I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e
Una delle composizioni più usate nell'antica cucina, che l'adoperava per la montatura dei grandi pezzi da buffet. Sfogliando infatti qualche vecchio trattato di cucina potrete constatare come se ne facesse uso ed abuso per mascherare carne fredda o pesce freddo, e più specialmente per modellarne degli zoccoli sui quali si adagiava la carne o il pesce destinati ad essere messi in bella vista in un buffet di ballo o di ricevimento. La cucina moderna l'adopera con minore frequenza riservandone l'uso a qualche piatto freddo e in special modo a piccoli «canapés» da servire per antipasto. Prendete un pugno di foglie di spinaci, un bel ciuffo di prezzemolo e un ciuffettino di cerfoglio. Immergete queste erbe in una pentola con acqua in ebollizione, lasciatele bollire per due minuti, scolatele, passatele in acqua fresca e pestatele nel mortaio con un pezzettino di aglio, un ettogrammo di burro, un torlo d'uovo sodo e un torlo fresco, una cucchiaiata di capperi, due o tre cetriolini sotto aceto e un paio di alici lavate e spinate. Condite con una forte pizzicata di pepe e quando il composto sarà ridotto in pasta omogenea passatelo dal setaccio, raccoglietelo in una terrinetta e poi, procedendo come per una salsa maionese, aggiungete goccia a goccia e sempre mescolando con un cucchiaio di legno, un dito d'olio, in modo che vi riesca una salsa molto densa e di una bella tinta color pistacchio. Aggiungete infine un cucchiaino di aceto — meglio se sarà aceto al dragoncello — e, se credete, anche una punta di cucchiaino di senape inglese sciolta in poche goccie d'acqua. Sentite come sta di sale, e nel caso le alici non fossero state sufficienti ad assicurare il sapore al composto, aggiungete una pizzicata di sale.
degli zoccoli sui quali si adagiava la carne o il pesce destinati ad essere messi in bella vista in un buffet di ballo o di ricevimento. La cucina
Tutti sanno che «menu» — parola esotica, ma entrata, come tante nella lingua dell'uso: nè ce n'è un'altra che possa efficacemente sostituirla — significa cosi l'insieme dei cibi e dei vini che compongono un pranzo, come, in senso traslato, quel foglietto di carta, di cartoncino, di pergamena ecc., che si mette dinanzi a ciascun convitato, e dove è trascritto l'ordine e la specie delle vivande. Usanza codesta, relativamente recente, e che data dalla seconda metà del secolo scorso, quando all'antico servizio detto «alla francese» venne più opportunamente sostituito il servizio «alla russa» più rapido e più razionale, che segnò l'abolizione delle interminabili serie di piatti, delle barocche montature su zoccoli di grasso o di cera, e delle pietanze mantenute calde sulla tavola da appositi fornelletti (rechauds). La composizione di un «menu» è sottoposta a delle regole, che è opportuno ricordare brevemente. Anzitutto il «menu» deve essere adattato alla circostanza per cui si dà il pranzo. È chiaro che il «menu» d'un pranzo di cerimonia dovrà essere differente da quello per una comunione, allo stesso modo che il «menu» per un pranzo dove predominano le signore dovrà essere assai più ricercato di quello per una riunione di uomini soli, e così di seguito. Uno degli aforismi più giusti di Brillat-Savarin, dice: «L'ordine delle vivande in un pranzo è dalle più sostanziose alle più leggere». Il proverbio «l'appetito viene mangiando» è falso, e man mano che lo stomaco si riempie, si richiedono dei cibi di più in più leggeri e stuzzicanti. Gli antipasti e la minestra — nei grandi pranzi si usano preparare due minestre, una cosidetta «chiara» e una «legata» — rappresentano gli aperitivi. Alcuni vorrebbero abolire anche gli antipasti, eccezione fatta per il caviale e le ostriche, poichè servendosi in genere, secondo la moda russa, dei pesci affumicati, delle insalate piccanti, ecc., il palato non si trova più in grado di apprezzare degnamente il sapore della minestra.
rapido e più razionale, che segnò l'abolizione delle interminabili serie di piatti, delle barocche montature su zoccoli di grasso o di cera, e delle