modo che si disse più sopra. Avrete così un gelato da servire in bicchieri a forma di coppa e che si chiama «mantecato». Il mantecato si può facilmente ridurre in pezzo duro. Basterà provvedersi di una forma grande o di qualche formetta piccola, per operare senza troppa fatica la trasformazione. Le forme più adatte per questo genere di lavoro sono costituite da un cerchio sul quale vanno a incastrarsi due coperchi, uno sopra e uno sotto. Queste stampe possono essere di rame stagnato o anche di ferro stagnato, e sono in vendita in tutti i negozi di articoli di cucina. Ottenuto dunque il mantecato, foderate di carta la stampa grande o le stampine, riempite sollecitamente col mantecato, pareggiate la superficie, coprite con un foglietto di carta e finite calcando il coperchio. Mettete sotto ghiaccio per un'ora, poi aprite la stampina e sformate il gelato. Il ghiaccio dev'essere ridotto in piccolissimi pezzi e mescolato al sale in queste proporzioni: per ogni chilo di ghiaccio, 150 grammi di sale grosso. C'è anche chi consiglia di aggiungere una piccola dose di salnitro, ma il sale è già sufficiente per avere un efficace miscuglio frigorifero. I gelatieri usano uno speciale sale molto economico detto sale pastorizio; ma questo sale viene venduto dai depositi governativi soltanto in grandi quantità.
. 300, rossi d'uovo n. 10, profumo di vainiglia o di limone. Si sbattono in una casseruola ben netta i rossi d'uovo con lo zucchero e quando sono
Esige un po' di cura, e una speciale stampa detta stampa da spumone, la quale è formata da una specie di cupola con relativo coperchio. Generalmente queste stampe hanno la capacità di 3/4 di litro e sono costruite in rame stagnato o più economicamente in ferro stagnato. Si trovano in vendita da tutti i negozianti di articoli per cucina e pasticceria. La cassata si compone di due parti distinte: un involucro di crema e una parte interna, soffice e spumosa, nella quale si aggiungono dei pezzetti di canditi e dei filettarli di mandorle. In altri tempi questa parte interna si faceva con della crema Chantilly; ma ora tutti o quasi tutti i gelatieri adoperano la meringa cotta di cui abbiamo già tenuto parola più avanti a proposito del «Biscuit allo zabaione». Bisogna dunque incominciare col fare un mantecato di crema. Per una stampa ordinaria sufficiente a otto persone potrete fissare queste proporzioni: latte mezzo litro, zucchero gr. 150, rossi d'uovo n. 5, profumo di limone o di vainiglia. Vi raccomandiamo di avere un mantecato ben duro: ciò che otterrete sminuzzando bene il ghiaccio e mescolandolo col sale nelle proporzioni indicate, e poi calcando ben bene attorno alla macchinetta il miscuglio frigorifero. Quando il gelato si sarà rappreso, togliete via le spatole interne della macchinetta, rimettete il coperchio e lasciate un po' maturare il gelato, aggiungendo altro ghiaccio e sale se quello messo in precedenza si fosse un po' liquefatto. Mentre il gelato riposa, preparate la meringa cotta. Montate in neve ben ferma due chiare d'uovo e intanto mettete a cuocere in un polsonetto quattro cucchiaiate di zucchero, inumidite con un po' d'acqua. Dopo pochi minuti di bollore provate la cottura con le dita o con lo stecchino, e quando vedrete che lo zucchero si raccoglierà in una specie di pallina morbida, toglietelo dal fuoco e fatelo cadere in filo sottile sulle chiare montate, mescolando pian piano con l'altra mano. Preparati gli ingredienti principali preparate anche qualche pezzettino di candito e qualche filettino di mandorla che unirete alla meringa. Quest'aggiunta, trattandosi di gelateria alla buona, potrà anche essere omessa. Intanto, avrete posto sul ghiaccio la stampa vuota. Quando sentirete che è ben fredda versatevi sollecitamente il mantecato di crema, che, ripetiamo, dev'essere consistente e con un cucchiaio distribuitelo intorno intorno alle pareti della stampa, in modo da lasciare un vuoto in mezzo. In questo vuoto versate la meringa cotta che dovrà essere anch'essa ben fredda, battete leggermente la stampa, affinchè non rimangano vuoti, pareggiate la superficie, mettete sulla cassata un foglio di carta bianca e poi chiudete la stampa col coperchio. È buona regola stuccare intorno intorno il coperchio con un cordoncino di grasso, o di burro di qualità scadente, affinchè l'acqua salata non possa penetrare nell'interno. Preparata sollecitamente la cassata affondatela in un secchio contenente ghiaccio pesto e sale, coprite il secchio con un grosso strofinaccio ripiegato, e lasciate che la cassata possa gelarsi completamente per un'ora o due. Trascorso questo tempo estraete la stampa, sciacquatela in acqua fresca e poi sformate il gelato.
proporzioni: latte mezzo litro, zucchero gr. 150, rossi d'uovo n. 5, profumo di limone o di vainiglia. Vi raccomandiamo di avere un mantecato ben duro
Cosa essenziale per la riuscita di questa preparazione è quella d'avere il tonno freschissimo. Il tonno, appena passato, acquista un gusto piccante facilmente riscontrabile. Procurate dunque di acquistare il tonno, in negozi serii, provandone magari un pezzetto prima di azzardare la preparazione in grande. Prendetene una fettina, mettetela in un tegamino con un po' di olio e sale e fatela cuocere per pochi minuti; gustate il tonno e se non sentirete sulla lingua il caratteristico bruciore, potrete essere sicure della riuscita della vostra lavorazione. Sarà bene che prepariate almeno un chilogrammo o due di tonno: meglio ancora, se crederete opportuno, farne una maggiore quantità. Acquistato il tonno, mettetelo subito in una salamoia, per la quale dovrete impiegare 25 grammi di sale per ogni 100 grammi d'acqua, cioè 250 grammi per un litro d'acqua. Generalmente per un paio di chilogrammi di tonno sono sufficienti due litri d'acqua, nei quali, secondo le proporzioni date, dovrete far sciogliere 500 grammi di sale. Sarà bene che facciate scaldare l'acqua per ottenere una soluzione perfetta. Attendete poi che l'acqua diventi completamente fredda, versatela in una insalatiera, e immergeteci il tonno, che avrete tagliato in pezzi piuttosto grossi. Lasciate stare così il tonno per quattro o cinque ore affinchè possa dissanguarsi e risultare bianco. Intanto mettete sul fuoco una pesciera o un tegame grande, dove avrete messo due litri d'acqua e 500 grammi di sale, cioè la stessa dose della salamoia impiegata per dissanguare il tonno. Aggiungete una cipolla con due chiodi di garofani, una costola di sedano, un ciuffo di prezzemolo, una o due carote gialle e una foglia d'alloro. Quando il liquido bollirà estraete i pezzi di tonno dalla salamoia fredda, e gettateli nella pesciera. Appena l'acqua avrà rialzato il bollore, tirate il recipiente sull'angolo del fornello, e fate bollire dolcemente per una mezza ora, schiumando accuratamente. Trascorsa la mezz'ora, spegnete il fuoco e lasciate che il tonno si freddi dentro il suo brodo. Allora estraete i pezzi e metteteli ad asciugare su un setaccio, un graticcio o una griglia, in modo che l'aria possa circolare liberamente da tutte le parti. Di quando in quando voltate il tonno, il quale dovrà rimanere così per un paio di giorni, fino a che abbia perduto tutta la sua umidità. Avrete intanto fatto preparare delle scatole di latta speciali per le conserve alimentari, scatole col loro coperchio ad incastro che possa poi saldarsi perfettamente. Le scatole potranno avere la capacità di mezzo litro o di un litro. Distribuite il tonno nelle scatole senza troppo sminuzzarlo, procurando di non lasciar vuoti, e mettendo qua e là qualche chiodino di garofano e qualche pezzettino di alloro. Riempite la scatola fino a un dito dall'orlo e poi versateci dentro un po' d'olio. Quando l'olio sarà assorbito mettetene dell'altro, fino a che constaterete che ce n'è a sufficienza, senza tuttavia esagerare in abbondanza. Fate saldare le scatole, collocatele in una pentola grande o in un caldaio, ricopritele d'acqua fredda, mettete il caldaio sul fuoco e fate pian piano levare il bollore. Mantenete l'ebollizione regolare per un'ora se si tratta di scatole da mezzo litro e per un'ora e mezzo se le scatole hanno la capacità di un litro. Lasciatele freddare nell'acqua, estraetele, asciugatele bene e poi riponetele in dispensa.
. Quando l'olio sarà assorbito mettetene dell'altro, fino a che constaterete che ce n'è a sufficienza, senza tuttavia esagerare in abbondanza. Fate saldare
Tutti sanno che «menu» — parola esotica, ma entrata, come tante nella lingua dell'uso: nè ce n'è un'altra che possa efficacemente sostituirla — significa cosi l'insieme dei cibi e dei vini che compongono un pranzo, come, in senso traslato, quel foglietto di carta, di cartoncino, di pergamena ecc., che si mette dinanzi a ciascun convitato, e dove è trascritto l'ordine e la specie delle vivande. Usanza codesta, relativamente recente, e che data dalla seconda metà del secolo scorso, quando all'antico servizio detto «alla francese» venne più opportunamente sostituito il servizio «alla russa» più rapido e più razionale, che segnò l'abolizione delle interminabili serie di piatti, delle barocche montature su zoccoli di grasso o di cera, e delle pietanze mantenute calde sulla tavola da appositi fornelletti (rechauds). La composizione di un «menu» è sottoposta a delle regole, che è opportuno ricordare brevemente. Anzitutto il «menu» deve essere adattato alla circostanza per cui si dà il pranzo. È chiaro che il «menu» d'un pranzo di cerimonia dovrà essere differente da quello per una comunione, allo stesso modo che il «menu» per un pranzo dove predominano le signore dovrà essere assai più ricercato di quello per una riunione di uomini soli, e così di seguito. Uno degli aforismi più giusti di Brillat-Savarin, dice: «L'ordine delle vivande in un pranzo è dalle più sostanziose alle più leggere». Il proverbio «l'appetito viene mangiando» è falso, e man mano che lo stomaco si riempie, si richiedono dei cibi di più in più leggeri e stuzzicanti. Gli antipasti e la minestra — nei grandi pranzi si usano preparare due minestre, una cosidetta «chiara» e una «legata» — rappresentano gli aperitivi. Alcuni vorrebbero abolire anche gli antipasti, eccezione fatta per il caviale e le ostriche, poichè servendosi in genere, secondo la moda russa, dei pesci affumicati, delle insalate piccanti, ecc., il palato non si trova più in grado di apprezzare degnamente il sapore della minestra.
Tutti sanno che «menu» — parola esotica, ma entrata, come tante nella lingua dell'uso: nè ce n'è un'altra che possa efficacemente sostituirla
Si mette un solo piatto, a sinistra del quale si disporranno la forchetta, e la forchetta speciale per il pesce; e a destra il coltello, il coltello del pesce e il cucchiaio. Col procedere del servizio le posate che non servono più vengono tolte, e le altre cambiate a ogni vivanda. C'è chi usa mettere in tavola fin dal principio il coltello e la forchettina per il «dessert», disponendoli orrizzantalmente tra il piatto e i bicchieri. Ma è un ingombro inutile, ed è molto meglio portarli solo al momento opportuno. Per i bicchieri seguite la disposizione della nostra figura, nella quale abbiamo tracciato anche delle linee di guida. Sul bicchiere da acqua si posa il segnaposto col nome del convitato. Il bicchiere per il vino del Reno o per il vino bianco secco, che si servirà col pesce, è generalmente colorato in verde o in rosa (n. 11) e mette una nota simpatica nella uniforme limpidità dell'altra cristalleria. Il bicchierino del liquore si porta in tavola in ultimo, quando si serve il caffè. Alla destra di ciascun convitato si può mettere il «menu».
vino bianco secco, che si servirà col pesce, è generalmente colorato in verde o in rosa (n. 11) e mette una nota simpatica nella uniforme limpidità
Se a mensa sono invitati solamente degli ospiti di sesso maschile, chi serve a tavola presenterà per tutta la durata del pranzo sempre per primo il piatto alla padrona di casa, servendo man mano gli altri ospiti, incominciando dal più ragguardevole, che siederà alla destra della padrona di casa, e lasciando per ultimo il padrone di casa. Maggiore oculatezza occorre quando insieme agli uomini siedono a mensa delle signore. In questo caso se tra queste signore ce n'è una che per condizione sociale, o nobiltà o età avanzata sia nettamente al di sopra delle altre, sarà sempre da costei che incomincerà il servizio, il quale passerà poi alla padrona di casa e alle altre signore, per seguitare cogli uomini e finire al padrone di casa. Se però le signore sono, come generalmente accade, tutte di eguale condizione sociale, la cameriera incomincerà ogni volta da una signora differente, servirà subito dopo la padrona di casa e passerà quindi a servire le altre signore. Ultimi verranno gli uomini e quindi il padrone di casa. Rammentiamo che una volta serviti si deve incominciare subito a mangiare, senza attendere che siano serviti gli altri. La regola dell'antico galateo è stata dunque completamente abolita dal galateo moderno, e questo sistema, che potrà sembrare discutibile, è stato invece accettato affinchè gli ospiti possano gustare le vivande calde e quindi nel miglior modo che possa mettere in rilievo i loro pregi.
queste signore ce n'è una che per condizione sociale, o nobiltà o età avanzata sia nettamente al di sopra delle altre, sarà sempre da costei che