I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo
Una delle cose essenziali per chi si dedica all'arte della cucina è la perfetta conoscenza dei generi che si adoperano. A prima vista queste conoscenze sembrano la cosa più facile di questo mondo: ma in realtà non è così: tanto che spesso dei cuochi di mestiere sono tratti in inganno. Non bisogna dimenticare che il più delle volte tra chi compra e chi vende esiste un irriducibile antagonismo, per quanto larvato; e novanta volte su cento il negoziante ha tutto l'interesse di dare al cliente i generi che egli vuole anzichè quelli che dovrebbe dare. Occorre dunque che il compratore sia tanto agguerrito da sventare queste piccole insidie, mascherate spesso da sorrisi o accompagnati da un diluvio di parole esaltanti l'articolo. Chi compera deve rimanere tetragono e non lasciarsi abbindolare dalle chiacchiere: deve portare a casa quel ch'egli vuole e non quello che gli si vuole... propinare. Di qui, come dicevamo, la necessità di conoscere perfettamente quel che si acquista: a base principale dell'economia, prima, e della buona riuscita di ciò che si cucina, poi.
negoziante ha tutto l'interesse di dare al cliente i generi che egli vuole anzichè quelli che dovrebbe dare. Occorre dunque che il compratore sia tanto
Le proporzioni e il procedimento sono uguali a quelli descritti per la farcia di pollo. Naturalmente in luogo di carne di pollame di adopererà del pesce. La qualità generalmente usata è il merluzzo, ma si può confezionare la farcia con qualsiasi altra qualità di pesce come luccio, salmone, spigola, sogliola, ecc. ecc. Anche in questo caso la rettificazione della farcia va fatta con crema di latte o con salsa besciamella fredda.
Le proporzioni e il procedimento sono uguali a quelli descritti per la farcia di pollo. Naturalmente in luogo di carne di pollame di adopererà del
I tipi di farcia descritti più sopra sono quelli che potremmo dire classici, e che trovano il loro maggiore impiego per bordure e per chenelle. Ce n'è poi un altro tipo appartenente all'antica cucina e che va sotto il nome di Godiveau, di cui anche stimiamo opportuno tener parola.
I tipi di farcia descritti più sopra sono quelli che potremmo dire classici, e che trovano il loro maggiore impiego per bordure e per chenelle. Ce n
I maccheroni al «gratin» sono identici a quelli descritti più sopra, variando solo il modo di rifinirli. Cotti e conditi, come detto, si unge di burro una teglia, ci si accomodano i maccheroni, e si spolverizzano di pane pesto finissimo unito a parmigiano grattato. Si mettono qua e là dei pezzettini di burro e si passa la teglia in forno per una diecina di minuti, fino a che, cioè, il pane si sia gratinato.
I maccheroni al «gratin» sono identici a quelli descritti più sopra, variando solo il modo di rifinirli. Cotti e conditi, come detto, si unge di
Uno degli elementi indispensabili per la pasta con le sarde è la finocchiella selvatica, che si raccoglie sui prati, e che talvolta si trova anche da qualche erbivendolo. In mancanza di finocchiella selvatica si può supplire con la finocchiella d'orto; ma la preparazione perde un poco del suo carattere venendo ad assumere un sapore più dolciastro. Per sei persone fissiamo queste proporzioni: dagli 800 ai 900 grammi di maccheroncini, mezzo chilogrammo di sarde fresche, un paio di cipolle grandette, un ettogrammo di pinoli, un ettogrammo di passerina, cinque o sei alici salate, un bel mazzo di finocchiella, o una diecina di piccoli finocchi d'orto, e un bicchiere d olio. Si monda bene la finocchiella lasciando solamente la parte più tenera e si lessa in acqua. Se invece della finocchiella selvatica si adopera la finocchiella d'orto si netta bene e si lessa avvertendo di non gettar via i ciuffi verdi, che sono appunto quelli che debbono sostituire la finocchiella selvatica. L'acqua nella quale la finocchiella è stata cotta non va gettata via. Mettete un bicchiere d'olio in una casseruola, tritate bene le cipolle e fatele soffriggere fino a che abbiano preso un bel colore senza tuttavia lasciarle bruciacchiare. Scolate la finocchiella, tritatela e gettatela nella casseruola nella quale aggiugerete anche la metà delle sarde fresche che avrete accuratamente nettato e spinato. Mescolate energicamente con un cucchiaio di legno schiacciando con forza le sarde, in modo da ridurle in poltiglia, e dopo le sarde aggiungete anche le acciughe salate che avrete lavato, spinato e liquefatto in un tegamino con qualche goccia d'olio. Finite questa salsa — tenendo sempre la casseruola sul fuoco — con un pizzico di zafferano, sale, pepe, i pinoli e la passerina. Se vi fosse riuscita troppo densa diluitela con un pochino dell'acqua in cui hanno cotto i finocchi. Ultimata la salsa coprite la casseruola e lasciatela in caldo sull'angolo del fornello. Prendete allora l'altra metà rimasta delle sarde fresche, apritele accuratamente per togliere la spina senza staccare però le due parti del pesce. Risciacquatele, asciugatele in uno strofinaccio e scottatele in una teglia con un pochino d'olio e sale, da ambo le parti. Compiuti tutti i preparativi mettete sul fuoco una grossa pentola con acqua, alla quale aggiungerete l'acqua in cui è stata cotta la finocchiella. Quando quest'acqua bollirà mettete giù i maccheroni ed appena cotti scolateli bene e conditeli in una insalatiera con la metà della salsa preparata. Prendete poi un tegame o una teglia, ma il tegame è preferibile, e disponete nel fondo di esso uno strato di maccheroni sul quale metterete uno strato di sarde cotte e un po' di salsa, e così di seguito fino a ricoprire i maccheroni con la salsa che vi sarà rimasta. Coprite il tegame, mettetelo su un po' di brace, mettete un po' di brace anche sul coperchio e lasciate stufare la pasta per una ventina di minuti. Questi maccheroni si possono mangiare tanto caldi che freddi e sono sempre squisiti. Questa è una delle migliori ricette e siciliana puro sangue.
ciuffi verdi, che sono appunto quelli che debbono sostituire la finocchiella selvatica. L'acqua nella quale la finocchiella è stata cotta non va
Si possono usare tutte le qualità di uccelli, da quelli detti di becco sottile fino ai tordi e ai beccaccini. Agli uccelli si spuntano le zampine e si tolgono gli occhi. I veri buongustai non li sventrano, che questa operazione suonerebbe come una vera e propria profanazione. È una questione tutta personale nella quale ognuno si regolerà come meglio crede. Nel bresciano e nel bergamasco si preparano anche tante fettine sottilissime di lombo di maiale per quanti sono gli uccelli, si arrotolano queste fettine racchiudendovi dentro una foglia di salvia, e si alternano allo spiede con gli uccelli. In altre regioni invece dei pezzi di maiale si mettono delle fettine di prosciutto, piuttosto abbondanti, alternandole con gli uccelli e con delle foglioline di salvia. Guarniti lo spiede o gli spiedi si fa un buon fuoco mettendo sotto gli uccelli la leccarda nella quale si sarà messo qualche fetta di lardo ritagliata in dadini, un pezzo di burro proporzionato al numero degli uccelli da arrostire e qualche foglia di salvia. Per quattro o cinque minuti si fa girare il girarrosto senza mettere alcun condimento sugli uccelli. Trascorsi questi 4 o 5 minuti, con un pennello o con un cucchiaio si incomincia a far cadere sugli uccelli il grasso della leccarda, che intanto si sarà sciolto, e si continua così ad ungere di quando in quando. Il tempo preciso di cottura dipende dalla vivacità del fuoco e anche dalla qualità degli uccelli, i quali dovranno risultare nè troppo cotti, nè troppo crudi e di un bel color d'oro all'esterno. A questo punto salate gli uccelli facendo piovere il sale dappertutto mentre lo spiede gira. Dopo la salatura lasciateli ancora pochi altri minuti, ma senza più ungerli, e avendo l'avvertenza di diminuire il fuoco. Intanto avrete preparato la polenta, in quantità proporzionata al numero delle persone e... dell'appetito. Anche la polenta necessita cure speciali dovendo risultare nè troppo dura, nè troppo molle. Riguardo alla polenta si usano diversi procedimenti riguardanti il modo di servirla. C'è infatti chi la riversa sull'asse di cucina spianandola all'altezza di un dito, la ricopre con un panno bagnato e dopo un po' la ritaglia in fette che vengono distribuite nei piatti. Su ogni fetta si fa un piccolo incavo col cucchiaio, ci si versa un poco di sugo della leccarda per terminare con gli uccellini, le cui zampette vengono infisse nella polenta. Altri invece — e questo ci sembra il sistema migliore anche perchè più sbrigativo e più elegante — nei riguardi della presentazione in tavola, usano il seguente sistema. Quando la polenta sarà arrivata a perfetta cottura, si prende una stampa da bordura ampia e non troppo frastagliata, si imburra abbondantemente e vi si versa dentro la polenta. Si batte la stampa affinchè non restino vuoti e poi si tiene la stampa a bagno maria, in caldo, fino al momento di andare in tavola. Giunta loia di servire si sforma la bordura nel mezzo del piatto, si contorna con gli uccellini e sulla polenta e nel vuoto della bordura si versa il sugo della leccarda. Questo è il procedimento esatto e caratteristico dello «spiede». Ed infatti in Alta Italia dalle cucine più povere a quelle più ricche è lo spiede che trionfa per questa preparazione. Da alcuni si usa talvolta cuocere gli uccellini anche in padella accompagnandoli ugualmente con la polenta e relativo sugo di cottura, ma il procedimento tradizionale è quello da noi ampiamente descritto.
Si possono usare tutte le qualità di uccelli, da quelli detti di becco sottile fino ai tordi e ai beccaccini. Agli uccelli si spuntano le zampine e
Creato in Roma, or è molti anni, da un valentissimo cuoco, questo risotto ebbe una rapida e durevole rinomanza tra i buongustai, e — perchè no ? — contribuì, certo in parte, alla fortuna del suo autore, il quale, oltre che apprezzato artista nel campo gastronomico, fu anche un amabile e cordiale proprietario di trattoria. Egli non era un inventore fegatoso, di quelli che si trincerano dietro l'inviolabilità di un impenetrabile segreto; ma conscio anzi di aver contribuito al bene di questa povera umanità sofferente, non fu avaro della famosa ricetta, che comunicò per la gioia di tutti i ghiottoni.
proprietario di trattoria. Egli non era un inventore fegatoso, di quelli che si trincerano dietro l'inviolabilità di un impenetrabile segreto; ma
Per sei persone calcolate sette merluzzi di media grandezza. Uno di questi merluzzi tenetelo da parte; gli altri sei apriteli con un coltellino, dal dorso, per sfilettarli. Quando avrete ben nettati i filetti, con un coltellino tagliente portate via loro le pinne del dorso e del ventre, in modo da lasciare il filetto ben pareggiato. Risciacquate i filetti e metteteli ad asciugare in un panno. Prendete ora l'altro merluzzo, il settimo, che vi abbiamo detto di lasciare in disparte, aprite anche questo, nettatelo, risciacquatelo e poi procedendo con attenzione portate via tutta la carne in modo da lasciare sul tavolo la pelle e la spina. Mettete questa polpa ottenuta nel mortaio con un pezzo di mollica di pane grosso come un uovo che avrete bagnato e spremuto, una noce di burro, un rosso d'uovo e un pizzico di sale. Quando il tutto sarà bene amalgamato passatelo dal setaccio. Di questa farcia di pesce vi servirete per l'operazione seguente. Prendete i filetti che avrete messo ad asciugare nel panno, allineateli davanti a voi e con una lama di coltello leggermente bagnata d'acqua spianateli appena appena. Poi dividete la farcia di pesce in dodici parti mettendone una parte su ogni filetto e stratificandola con un lama di coltello. Farete la stessa operazione come se doveste imburrare delle fettine di pane. Distribuite su ogni filetto la farcia in uno strato regolare e poi incominciando dalla parte della coda arrotolate su sè stesso ogni filetto. Otterrete così come dodici grossi turaccioli. Ungete di burro piuttosto abbondantemente una teglietta o un tegame in cui i filetti possono entrare rimanendo serrati uno accanto all'altro in un solo strato, poi bagnate i filetti con mezzo ramaiolo di brodo di pesce che avrete preparato come vi diremo più innanzi, un dito di vino bianco e coprite i filetti con un foglio di carta bianca resistente, bene imburrato. Mettete la teglietta in forno di moderato calore e lasciate cuocere per una diecina di minuti fino a che i filetti siano cotti e la farcia sia rassodata. A questo punto allineate in un piatto ovale i filetti di merluzzo mettendoli due a due, ponete su ogni filetto una fettina sottile di tartufo nero, fate addensare la salsa in cui hanno cotto i filetti, aggiungendoci una grossa noce di burro impastata con mezzo cucchiaio di farina, mescolate e quando la salsa sarà densa e vellutata versatela sui filetti, che contornerete con due piccoli bouquets (messi ai due lati del piatto) di funghetti che avrete cotto con un pochino di burro, acqua, sale e prezzemolo. Per questa preparazione sono indicatissimi i funghetti coltivati oppure i funghi in scatola, quelli che sono indicati col nome di Champignons de Paris, e che si trovano in tutte le salsamenterie.
questa preparazione sono indicatissimi i funghetti coltivati oppure i funghi in scatola, quelli che sono indicati col nome di Champignons de Paris, e
Le grosses pièces, cioè i piatti forti di carne, sono quelli che, naturalmente in un pranzo, preoccupano la massaia, poichè in generale non ci si sa liberare da quel tradizionale pezzo di bue in umido, che, sia detto fra noi, è piuttosto antipatico. Assai preferibile è il fare un bel pezzo di bue braciato, il quale, oltre a fornire un piatto forte elegante, permette di ottenere un ottimo sugo di carne, col quale si possono condire maccheroni, risotti, agnolotti, ecc. Il taglio da preferirsi per questa preparazione è il «girello» o il così detto «piccione». Meglio però adoperare un pezzo di carne piuttosto voluminosa, che, se ne resta, non va certo sprecata. La carne va lardellata, come è stato detto più avanti. Mettete in una casseruola di rame una cucchiaiata di strutto, qualche fettina di grasso e magro di prosciutto, qualche cotenna di maiale, abbondanti legumi tagliuzzati — come cipolla, sedano, carota gialla, prezzemolo — e un pugno di funghi secchi, che avrete fatto rinvenire per una mezz'ora in acqua fredda. Su questi legumi ponete la carne, bagnate con un bicchiere di vino rosso, coprite la casseruola e mettete sul fuoco. Quando il vino si sarà asciugato mettetene un altro poco, condite la carne con sale e pepe a sufficienza e lasciatela ben rosolare. Quando vedrete che la carne e i legumi avranno preso una tinta piuttosto scura, coprite la carne con acqua o meglio con brodo e lasciate bollire insensibilmente sull'angolo del fornello per qualche ora, fino a che la carne sia ben cotta e la salsa sufficientemente ristretta. Quando, introducendo la punta di un coltellino o un grosso ago da cucina nella carne, constaterete che entra facilmente, il bue sarà cotto. Se cucinate col carbone, potrete mettere qualche po' di brace sul coperchio della casseruola. Quando la carne sarà cotta mettetela sul tagliere, togliete lo spago e affettatela in fette regolari, contornandola di erbaggi o legumi a vostra scelta, e innaffiandola di qualche cucchiaiata di sugo. Questo sugo va ultimato nel modo seguente. Anzitutto, inclinando la casseruola e servendosi di un cucchiaio, si porta via il grasso che nuota alla superficie: grasso che non va gettato ma conservato per condire altre preparazioni di cucina, e poi va passato a traverso un colabrodo a buchi larghi o un setaccio, forzando con un cucchiaio di legno per estrarre tutto il sugo contenuto nei legumi e ottenere una salsa liscia e senza materie estranee. Questa salsa, come vi abbiamo detto in principio, è ottima per condire paste o riso, ed essendo formata di sola essenza di carne riesce assai più igienica del solito sugo fatto col pomodoro, il quale non si confà a tutti gli stomachi. Se poi vorrete la carne con l'accompagnamento di una salsa, da servire nell'apposita salsiera, farete così: Mettete in una casseruolina un pezzo di burro come una grossa noce e quando sarà liquefatto aggiungete una cucchiaiata scarsa di farina. Fate cuocere pian piano mescolando sempre, e poi mettete nella casseruolina un ramaiolo di sugo di carne. Mescolate affinchè la farina si unisca bene al sugo e gli comunichi alcunchè di vellutato. Lasciate bollire qualche minuto e quando vedrete che la salsa è sufficientemente «legata», cioè ha assunto lieve consistenza, toglietela via dal fuoco e mischiateci un bicchierino di Madera o di buon Marsala. Intanto mettete in un tegamino un altro pezzo di burro come una noce e fatelo soffriggere fino a che avrà preso un colore biondo piuttosto scuro. Versatelo allora nella salsa, mescolate e travasate la salsa nella salsiera. Questa è la famosa «Salsa Madera» di tutti i grandi alberghi, nella quale il Madera è quasi sempre sostituito dal nostro Marsala, centomila volte più profumato e buono. Con lo stesso sistema potrete allestire un filetto di bue.
Le grosses pièces, cioè i piatti forti di carne, sono quelli che, naturalmente in un pranzo, preoccupano la massaia, poichè in generale non ci si sa
Si può dire che l'agnellino da latte, sia una istituzione essenzialmente romana, perchè forse in nessuna città si fa, come a Roma, un così grande consumo di abbacchi. La ricetta che è forse la più gustosa e caratteristica è quella dell'abbacchio alla cacciatora. Per sei abbondanti porzioni — che volendo, potranno bastare ad otto persone — prendete un chilogrammo di abbacchio, preferendo il coscetto e la rognonata. L'abbacchio va fatto in pezzi nè troppo grandi nè troppo piccoli: su per giù come quelli di un ordinario spezzatino di vitello: dai quaranta ai quarantacinque grammi. Dopo spezzato va lavato ed asciugato in uno strofinaccio pulito. Prendete un padella, metteteci i pezzi di abbacchio insieme con una cucchiaiata di strutto e fate rosolare su fuoco piuttosto gaio. Condite con sale e abbondante pepe e mescolate di quando in quando l'abbacchio, affinchè tutti i pezzi sentano ugualmente il calore. Quando questi pezzi avranno preso un bel colore biondo scuro, mettete nella padella un pezzetto d'aglio tritato — mezzo spicchio sarà sufficiente — una forte pizzicata di rosmarino sminuzzato con le mani, o lasciato intero e una foglia di salvia tritata. Fate rosolare, sempre a fuoco forte, un altro pochino, e poi spolverizzate l'abbacchio con una mezza cucchiaiata di farina. Mescolate col cucchiaio di legno e subito dopo bagnate l'abbacchio con mezzo bicchiere scarso, d'aceto allungato con acqua, in modo da fare un bicchiere in tutto. Mescolate bene, staccando col cucchiaio il fondo della padella, diminuite un po' il fuoco, coprite il recipiente e lasciate finire di cuocere, per il che occorrerà circa un quarto d'ora. Se durante la cottura il bagno si asciugasse troppo aggiungete qualche cucchiaiata d'acqua. Intanto lavate e spinate due acciughe, mettetele in un tegame con una cucchiaiata del sugo dell'abbacchio, mettete il tegamino sull'angolo del fornello e col cucchiaio di legno schiacciate le alici in modo da ridurle in poltiglia. Quando l'abbacchio sarà cotto, versate nella padella la poltiglia di alici, lasciate insaporire per un minuto e versate nel piatto di servizio l'abbacchio col suo intingolo. Il quale intingolo dovrà essere piuttosto denso, scuro e non eccessivamente abbondante, e deve avviluppare i vari pezzi di carne di un untuoso mantello lucido e saporito.
nè troppo grandi nè troppo piccoli: su per giù come quelli di un ordinario spezzatino di vitello: dai quaranta ai quarantacinque grammi. Dopo spezzato
E torniamo in argomento. Molti, per indolenza o per un senso di malintesa economia di tempo, hanno l'abitudine di acquistare i piedi di porco già cotti, dai pizzicagnoli o dai così delti «norcini». Ciò che è da condannarsi, senz'altro, sia nei riguardi culinari come in quelli igienici. Il piede di porco è squisito, a patto di essere mangiato caldo e cotto in un «fondo» piuttosto aromatizzato. Tra parentesi notiamo qui che in termine di cucina si chiama «fondo» quel liquido — per lo più brodo — con una aggiunta maggiore o minore di condimenti che serve per cuocere una data vivanda. Ma più grave ancora è l'inconveniente igienico che offrono i piedi di porco venduti già cotti. Essi rimangono infatti in una vassoia, che non è sempre un modello di pulizia, esposti all'aria, alla polvere, e specialmente ai maneggiamenti del cliente e del negoziante. Il cliente, infatti, prima di decidersi per l'acquisto, incomincia un accurato esame palpabile dei vari pezzi che sono sul banco di vendita. A un certo punto il negoziante crede opportuno di far pesare la sua autorevole parola sulla decisione del cliente, ed anch'egli prende in mano il malcapitato piede e lo palpa, lo palleggia, vantandone il peso e l'abbondanza della parte carnosa. E intanto nel calore della discussione — ci perdonino le nostre lettrici — qualche atomo di qualcosa che non è lecito definire, pioviggina in non desiderata nebbiolina sulla vassoia... Il quadro non è purtroppo carico di tinte. È fedele come una fotografia, e noi più e più volte abbiamo assistito alla inverosimile compra-vendita. Ora, pensate voi, signore gentili, che razza di acquisto farà il cliente che comprerà qualcuno degli ultimi piedi in vendita, che possono essere lì da un giorno e più. Non certo potrebbe ripetersi il detto evangelico: Beati gli ultimi; e la polizia scientifica si troverebbe assai imbarazzata nel rilevare le molteplici impronte digitali accumulatesi intorno al piede, condito gratuitamente di tutti i più inopportuni condimenti. Comperate dunque i piedi di porco crudi, raschiateli, fiammeggiateli, lavateli in acqua bollente e poi metteteli a lessare in acqua aromatizzata di sedano.
cotti, dai pizzicagnoli o dai così delti «norcini». Ciò che è da condannarsi, senz'altro, sia nei riguardi culinari come in quelli igienici. Il piede di
Mentre le quaglie cuociono e imbiondiscono, friggete nel burro o nello strutto una cinquantina di dadini di mollica di pane della stessa grandezza di quelli di lardo. Passate un ramaiuolo di acqua bollente in una terrinetta o legumiera che possano ben chiudersi col loro coperchio, gettate via l'acqua e asciugate sollecitamente la terrinetta nella quale metterete le quaglie, i dadini di lardo, i dadini di pane e qualche tocchetto di burro. Levate con un cucchiaio tutto il grasso dalla casseruola nella quale cossero le quaglie, diluite con un bicchierino di cognac il fondo della cottura staccandolo con un cucchiaio di legno, e con questa salsetta innaffiate le quaglie nella terrina. Coprite la terrina col suo coperchio e fate portare immediatamente in tavola. Stessa ricetta per i tordi.
quelli di lardo. Passate un ramaiuolo di acqua bollente in una terrinetta o legumiera che possano ben chiudersi col loro coperchio, gettate via l
Per sei persone prendete due chilogrammi di trippa ben nettata e bianchissima, che ritaglierete in pezzi quadrati di circa 4 dita di lato. Provvedetevi inoltre di un piede di bue, al quale farete subire una mezza cottura in modo da poterlo disossare, ritagliando poi la polpa in pezzi piuttosto grandi. Invece di un piede di bue potrete anche usare due piedi di vitello. Prendete ora una pentola di terra col coperchio che chiuda bene. Mettete nel fondo della pentola una grossa cipolla tagliata in fette, sulla cipolla una metà della trippa e su questa il piede di bue disossato. Affettate una seconda cipolla e disponetela sul piede di bue e finite con l'altra metà della trippa rimasta. Mettete sale a sufficienza e abbondante pepe, due chiodi di garofani e un mazzolino legato di prezzemolo, un rametto di timo e una foglia di lauro. Su tutta questa roba mettete finalmente un ettogrammo di burro in pezzi e un ettogrammo di grasso di rognone di bue ritagliato in lamine sottili. Ponete in una terrinetta due bicchierini di cognac e tanta acqua da poter essere sufficiente a ricoprire le carni della pentola. Potrete aggiungere anche qualche goccia di caramello liquidoche servirà a dare un colore ambrato al brodo della trippa; ma meglio ancora sarà se aggiungerete al cognac innacquato un ramaiolo di sugo di carne senza pomodoro o in mancanza di questo, un cucchiaio di estratto di carne in vasetti sciolto in poca acqua calda. Versate questo bagno nella pentola facendo attenzione che la trippa rimanga ben coperta. Se il liquido non fosse sufficiente aggiungete un altro pochino d'acqua. Mettete il coperchio sulla pentola e con un po' di acqua e farina fate una pasta molle con la quale stuccherete perfettamente pentola e coperchio. La trippa è pronta, e non rimarrà che passarla in forno leggero per lasciarla cuocere adagio adagio otto ore. Avendo un forno a mattoni da usarsi dopo qualche ora che si è sfornato il pane, l'operazione riesce magnificamente; ma con un po' di attenzione, anche nei fornetti casalinghi, specie quelli a gas che si possono regolare, il risultato sarà ugualmente buono. Trascorso questo tempo si estrae la pentola dal forno, si distacca il coperchio e si serve la trippa bollentissima, accompagnandola con dell'eccellente vino bianco.
riesce magnificamente; ma con un po' di attenzione, anche nei fornetti casalinghi, specie quelli a gas che si possono regolare, il risultato sarà
Questa schiuma potrete mangiarla così o accompagnandola in diversi modi. Avere, in altre parole, un tema fondamentale e le sue variazioni. Esaminiamo qualcuna di queste... variazioni, procedendo dal facile al difficile. Voi dunque potrete presentare la schiuma di tonno come si trova, senza nessuna guarnizione; oppure: Accompagnarla con una salsiera di salsa maionese. Circondarla di spicchi d'uova sode. Circondarla con delle mezze uova sode, composte. Circondarla di fondi di carciofi ripieni di insalata russa in piccolissimi pezzettini. E finalmente farne una ricca pietanza in questo modo: piazzare la piccola schiuma di tonno nel mezzo, circondarla di uova composte, come si è detto più sopra, intramezzando ogni uovo con un ciuffetto di prezzemolo; tagliare poi in fettine rotonde la coda di una aragosta e disporre questi dischi intorno intorno sulla cupola della schiuma; preparare delle acciughe lavate, spinate e divise in due e con ogni filetto di alice fare un anello da piazzare sopra ogni fetta di aragosta. E finalmente in ogni anello porre una oliva verde farcita. In questo caso, come in tutti i precedenti, farete accompagnare la schiuma da una salsiera con salsa maionese. I piatti freddi sono quelli in cui maggiormente si rivela il buon gusto di chi li decora. Rammentatevi però che le decorazioni più eleganti sono le più sobrie. Se possedete dei piatti d'argento o di metallo bianco servitevene per le vivande fredde, che acquisteranno un maggior rilievo e una maggiore eleganza.
piatti freddi sono quelli in cui maggiormente si rivela il buon gusto di chi li decora. Rammentatevi però che le decorazioni più eleganti sono le più
Si mondano, si fanno in spicchi, si liberano dal fieno centrale — se c'è —, e si lessano in acqua leggermente salata. Possono servirsi caldi e freddi. Quelli caldi potrete accompagnarli con una salsa al burro, quelli freddi con una salsa maionese o più semplicemente potrete condirli con olio e sugo di limone.
. Quelli caldi potrete accompagnarli con una salsa al burro, quelli freddi con una salsa maionese o più semplicemente potrete condirli con olio e sugo
Per i vari lavori di pasticceria ha infinite applicazioni lo zucchero cotto. Durante la sua cottura lo zucchero passa a traverso vari stati che un po' di pratica permette facilmente di riconoscere. I principali di questi stati, quelli che hanno per noi un maggiore impiego sono: il piccolo filo, il filo forte, la bolla e la caramella.
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Grattare o raschiare con una lama di coltello 100 grammi di cioccolato e metterne da parte due o tre cucchiaiate. Versare il cioccolato in polvere in un polsonetto, bagnarlo con un dito d'acqua e lasciarlo ammorbidire vicino al fuoco. Aggiungere allora 300 grammi di zucchero naturale spezzettato nel mortaio e un bicchiere d'acqua. Attendere ancora un poco affinchè lo zucchero possa fondere, e poi mettere il polsonetto sul fuoco e condurre la cottura dello zucchero e del cioccolato fino al grado del «piccolo filo». Questo grado, che è il primo di quelli attraverso i quali passa lo zucchero durante la sua cottura, viene raggiunto assai presto e si riconosce con tutta facilità prendendo tra il pollice e l'indice un tantino di zucchero in cottura. Separando allora pian piano le due dita che tengono lo zucchero, si dovranno formare dei piccoli fili che si spezzeranno con facilità. Avendo portato dunque zucchero e cioccolato a questo grado, al quale — ripetiamo — si arriva dopo breve ebollizione, tirate indietro il polsonetto e versate in una terrinetta le due o tre cucchiaiate di cioccolato che avete tenuto in disparte. Prendete ora un cucchiaio di legno nella mano destra e il polsonetto nella sinistra, e fate cadere poche goccie di cioccolato cotto sulla cioccolata della terrinetta, mescolando con la spatolina. Continuate così a versare adagio adagio lo zucchero nella terrina, e sempre mescolando, come se si trattasse di montare una salsa maionese. Se vi occorrerà molta glace travasate nella terrinetta tutto lo zucchero cotto, altrimenti arrestate l'operazione quando vi parrà di avere sufficiente ghiaccia per il lavoro che dovrete fare. Se si tratta di rivestire dei sospiri o degli éclairs li tufferete uno alla volta in questa copertura tiepida. Se invece vorrete rivestire di ghiaccia al cioccolato una torta dovrete procedere in un altro modo. E cioè dovrete prendere un pochino di marmellata di albicocca, farla ricuocere un momento sul fuoco con un po' di zucchero e poi spalmarla con un pennello su tutta la superficie della torta. Questa operazione preliminare, utilissima se non strettamente necessaria, serve a conservare alla ghiaccia una maggiore brillantezza. Preparata così la torta, mettetela su una griglia da pasticceria e versateci sopra la ghiaccia tiepida. Operando lestamente e servendovi di una lama di coltello, cercate di uguagliare rapidamente lo strato, riportando col coltello la ghiaccia in quei punti che eventualmente rimanessero scoperti. Lasciate sgocciolare il superfluo, fate scivolare la torta su un piatto o su un cartone e aspettate che la ghiaccia si solidifichi. Se nel polsonetto vi rimarrà dello zucchero e del cioccolato cotto, non andranno sprecati. Voi travaserete il tutto in una tazza grande o in una altra terrinetta pulita, e sulla ghiaccia avanzata verserete un pochino d'acqua, la quale conserverà il composto e gli impedirà di fare la crosta. Quando si avrà bisogno di rivestire ancora della pasticceria, basterà di scolare l'acqua, e di aggiungere alla ghiaccia conservata dell'altro zucchero e dell'altro cioccolato, cotti nelle proporzioni date più sopra.
cottura dello zucchero e del cioccolato fino al grado del «piccolo filo». Questo grado, che è il primo di quelli attraverso i quali passa lo zucchero
Passate al setaccio quattro o cinque cucchiaiate di fragole piccoline e profumate ed unite alla purè un'eguale quantità di panna montata («Chantilly») condita con zucchero vainigliato. Da un pane rettangolare di quelli detti a cassetta, ritagliate tante fettine spesse un mezzo centimetro e della grandezza di un «sandwich» ordinario, cioè tre centimetri per sette. Ottenute queste fettine, contatele e lasciatene una metà da parte, mentre sulle altre stenderete il composto di fragola e crema. Ricoprite le fette spalmate con le altre tenute in disparte ed avrete ottenuto tanti cuscinetti ripieni. Sbattete uno o due uova con una cucchiaiata di rhum, intingete un cuscinetto alla volta nell'uovo, passatelo nel pane finissimo, pareggiando la panatura con la lama di un coltello, e friggete questi «sandwichs» dolci nell'olio o nello strutto, pochi alla volta ed a padella caldissima. Appena diventati di un bel color d'oro estraeteli dalla frittura, lasciateli sgocciolare, accomodateli in un piatto con salvietta, cospargeteli abbondantemente di zucchero vainigliato e mangiateli subito.
») condita con zucchero vainigliato. Da un pane rettangolare di quelli detti a cassetta, ritagliate tante fettine spesse un mezzo centimetro e della
Prendete una dozzina di aranci, preferendo quelli a buccia sottile che sono i più sugosi, tagliateli in due e spremetene il sugo in una terrinetta. Per ogni bicchiere di sugo calcolerete sei cucchiaiate di zucchero. Passate il sugo da un colabrodo o a traverso un velo, e raccoglietelo in una casseruola, o, meglio, in un polsonetto. Badate che il colabrodo e la casseruola non abbiano la più piccola traccia di grasso che comunicherebbe alla preparazione un detestabile sapore. Aggiungete nel sugo lo zucchero preparato e mettete il recipiente sul fuoco mescolando con un cucchiaio di legno per facilitare la fusione dello zucchero. È buona norma tenere un cucchiaio di legno esclusivamente per i composti dolci, per evitare l'inconveniente al quale abbiamo accennato più sopra: che cioè le creme o le marmellate acquistino sapore di grasso. Togliete accuratamente la schiuma giallastra che si formerà non appena la gelatina avrà raggiunto l'ebollizione: schiuma che nuocerebbe alla limpidità della gelatina stessa. Fate cuocere a fuoco brillante. Il sugo d'arancio contiene una buona parte acquosa che deve evaporare per giungere alla necessaria condensazione. Vi raccomandiamo di sorvegliare la casseruola e di tenervi pronte ad alzarla od a toglierla momentaneamente dal fuoco perchè il sugo d'arancio, bollendo, tenta spesso di traboccare dal recipiente e andare a passeggio per il camino. Pian piano l'ebollizione si farà più calma e la cottura si avvicinerà al punto preciso. Questo punto si riconosce facilmente quando la gelatina non scorrerà più come se fosse acqua, ma avrà acquistato un po' di consistenza e lascerà sul cucchiaio un leggero velo. Potrete anche lasciarne cadere qualche goccia su un piatto e osservare se queste goccie freddandosi si rapprendono. Cotta a punto, togliete la casseruola dal fuoco e versate con attenzione la gelatina nei vasetti di vetro. Lasciatela freddare così, e il giorno dopo mettete sulla bocca di ogni vasetto un disco di carta bagnata d'alcool e poi chiudete i vasetti col loro coperchio o con carta pergamenata e spago.
Prendete una dozzina di aranci, preferendo quelli a buccia sottile che sono i più sugosi, tagliateli in due e spremetene il sugo in una terrinetta
Prendete dei cetriolini, metteteli sopra uno strofinaccio ruvido di cucina cospargeteli di sale, ripiegate lo strofinaccio e stropicciate in esso i cetriolini, che mediante questo sfregamento perderanno un po' della ruvidità della loro buccia. Distendeteli allora su uno strofinaccio pulito e lasciateli asciugare per qualche ora all'aria aperta. Mettete a bollire dell'aceto, distribuite i cetriolini in una terrina e quando l'aceto avrà levato il bollore, versatelo sopra i cetriolini. Non c'è bisogno di dire che l'aceto deve essere in proporzioni tali da poter ricoprire completamente i cetriolini. Lasciate stare così fino al giorno appresso. Troverete che i cetriolini sono divenuti di un colore giallo verdastro piuttosto antipatico. Non ve ne preoccupate; scolate l'aceto e mettetelo a bollire di nuovo. Appena l'aceto starà per bollire gettate in esso i cetriolini, i quali, come potrete constatare, riprenderanno subito il loro colore verde. Pronunciatasi l'ebollizione tirate indietro il recipiente, tirate su i cetriolini e accomodateli secondo la quantità che ne avrete fatta, in uno o più vasi di terraglia. Aggiungete in ogni vaso qualche granello di pepe, qualche spicchio d'aglio, se credete, e qualche fogliolina di dragoncello, ricopriteli con l'aceto e poi quando i vasi saranno ben freddi, turateli con della carta pergamena e portateli in dispensa. Aspettate almeno una settimana prima di incominciare a consumarli. È vero che i cetriolini così trattati non hanno il colore verde smeraldo di quelli che si vendono nelle salsamenterie. Ma in fatto di conserve all'aceto è meglio andar cauti e rinunziare un po' ai colori troppo vivaci, i quali si ottengono facendo bollire e freddare i cetriolini in recipienti di rame non stagnati. Sicchè quelle incrostazioni di verde vivace rappresentano in ultima analisi una piccola dose di veleno che si immette nell'organismo, il quale, poveretto, ne fa tanto volentieri a meno.
verde smeraldo di quelli che si vendono nelle salsamenterie. Ma in fatto di conserve all'aceto è meglio andar cauti e rinunziare un po' ai colori troppo
I chimici hanno portato anche nel campo della conservazione del burro le loro ricerche e, naturalmente, molti sono i metodi proposti. Ma noi ci limiteremo ad insegnarvi quelli che per la loro praticità sono i più adatti a venire eseguiti in una famiglia. Una delle operazioni fondamentali per la conservazione del burro è quella d'impastarlo su una tavola di marmo, con le mani bagnate, allo scopo di eliminare tutto il siero che ancora il burro potesse contenere. Il burro va impastato energicamente come se si trattasse di fare una pasta da tagliatelle. Il marmo deve essere ben pulito, e lavato precedentemente con acqua bollente. Per facilitare l'eliminazione della parte lattifera, sarà bene lavare più volte il burro, mentre lo si impasta, con acqua fresca. Compiuta questa operazione preliminare si possono seguire due sistemi principali. 1o — Si può mettere il burro a strati in un vaso di terraglia pigiando bene i vari strati in modo da non lasciare vuoti, e quando il vaso sarà ben riempito capovolgerlo in una terrinetta contenente acqua fresca. II vaso col burro compie allora lo stesso ufficio della campana del palombaro, elimina cioè l'aria, e permette al burro di conservarsi piuttosto lungamente. L'acqua della terrinetta deve essere rinnovata ogni giorno. 2° — Dopo impastato il burro, lo si cosparge di sale fino, in ragione di un cinque o sei per cento del suo peso — cioè cinquanta o sessanta grammi per un chilogrammo — lo si mette in vaso come è detto più innanzi riempiendolo fino all'orlo, e poi si ricopre con una mussolina bianca, sulla quale si mette ancora uno strato di sale, chiudendo poi il vaso con un foglio di carta pergamena. Quando poi si incomincia ad adoperare il burro, si toglie dal vaso in strati orizzontali, riempiendo il vuoto con acqua fresca, che si rinnoverà tutti i giorni, oppure capovolgendo il vaso nella terrinetta, come più sopra. I barattoli vanno tenuti in una stanza fresca ed asciutta. Questi due sistemi danno ottimi risultati, come buon risultato dà la ghiacciaia, che conserva il burro a temperatura bassissima. Il burro si conserva assai bene con la fusione, o, come si dice, chiarificandolo. Giova però notare che con questo sistema esso perde una certa quantità del suo sapore, e quindi, mentre è ottimo per condimenti, per frittura e in tutte le preparazioni calde, non è ugualmente saporito consumandolo freddo. La chiarificazione si fa così. Si mette il burro in una casseruola, su fuoco debolissimo, e si fa fondere, senza che debba soffriggere. Si tiene la casseruola sul fuoco per una ventina di minuti, fino a che la caseina e il siero si separino e si depongano, lasciando apparire il burro limpidissimo. Si schiuma allora, si passa da un velo o da un setaccino finissimo, e si travasa in un barattolo terraglia. Quando il burro si è rappreso, si ricopre di uno strato di sale, e si chiude con un coperchio o con un foglio di carta pergamenata. Anziché fondere il burro su fuoco nudo, si può anche operare a bagnomaria. Si può conservare così il burro per un lungo periodo di tempo. Per togliere il rancido al burro, il metodo seguente è raccomandabilissimo. Si mette il burro in una terrinetta con acqua, nella quale si sia messo un po' di bicarbonato di soda — 15 grammi per un chilo di burro — e lo si impasta in quest'acqua, lasciandovelo poi per un paio d'ore. Trascorso questo tempo si estrae, si risciacqua in acqua fresca, si stende un po' sottilmente con le mani, si sala con 50 grammi di sale per ogni chilo, si impasta nuovamente e si conserva in barattoli di terraglia. Chiuderemo queste note insegnandovi un mezzo spicciativo per riconoscere se il burro è puro o è mescolato con altri grassi. Si mette un pezzetto di burro come una nocciola in un tubetto di vetro — una di quelle piccole provette adoperate nei laboratori chimici — o in un altro piccolo recipiente, vi si aggiunge un ugual volume di ammoniaca, e si espone alla fiamma di una lampada a spirito per portare burro e ammoniaca all'ebollizione. Dopo pochi secondi di ebollizione, si aggiunge un volume di ammoniaca leggermente maggiore del primo, si chiude il recipiente e si agita. Se il burro contiene margarina, oppure se è irrancidito, si produce una schiuma persistente, mentre nessuna schiuma si produrrà se il burro è puro e fresco.
limiteremo ad insegnarvi quelli che per la loro praticità sono i più adatti a venire eseguiti in una famiglia. Una delle operazioni fondamentali per la
Qualunque sia il processo di conservazione, bisogna tener presente: 1° le uova di galline sane e ben nutrite, si manterranno meglio di quelle di una gallina malaticcia e tenuta in cattive condizioni igieniche; 2° la conservazione riuscirà tanto meglio quanto più fresche saranno state le uova; 3° le uova fecondate si mantengono meno bene delle non fecondate. Il principio su cui si basa la conservazione delle uova è quello di impedire quanto più si può l'evaporazione interna, evitare l'accesso dell'aria con relativa introduzione di microrganismi, evitare l'umidità, e, infine, tenerle in luogo asciutto e fresco, poichè la temperatura elevata favorisce l'evaporazione e la decomposizione degli albuminoidi. Il problema della conservazione delle uova è uno di quelli che maggiormente ha preoccupato gl'industriali, cosicchè i metodi sono innumerevoli. Essi si possono raggruppare in quattro categorie: 1° conservazione per via secca; 2° conservazione per via umida; 3° conservazione per riscaldamento e raffreddamento; 4° conservazione pneumatica. Esamineremo brevemente i principali di questi metodi, fermandoci specialmente su quelli che possono avere una reale applicazione pratica nelle famiglie.
uova è uno di quelli che maggiormente ha preoccupato gl'industriali, cosicchè i metodi sono innumerevoli. Essi si possono raggruppare in quattro
I fichi migliori per seccare sono quelli calabresi. Ma si possono fare ugualmente bene con altre qualità. I fichi debbono essere raccolti a buona maturità — in Calabria si dice: fichi con la cammisa sciancata, ossia con la buccia lacerata in più punti. Non si sbucciano, e si aprono in due con le mani, verticalmente, dal sotto in su, in modo da non separarli, ma lasciandoli uniti per il picciolo. Fatto questo si mettono al sole su graticci di canna, sì che la parte interna del fico sia quella che rimane esposta al sole. Dopo un giorno si voltano e si rimettono al sole, e si ripete l'operazione per tanti giorni fino a che il fico avrà assunto quella speciale consistenza che caratterizza questa preparazione. In agosto, e nei paesi molto caldi, occorreranno circa sei giorni. Alla sera è bene ritirare i graticci in casa, facendo attenzione che una pioggia improvvisa, non infrequente nell'estate, li abbia a bagnare. Quando saranno pronti si richiudono, si premono con le dita per riunirli bene e s'infilzano su spiedini di canna, oppure si lasciano sciolti. Dopo ciò si può procedere alla disinfezione, cosa che a rigor di termini non è necessarissima, ma che è bene fare. Per procedere a questa operazione si mette a bollire dell'acqua in un caldaio. Si raccolgono tutti i fichi infilzati legando tra loro le estremità delle canne, e si tuffano per un attimo nell'acqua bollente. Si lasciano scolare un poco e si rimettono al sole per un'altra mezza giornata. Se i fichi non sono stati infilzati, si mettono in un grande scolamaccheroni e, tenendo questo per i manici, si tuffano nell'acqua bollente mettendoli poi ad asciugare come si è detto più sopra. I fichi sciolti poi si accomodano nelle cestine. Se invece si volessero passare i fichi nel forno, appena chiusi si dispongono su delle grandi lastre di latta e si passano a forno leggero per un po' di tempo. Dopo avere disinfettato i fichi nell'acqua bollente è bene, riesponendoli al sole, di coprirli con dei veli, affinchè le mosche non abbiano più ad insudiciarli.
I fichi migliori per seccare sono quelli calabresi. Ma si possono fare ugualmente bene con altre qualità. I fichi debbono essere raccolti a buona
Per le famiglie sono consigliabili gli utensili di alluminio e più ancora quelli in porcellana resistente al fuoco i quali, oltre ai pregi tecnici e costruttivi, hanno anche una speciale eleganza che consente di presentarli in tavola. Sono poi indispensabili una scolamaccheroni, un ramaiolo, una cucchiaia bucata e un forchettone.
Per le famiglie sono consigliabili gli utensili di alluminio e più ancora quelli in porcellana resistente al fuoco i quali, oltre ai pregi tecnici e
A completare la batteria di cucina occorreranno una pesciera e pochi pezzi di rame, ad esempio una casseruola della capacità di un paio di litri, e una un po' più piccola, un piccolo caldaio, un paio di teglie e, se ci si vuole dedicare anche alla pasticceria, un polsonetto e una macchinetta da gelato. Occorreranno poi due o tre padelle di varia grandezza per insaporire erbe, patate, e per friggere, nonchè una padellina per le frittate, che preferibilmente dovrà essere adoperata soltanto per quest'uso. Ci si provvederà inoltre di una scatola di legno pel sale, di una grattugia, di un setaccino di velato e di uno di crine, di un colabrodo, di un passino per le fritture, e di un piccolo vaglio di latta per il pesce, di una gratella per l'arrosto, di un frusta in ferro per le salse e per montare le uova per la pasticceria, di un paio di stampe da budino. Ci vorranno poi un tagliere, qualche coltello assortito — dal coltello pesante per il battuto al coltellino a punta acuminata — un rullo di legno per stendere la pasta, qualche cucchiaio di legno, un tagliapaste a rotella, una macchinetta tritatutto, una macchinetta per il caffè e un macinino anche da caffè, un piccolo macinino per il pepe, un mortaio di pietra col pestello di legno, un batticarne di ferro e qualche stampina da pasticcini, specie di quelli detti da tartelette, che hanno in cucina una infinità di usi. Volendo completare sempre meglio l'arredo, si potrà avere in cucina anche una bilancia a piatti, una piccola ghiacciaia, qualche vasetto per le droghe, una tasca di tela, con una bocchetta spizzata e una liscia, per la pasticceria, una stampa da bordura, e qualche coprivivande di rete metallica. I mobili siano possibilmente verniciati a smalto bianco, potendosi così lavare più facilmente e bene, e i vari oggetti siano tenuti appesi in ordine e ben netti. Ricordate che non è tanto la quantità degli utensili, quanto l'ordine e la pulizia che debbono caratterizzare la cucina moderna, sia essa anche piccola come quella della bambola.
il pepe, un mortaio di pietra col pestello di legno, un batticarne di ferro e qualche stampina da pasticcini, specie di quelli detti da tartelette, che
La questione dei funghi commestibili e dei funghi velenosi è quella che più deve preoccupare chi è a capo di una famiglia, poichè l'esperienza insegna quanto sia difficile poter giudicare se un fungo è o non è velenoso. Gli avvelenamenti con funghi non sono purtroppo infrequenti e la storia ci dice che anche personaggi illustri trovarono la fine cibandosi di funghi. Nelle grandi città si procede ad una verifica che può dare sufficienti elementi di garanzia; ma il pericolo maggiore è nei piccoli centri e nelle campagne dove i funghi vengono venduti senza controllo, quando non sono addirittura raccolti per uso proprio. In genere vengono cucinate una cinquantina di specie di funghi, tra le quali ve ne sono circa venti velenose, difficilissime a conoscersi dalle commestibili, presentando lo stesso aspetto e gli stessi caratteri. Si dice, ad esempio, della infallibile sicurezza dell'ovolo vero (amanita caesarea) e del cocco od ovolo bianco, ma anche in questa famiglia c'è l'ovolo falso o malefico e il cocco bastardo, ambedue velenosi. Nel gruppo degli agarici sono anche funghi commestibili e velenosi, come, ad esempio, il prataiolo, l'agarico grigiastro, ecc., facilmente confondibili con la rossola velenosa, il fungo peperone, l'agarico dissenterico, ecc. Nè maggiore sicurezza offre il fungo porcino, potendo essere facilmente confuso col porcino malefico. È risaputo che le prove empiriche dell'aglio, della cipolla o quelle del cucchiaio d'argento o della lama di coltello sono assolutamente da escludersi. Meglio attenersi in genere ai seguenti consigli, per i quali sono da schivarsi: Quei funghi che quantunque abbiano, come il prataiolo, il cappello bianco ed emisferico hanno la base del gambo bulbosa. — Quelli che con gambo grande e gibboso o squamoso, sostengono un cappello cosparso di verruche, oppure hanno la pelle coperta di pustole. — Quelli che infranti o screpolati fra le dita emanano un odore narcotico disgustoso. — Quelli che esalano un odore d'aglio, o che hanno sapore bruciante. — Tutti quei funghi che hanno il cappello tinto di rosso, azzurro o verde. — Quelli che spezzati o tagliati con un coltello assumono, al contatto dell'aria colorazioni diverse. — Quelli che tagliati si trovano pieni di succo lattiginoso. — Quelli che hanno la carne cordacea o sugherosa. — Quelli che non sono in nessun modo toccati dagli insetti, e, finalmente, quelli che si ritrovano su tronchi di albero dotati di proprietà deleterie. Ad ogni modo, e per concludere, bisogna usare solo di quei funghi che in ciascun paese l'esperienza secolare ha dimostrato essere veramente commestibili. In caso di sintomi di avvelenamento per funghi ricorrere immediatamente in attesa del medico a un vomitivo (acqua calda saponata) e subito dopo somministrare un energico purgante di olio di ricino. Evitare qualsiasi bevanda acida, o acque purgative in cui entri il sal di cucina.
prataiolo, il cappello bianco ed emisferico hanno la base del gambo bulbosa. — Quelli che con gambo grande e gibboso o squamoso, sostengono un