I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione
Il tradizionale piatto di ogni giovedì nelle piccole trattorie romane e il piatto che molti buoni romani prediligono in occasione di qualche riunione famigliare: i gnocchi. Tra coloro che ne sono ghiottissimi e coloro i quali ritengono che sia un peccato sprecare l'abbondante sugo e formaggio necessario per condire... delle patate, noi rimarremo neutrali, limitandoci a dare la ricetta, non certo per le abbonate romane, ma per quelle di altre città. Si mettono a lessare delle patate piuttosto grosse e di qualità farinosa, calcolandone due chilogrammi per sei persone. Appena cotte si sbucciano, si schiacciano e si lasciano un po' raffreddare. S'impastano allora le patate con un po' di farina. È difficile dare dosi esatte di farina perchè alcune qualità assorbono più, altre meno farina; in genere però ne occorreranno circa 200 grammi per ogni chilogrammo di patate. Amalgamate bene le patate con la farina e ottenuta una pasta morbida, si taglia a pezzi, e d'ogni pezzo, sulla tavola infarinata, se ne foggiano dei cannelli della grossezza di un dito, che si ritagliano poi in tanti pezzetti di un paio di centimetri. Si rotola alla svelta ognuno di questi pezzetti tra il tavolo e le dita e per ultimo ci si appoggia la punta del medio facendo su ogni gnocco una piccola fossetta. Si allineano man mano su una tovaglia infarinata e intanto si mette sul fuoco un recipiente con acqua e sale. Quando l'acqua bolle si mettono giù un po' di gnocchi alla volta e appena tornano a galla si estraggono con una cucchiaia bucata, si lasciano sgocciolare bene, e si dispongono a strati in una zuppiera, condendo ogni strato con abbondante sugo d'umido e parmigiano grattato.
Il tradizionale piatto di ogni giovedì nelle piccole trattorie romane e il piatto che molti buoni romani prediligono in occasione di qualche riunione
Per sei persone, calcolate 500 grammi di riso. Mettete sul fuoco una casseruola con un ettogrammo di burro e un po' meno di mezza cipolla tagliata sottilmente, aggiungete un ettogrammo abbondante di fegatini di pollo, mezzo ettogrammo di prosciutto in listerelle, due ettogrammi di animelle di abbacchio ritagliate in due, un pugno di funghi secchi già fatti rinvenire in acqua fresca, e fate cuocere su fuoco moderato affinchè il tutto possa rosolare dolcemente ma senza prendere un eccessivo colore. Bagnate allora con mezzo bicchiere di vino bianco e mezzo bicchiere di marsala, aggiungete il riso, e, insieme al riso un ettogrammo abbondante di piselli sgranati, teneri e di buona qualità, e mezzo ettogrammo di tartufi neri tagliati in dadini. Mescolate fino a che l'umidità dei vini non sia evaporata. Bagnate allora il riso con del brodo e con un ramaiolo di sugo di carne senza pomodoro o, in mancanza di questo, con un buon cucchiaino di estratto di carne in vasetti. Condite con sale, un pizzico di pepe bianco e lasciate che il riso cuocia pian piano per il tempo necessario alla sua completa cottura. A questo punto ultimatelo con un altro mezzo ettogrammo abbondante di burro e un ettogrammo e mezzo di parmigiano grattato. Date un'ultima mescolata, versate il riso sul piatto e fatelo portare immediatamente in tavola. Nella ricetta originale figurano anche delle creste di pollo. Ma siccome queste sono generalmente un po' dure, sarà bene prelessarle e metterle poi giù insieme ai fegatini durante la prima fase dell'operazione. Nelle stagioni in cui non ci sono piselli freschi, ci si può servire efficacemente di piselli conservati in scatola, purchè si abbia l'avvertenza di scegliere una buona marca. Abbiamo pubblicato la ricetta nella sua tipica integrità. Noi non consigliamo modificazioni od economie. Questo risotto è squisito a patto che sia eseguito così. Certo non è piatto molto economico da eseguirsi tutti i giorni, ma in occasione di qualche solennità, o avendo degli ospiti, avrete la certezza di farvi onore e di portare sulla mensa una preparazione veramente gustosa, che predisporrà lietamente i commensali al resto del pranzo
in occasione di qualche solennità, o avendo degli ospiti, avrete la certezza di farvi onore e di portare sulla mensa una preparazione veramente
La cima è una famosa specialità della cucina genovese e costituisce un ottimo piatto di carne il quale non solo può tornare utilissimo nei pasti quotidiani, ma, per l'eleganza della sua confezione può servire anche come pietanza raffinata in occasione di qualche pranzo d'impegno. La sua esecuzione non presenta alcuna difficoltà. Bisogna provvedersi di uno speciale taglio di carne, cioè un pezzo di ventre di bue scelto vicino al petto, o anche di un pezzo di petto sottile. Notiamo qui che la vera cima genovese si fa col ventre, che però non offre altro che della pelle. Adoperando il petto si può utilizzare anche un po' di carne. Comunque, in possesso del pezzo di carne (ce ne vorrà circa mezzo chilogrammo) stendetelo sulla tavola e con un coltello ben tagliente apritelo in due senza però intaccare gli orli che dovranno rimanere di circa due centimetri. Per intenderci meglio, voi dovrete ottenere una specie di tasca aperta da un solo lato. Questo forma l'involucro destinato ad accogliere il ripieno. Il quale ripieno si fa così: prendete una animella di vitello, scottatela un istante in acqua bollente, liberatela da qualche pellicola e poi mettetela in una padellina con un pochino d'olio e di burro, un pezzettino d'aglio e poca cipolla. Fate cuocere piano per pochi minuti senza far rosolare l'animella, e poi toglietela dal fuoco e ritagliatela in dadini assai piccoli. Mettete in bagno 100 grammi di mollica di pane, spremetela e mettetela sul tagliere con 200 grammi di magro di maiale e 50 grammi di lardo. Tritate tutto assai fino, condite con sale e pepe, una buona pizzicata di foglie di maggiorana un uovo e un pugno di parmigiano grattato e in questo trito amalgamate l'animella in dadini e 100 grammi di pisellini sgranati. Nella stagione in cui non ci sono i piselli freschi si supplisce efficacemente e in modo assai sbrigativo con piselli in scatola. Ottenuto questo impasto, mettetelo dentro la tasca preparata, pigiate bene affinchè non restino vuoti e procurate di dare all'insieme una forma rotonda. Con un ago grosso e del filo forte cucite l'apertura della tasca, cucendo anche qualche eventuale strappo che si fosse fatto durante l'operazione. Fate due o tre legature con dello spago per mantenere in forma la cima e poi mettetela a cuocere in acqua, preferibilmente calda, nella quale aggiungerete una mezza cipolla, una costolina di sedano, un pezzo di carota gialla e un pezzetto di foglia di lauro. Trascorse un paio d'ore estraete la cima, mettetela in un piatto, copritela con una tavoletta e sulla tavoletta appoggiate un paio di ferri da stiro, affinchè l'interno possa ben pressarsi. Questa squisita pietanza si può mangiare calda o fredda. Se volete mangiarla calda tenetela a riposare vicino al fuoco. In questo caso, giunta l'ora del pranzo, l'affetterete con un coltello ben tagliente e la servirete con un piatto di verdura cotta, a vostra scelta. Se volete invece mangiarla fredda, lasciatela riposare più a lungo in un ambiente fresco, poi affettatela e servitela con accompagnamento di gelatina o di insalata russa o anche di verdura all'agro. Il brodo che avrete ottenuto dalla cottura della cima, è ottimo e potrà essere utilizzato per delle eccellenti minestre. La vera ricetta, quella che abbiamo descritta, vuole l'impiego di una animella di vitello. Volendo fare le cose in via più economica, potrete sopprimerla ed otterrete ugualmente un piatto di carne squisito e raccomandabilissimo per famiglia.
quotidiani, ma, per l'eleganza della sua confezione può servire anche come pietanza raffinata in occasione di qualche pranzo d'impegno. La sua esecuzione
Non che il rognone sia un alimento di tutti i giorni, ma usato di quando in quando può piacere e contribuire a dare una certa varietà ai menù quotidiani. Ma il rognone viene generalmente mal preparato in casa; e spesso coloro che ne mangiano volentieri in trattoria o in albergo rinunziano a farlo cucinare in famiglia per quello sgradito sapore che esso acquista. Le donne di servizio e le cuoche hanno, per preparare il rognone, sistemi assolutamente barbareschi, e ne risulta una vivanda dura, tigliosa e non eccessivamente piacevole all'odorato. V'insegneremo qui il migliore modo per cucinare il rognone ed ottenere una pietanzina delle più squisite. Il rognone di vitello non è molto conveniente per famiglia. È ottimo, ma costa salato, quasi come una buona bistecca. In ogni modo per chi avesse l'occasione di cucinarlo eccone il semplicissimo procedimento. Si apre il rognone in due parti, e di ogni pezzo si fanno due fettine, si mettono queste fette in un piatto, si condiscono con olio, sale e pepe e si lasciano star così circa un'ora. Al momento di andare in tavola si dispone il rognone sulla gratella e si arrostisce a fuoco moderato. In pochi minuti sarà fatto. Accomodatelo in un piatto, spruzzateci su un po' di sugo di limone e mangiatelo caldissimo. Il rognone di vitello non esige operazioni preliminari, indispensabili invece quando si tratti del rognone di bue. Per ottenere un risultato certo, seguite perfettamente le istruzioni seguenti. Per sei persone prendete un bel rognone di bue, osservando che sia fresco e di bel colore — se avesse un color smorto e delle macchie verdastre rifiutatelo senz'altro — liberatelo accuratamente da ogni residuo di grasso, e tagliatelo, come un salame, in fette sottilissime. Mettete in una padella un cucchiaio di olio, o una piccolissima quantità di strutto; aggiungete il rognone tagliato, e mettete su fuoco molto forte. Dopo due o tre minuti, quando vedrete che il rognone perde il suo color sanguinolento ed incomincia a rosolarsi, levate la padella dal fuoco, versate il rognone in un colabrodo e appoggiate il colabrodo su una scodella. Vedrete ben presto che il rognone incomincerà a sgocciolare un sugo nerastro e sanguigno; lasciatelo sgocciolare per una diecina di minuti. Nettate intanto la padella, metteteci una cucchiaiata di strutto, o dell'olio se più vi piace, tagliate finemente una mezza cipolla e fatela imbiondire adagio adagio su fuoco moderato. Trascorsi i dieci minuti, il rognone avrà sgocciolato quasi una scodella di sangue e con esso tutte le sue impurità. Si ravviva allora il fuoco, si getta il rognone nella padella con la cipolla, si bagna con mezzo bicchiere di vino bianco, o meglio ancora due dita di buon marsala, ci si unisce un mezzo cucchiaio di salsa di pomodoro, sale e pepe, e sempre su fuoco vivace si fa cuocere per altri due o tre minuti. Si rovescia in un piatto, ci si getta sopra una cucchiaiata di prezzemolo finemente tritato e si contorna con crostini di pane fritto. È buona regola riscaldare prima il piatto versandoci un ramaiuolo d'acqua bollente e poi asciugandolo. Il rognone così preparato si può servire benissimo in una colazione anche elegante, e farà una ottima figura se verrà presentato in tavola in un piatto d'argento o di metallo argentato. Per concludere, il rognone deve cuocere appena quel tanto necessario e non inseccolirsi sul fuoco, deve gettar via completamente tutta la parte sanguigna e deve essere gustato appena fatto. Soltanto a questa condizione avrete una eccellente pietanza tenera e saporita. Con l'identico sistema potrete preparare i rognoni di maiale, i quali, purchè cucinati a regola d'arte, sono squisiti.
come una buona bistecca. In ogni modo per chi avesse l'occasione di cucinarlo eccone il semplicissimo procedimento. Si apre il rognone in due parti, e
Quando la terrina sarà cotta toglietela dal forno e appoggiate sopra la carta oleata una tavoletta di legno della stessa sagoma della terrina, mettendo su questa tavoletta un peso (ad esempio un ferro da stiro) affinchè il composto possa ben pressarsi. Lasciate freddare così e dopo qualche ora passando una lama di coltello intorno alla parete interna della terrina staccate il composto di carne e capovolgetelo sopra un piatto. Affettatelo allora con un coltello ben tagliente e trasportate queste fette sul piatto di servizio, sovrapponendole a scalini, in modo che appaia il mosaico di cui sono costituite le varie fette. Contornate il piatto con bei crostoni di gelatina, ottenuta col nostro sistema sbrigativo; e qualora in occasione di una cena o di un pranzo elegante voleste presentare questa magnifica pietanza con una eleganza anche maggiore, alternate i crostoni di gelatina con delle piccole tartelette di pasta non dolce, riempite all'ultimo momento con un'insalata russa, ottenuta con legumi tagliati in dadini piccolissimi.
costituite le varie fette. Contornate il piatto con bei crostoni di gelatina, ottenuta col nostro sistema sbrigativo; e qualora in occasione di una
Proporzionalmente al numero delle persone — due o tre cucchiaiate di macédoine sono sufficienti per una persona — prendete della frutta di stagione come pere, mele, banane, ananas, e ritagliate ogni cosa in dadini. Potrete aggiungere fragole piccole di bosco o grandi di giardino, lamponi, ribes sgranato, mandorle fresche sgusciate e divise a metà ecc. Tanto più varia sarà la macédoine e tanto più ricca risulterà. Tutto dipende dalla spesa che si vuol fare. Raccogliete tutta la frutta in una terrinetta e mettete questa sul ghiaccio. Avrete intanto fatto sciogliere a caldo due parti di zucchero e una parte d'acqua e quando questo sciroppo sarà freddo diluitelo con un bicchierino o due di Kirsch o di Maraschino. Con lo sciroppo così ottenuto innaffiate la frutta e lasciate in ghiaccio fino al momento di servire. Questa è la macédoine classica. Molti amano servire, in occasione di qualche pranzo raffinato, una macédoine allo Champagne. In questo caso si prepara la frutta come già detto, si spolverizza di zucchero in polvere e si lascia macerare un po' sul ghiaccio. Si finisce poi con dello Champagne o dello Spumante in quantità proporzionale alla frutta preparata. Si serve generalmente in calici o coppe di cristallo.
innaffiate la frutta e lasciate in ghiaccio fino al momento di servire. Questa è la macédoine classica. Molti amano servire, in occasione di qualche
Le gelatine al liquore rappresentano un dolce della cucina classica; e ancora adesso, in occasione di qualche grande buffet, è frequente il caso di vedere far bella mostra di sè codesti dolci, nei più svariati colori. Diremo subito che l'oblìo in cui queste gelatine sono un po' cadute è affatto ingiustificato, in quanto che alla loro preparazione non concorrono difficoltà di procedimenti, nè spesa eccessiva, mentre il risultato è attraentissimo alla vista e molto accetto al palato. Si tratta di fare una gelatina dolce, ben chiarificata, alla quale si aggiunge un profumo a piacere o un liquore. Si potranno dunque confezionare gelatine al limone o all'arancio, o alla vainiglia, oppure alla chartreuse, all'alckermes al rhum o, come più comunemente si fa, al maraschino. Scegliamo dunque un liquore a piacere, ad esempio del rhum, e vediamo quale è il procedimento per la confezione del dolce. Basandosi sul procedimento che descriveremo, le nostre lettrici potranno poi a loro piacere variare il liquore o l'essenza, e quindi anche il colore della gelatina. Premettiamo che le gelatine dolci vanno confezionate in stampe col buco in mezzo e piuttosto lavorate, ciò che le rende assai eleganti. Le dosi di base sono queste: acqua litri uno; zucchero grammi 400; 50 grammi di gelatina «marca oro»; 3 bianchi d'uovo; 4 bicchierini di liquore. Le dosi di base che noi abbiamo dato sono sufficienti per fare una grandissima gelatina dolce. Se vorrete fare una gelatina più piccina, sufficiente a sei persone, ridurrete le dosi nel modo seguente: Due bicchieri d'acqua; 5 cucchiaiate e mezzo di zucchero; 17 grammi di gelatina; un bianco d'uovo; un bicchierino e mezzo di liquore. Come vedete si tratta della formula base ridotta su per giù ad un terzo. Mettete i fogli di gelatina in bagno in una casseruola con acqua fredda e lasciate così almeno per un quarto d'ora. A parte, in una terrinetta, mettete lo zucchero con i due bicchieri d'acqua tiepida e lasciate che lo zucchero si sciolga bene. Prendete adesso una casseruola piuttosto grande, ben netta, e in questa mettete la chiara d'uovo che sbatterete un poco con la frusta di fil di ferro affinchè rimanga ben sciolta e spumosa, ma non montata in neve. Versate allora a cucchiaiate sulla chiara l'acqua zuccherata, continuando sempre a sbattere per unire bene il composto. Quando avrete versato tutto lo sciroppo di zucchero prendete la gelatina che era nell'acqua fredda e che intanto si sarà ben rammollita, strizzatela un po' tra le mani e aggiungetela nella casseruola. Mettete tutto su fuoco moderato e, sempre sbattendo con la frusta, portate il liquido all'ebollizione. Appena questa si sarà verificata tirate la casseruola sull'angolo del fornello, quasi fuori del fuoco, coprite il recipiente, mettendo qualche pezzettino di brace sul coperchio e lasciate riposare la gelatina per una ventina di minuti. La chiara d'uovo portata all'ebollizione, si sarà coagulata assorbendo tutte le impurità del liquido, che apparirà negli interstizi limpidissimo. Mentre la gelatina riposa vicino al fuoco, prendete una seggiola di cucina, appoggiatela capovolta sul tavolo, e sulle quattro zampe distendete una salvietta che assicurerete con quattro legature di spago, una per ogni zampa della seggiola. Questo sistema di improvvisare un filtro, per quanto possa sembrare strano a chi non lo conosce è il più comodo e il più sicuro, e viene praticato da tempo immemorabile in ogni cucina. Preparata così la salvietta, mettete sotto ad essa una insalatiera grande, versate sulla salvietta la gelatina e lasciate che filtri. Otterrete così un liquido limpidissimo. Se non vi sembrasse tale ripetete l'operazione del filtramento un paio di volte. Quando avrete raccolta tutta la gelatina filtrata, lasciatela freddare un pochino, uniteci il rhum o il maraschino, mescolate con un cucchiaio, e poi versate nella stampa, la quale non va unta, ma adoperata asciutta. Quando la gelatina sarà fredda mettetela con la stampa in una catinella e circondatela di ghiaccio lasciandola così per due o tre ore. Al momento di mandare in tavola estraete la stampa dal ghiaccio ed immergetela per due o tre secondi in una casseruola grande contenente acqua calda, ritirate subito la stampa, asciugatela alla svelta e poi capovolgete la gelatina su un piatto, preferibilmente di cristallo. S'immerge la stampa nell'acqua calda per liquefare un piccolissimo strato di gelatina e sformare il dolce con facilità. Regolatevi dunque che la permanenza nell'acqua calda sia per il tempo strettamente necessario, altrimenti correreste il rischio di liquefare tutto e di ricominciare l'operazione da capo. La gelatina al maraschino è bianca limpida. Se invece adoperate del rhum l'avrete bruna, e se il liquore scelto sarà invece l'alckermes otterrete una gelatina rossa di bellissimo effetto. Potrete anche fare una gelatina a due colori, dividendo a metà la gelatina appena filtrata e profumandone una parte col maraschino e una parte con alckermes. Metterete allora nella stampa prima la gelatina bianca col maraschino, farete congelare in ghiaccio e soltanto allora aggiungerete l'altra gelatina rossa, fredda ma non ghiacciata. Batterete leggermente la stampa affinchè la seconda gelatina non lasci spazi vuoti, e poi rimetterete tutto in ghiaccio fino a completo congelamento. Sono piccoli lavori supplementari che costano poca fatica e che danno un risultato più grazioso. È questione di un po' di pazienza e di un po' di diligenza. Se vorrete invece fare una gelatina al limone o all'arancio, unirete fin dal primo momento allo zucchero, gelatina e bianco d'uovo, anche il sugo di quattro limoni (quattro [immagine e didascalia: Coltellino speciale per togliere sottilmente la buccia dagli aranci e dai limoni] limoni bastano per la dose grande di un litro d'acqua). Se sarà invece all'arancio mettere il sugo di tre aranci e quello di un limone. Insieme col sugo metterete a bollire anche le cortecce dei frutti tagliate finemente con un coltellino, in modo da non lasciare nessuna traccia della parte bianca della corteccia. Come sapete la corteccia dell'arancio e del limone contengono un olio essenziale, che è quello che comunica il maggior profumo. Per toglier via sottilmente le cortecce c'è uno speciale coltellino comodissimo, col quale si lavora assai speditamente e bene.
Le gelatine al liquore rappresentano un dolce della cucina classica; e ancora adesso, in occasione di qualche grande buffet, è frequente il caso di