Levato che avrete il prosciutto dalla salamoja come quello di sopra, e tenutolo per alcune ore nell'acqua corrente, lo porrete a cuocere in una marmitta con acqua senza sale. Vi si ponga un mazzetto d'erbe odorose con carota, sellero, prezzemolo, una cipolla steccata con garofani, della cannella, un poco di pepe in grani e farete bollire il tutto per tre ore; se avete delle disgrassature buone, ponetevi ancor queste, che verrà più tenero. Quando sarà cotto lo metterete nel piatto, e gli farete una guarnizione di cavoli-fiori scottati prima nell'acqua bollente, e li finirete di cuocere in un buon brodo: osservate che non siano troppo cotti, e che restino intieri. Sopra i suddetti cavoli versatevi un mezzo ramajuolo di sugo di manzo, e così lo servirete in tavola caldo.
Levato che avrete il prosciutto dalla salamoja come quello di sopra, e tenutolo per alcune ore nell'acqua corrente, lo porrete a cuocere in una
Prendasi il prosciutto o spalla di majale, e si tenga nella salamoja per otto giorni, la quale formerete con una libbra di sale nostrale, e circa due soldi di salnitro, un cucchiajo di zuccaro grezzo, alcuni granelli di pepe, garofani, spicchi d'aglio, scalogne, foglie d'alloro, ed erbe odorose secche; quando lo tirerete fuori dalla salamoja, mettetelo nell'acqua fresca per 2 ore, indi ad arrostirlo, ed arrivato che sarà a mezza cottura, levategli la cotenna, bagnatelo con del latte mescolato con fior di farina. Lasciatelo cuocere ad un fuoco moderato, bagnandolo spesso col suddetto latte, acciò aderisca al prosciutto più che sia possibile, osservando di non gli dare altro unto. Quando avrà preso un color d'oro lo leverete dallo spiedo, e gli farete la salsa col prendere dodici piante d'indivia che pulirete dalle foglie verdi, e tagliate loro il capo, li laverete. Ponete poi una casseruola d'acqua salata sopra un fornello, e quando bolle gettatevi entro l'indivia: cotta che sarà, mettetela nell'acqua fresca per un quarto d'ora acciò perda l'amaro; indi tiratela fuori, spremetela, e trinciatela fina. Dipoi la porrete in una casseruola e vi metterete un pezzo di burro con del prosciutto, e lascerete soffriggere il tutto. Si condisca con pepe e noce moscata continuandogli l bollitura per dieci minuti, cioè a dire fintanto che non è prosciugato tutto l'umido. Levata dal fuoco, vi si aggiungano due tuorli d'uovo, e con un mestolo si unisca il tutto assieme, versandola quindi nel piatto ove si porrà il suddetto prosciutto, e così si serva in tavola caldo.
Prendasi il prosciutto o spalla di majale, e si tenga nella salamoja per otto giorni, la quale formerete con una libbra di sale nostrale, e circa due
535. Prosciutto di Magonza. Approntate un tino ben pulito e forato presso il fondo come per colar lisciva; mettete in sul fondo alcuni spicchi d'aglio ed un po' di cipolla, timo, lauro e pepe; cospargete ogni cosa di sale in abbondanza; poi mettete alternativamente un suolo di carne porcina ed un suolo di sale. Quando avrete impiegata quasi la metà della carne di majale (1) distendetevi sopra i due prosciutti, copriteli intieramente di sale, spargetevi sopra alcune foglie di lauro e di timo; poi continuate a riempire il tino col resto del majale, avvertendo d'alternar sempre un suolo di carne ed uno di sale, e di comprimere il tutto. Colmo che sia il tino, o non essendovi più carne da mettervi dentro, coprite ogni cosa con lauro, timo, cipolle trinciate, e versatevi sopra tre o quattro bicchieri d'acqua a fine di provocare lo scioglimento del sale. Di mano in mano che la salamoja colerà pel foro del tino, dovrete riversarvela sopra, a quel modo appunto che si fa quando si cola la lisciva. In capo a 10 o 12 giorni al più potrete cavar fuori carne e lardo. Appendete l'una e l'altro al soffitto; nè, così facendo, avrete a temere di rancido, come succede nei salatoj ordinarli. I due prosciutti li lascerete stare per 15 o 16 giorni sotto alla cappa del camino, affinchè si prosciughino perfettamente; poi li collocherete in cenere di sermenti stacciata, in modo che ne siano intieramente coperti, e da ultimo li porrete fra due asse, sovrapponendo a queste grossi pesi.
, cipolle trinciate, e versatevi sopra tre o quattro bicchieri d'acqua a fine di provocare lo scioglimento del sale. Di mano in mano che la salamoja colerà
10. Anitre salate. Due giorni dopo essere state uccise, le anitre si tagliano dalla parte inferiore, si levano loro le cosce, le ali e le carni che coprono il di dietro e lo stomaco, si mettono in un salatojo, e vi si lasciano per quindici giorni ricoperte di sale. Passato questo tempo, si tagliano in quattro parti, si infilzano con garofani, e si condiscono con aromi e qualche foglia di lauro, ed un poco di nitro per dare alla carne un bel colore vermiglio. Si mettono in vasi e si ricoprono con salamoja, sopra la quale si tiene dell'olio ad un pollice di altezza.
colore vermiglio. Si mettono in vasi e si ricoprono con salamoja, sopra la quale si tiene dell'olio ad un pollice di altezza.
24. Saur-kraut. È così chiamato in tedesco il cavolo preparato colla salamoja, e significa cavolo acido. Si fa uso ordinariamente del cavolo cappuccio, le cui foglie sieno serrate e bianche; si levano a questi cavoli le foglie verdi col gambo, si tagliano in strisce sottili, e queste si distendono sopra una tela affinchè asciughino. Per preparare il saur-kraut si adopera un barile. Se ha già servito pel vino o per l'acquavite riesce migliore; ma se ha servito per altro uso bisogna lavarlo diligentemente con acqua di calce bollente, onde togliergli l'odore che acquista restando vuoto. Lo stesso si pratica se il barile è nuovo.
24. Saur-kraut. È così chiamato in tedesco il cavolo preparato colla salamoja, e significa cavolo acido. Si fa uso ordinariamente del cavolo
Ecco il processo. Si pone del sale bianco pesto sottilmente nel fondo del barile o del vaso di terra, e sopra di questo si pone uno strato di cavoli tagliati come si è detto, si comprimono con un coperchio di quercia di tre pollici di spessezza, fabbricato in modo da servire come di strettojo, e ciò finchè i cavoli si sono ridotti a metà di volume. Al di sopra si forma un altro strato di sale ed in seguito un altro di cavoli, da comprimersi come il primo, e così si continua finchè il vaso sia pieno sino a qualche centimetro dall'orlo, avendo cura di aggiungere ad ogni strato di cavoli del pepe in grani e dei semi di cardi o di ginepro. L'ultimo strato dev'essere di sale, sopra cui si collocano alcune foglie fresche intere, poi il coperchio, o il fondo del barile, e su questo dei pesi, o alcune grosse pietre che impediscano al cavolo di sollevarsi durante la fermentazione. Tosto che questa incomincia, formasi un'acqua verdastra e fetida che sornuota, e che bisogna gettar via ogni quattro o cinque giorni nei primi momenti, per sostituirla con una quantità di nuova salamoja, in maniera che i cappucci ne sieno sempre coperti di qualche centimetro.
sostituirla con una quantità di nuova salamoja, in maniera che i cappucci ne sieno sempre coperti di qualche centimetro.
Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, ginepro, rosa, pino silvestre, pescia, (Abies), per il pruno, il bianco spino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione — come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri. Non abbiamo note sul modo con cui gli antichi dessero la caccia al tartufo. Fu nel medio Evo e in Italia, che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina del secolo XVI nel suo libro De honesta Voluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato con stile poetico porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il Conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II Re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia 10 che costarono 100 talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano trüffel-hunde, e canes tuberario-venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure di fine odorato può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi e se non troverete il tubero troverete certamente... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria survolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca ed altre sue parenti prossime che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le consumatrici. Fra questi segnali il più conosciuto, è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee, e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da Novembre a Marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. In Piemonte i più precoci maturano alla fine di Giugno e li chiamano fioroni, e viene quasi sempre a' piedi dei salici e dei pioppi in terreno argilloso, ma la raccolta incomincia in Agosto. In Francia ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitou. Il tartufo nero o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettata dal commercio. V'à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gutœ. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella. Cecilio Apicio il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De Re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre
Che che ne sia il fungo dà un piatto molto saporito e ghiotto. Si frigge, si trifola, si unisce a mille intingoli, copre delle sue ali il risotto, regna sovrano nella polenta. È indigesto mangiandone in quantità, ma à virtù stomatiche e corroboranti, dovuto agli aromi dei quali è ricco. Si conserva pure per l'inverno in speciale salamoja o concia, e secco. Gli antichi credevano fosse il prodotto del tuono e del fulmine, per cui lo addimandavano calabates. Anche loro furono sempre ghiotti dei funghi — e chi à potuto far capolino nel tablinum dei Romani, vi avrebbe veduto i loro senatori mondare, essi medesimi, i funghi con un coltellino a manico d'ambra, perchè, i ghiottoni, ne volevano sentire anticipatamente col loro naso senatoriale gli effluvj del primo profumo. È ben vero che anche allora la razza dei funghi assassini faceva la pelle a molti, per cui avevano il proverbio: Tanquam fungus strangulat. Anzi alcuni filologi pretendono che fungus, venga da funere per la sua parentela antichissima coi necrofori. Orazio, quel dell'aurea mediocrità, decantava i pratajuoli: pratensibus optima fungis Natura, cœteris male creditur. Plinio li chiama: gulœ novissima irritamenta. Difilo filosofo li commenda, e Clemente VII ne morì avvelenato.
pure per l'inverno in speciale salamoja o concia, e secco. Gli antichi credevano fosse il prodotto del tuono e del fulmine, per cui lo addimandavano
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le
È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo a condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono, lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27. 20) e nel Levitico (cap. 24. 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumastro chiamato omphacium gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come rimedio preziosissimo contro un'infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche il frutto dell'olivo è mangiabile. Nella Bibbia è chiamato fruges. — Si fruges collegeris olivarum (Deut. 24. 20). Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di aqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'aqua, e finalmente si coprono con forte salamoja aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno de' suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa per essere felice, che un po' di olive, di cicoria, e di malva: Me pascant ulivœ, me cicorea, levesque malvœ. Tutti gli scrittori Greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama adirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri.
grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e
Il pepe lungo (piper lungum, macro piper) nasce nel Bengala e nelle Isole Molucche, à gettini lunghi un pollice circa, grossi come una piccola penna da scrivere di color cenere. Il loro sapore è più acre e meno grato del pepe nero e di un odore perfettamente simile. Entra nella composizione di alcuni elettuarj, ma il consumo maggiore si fa dagli acetai, i quali lo infondono nell'aceto debole per renderlo acre. Gli Indiani poveri lo macerano nell'aqua e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoja e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne pure chiamato pepe lungo il nostro peperone. Il pepe della Giammaica, o pimento degli inglesi, o pepe garofanato, è della grossezza d'un pisello, d'un color grigio rossastro, rugoso. À odore aromatico analogo a quello della canella e del garofano, sapore piccante quanto il pepe. Questa droga è di gran uso nei paesi caldi in Germania ed in Inghilterra per condire le vivande ed è uno dei principali ingredienti per la composizione delle spezie. Quello che si usa sotto il nome di pepe di Cajenna (1), non è altro che il seme e la capsula seminale di una pianta selvaggia del Sud dell'America, che è coltivata nelle Indie e che si chiama Capsicum baccatum, annuum et fructescens. Poche sostanze fino dai tempi remotissimi furono oggetto di tante falsificazioni quanto il pepe. Una buona regola è quella di comperar sempre pepe in grana, e di polverizzarlo da voi a norma del bisogno, valendosi di quei piccoli macinatoi di pepe, oggi molto diffusi. Per falsificare il pepe nero servono farine d'ogni genere, segatura di legno, panelli oleosi, terre, gesso, ecc. Il pepe bianco si usa renderlo più pesante stacciandolo insieme a gomma, amido, calce, gesso, biacca, ecc. Nè solo si falsifica in polvere ma pure in grani, e ciò abilmente con semi, argilla, gesso e polvere di pimento in Inghilterra, in Germania e in Francia. A Parigi, lo afferma Chevallier, v'à una fabbrica che produce annualmente 1500 chilogrammi di una miscela che si vende unicamente per adulterare il pepe. Riesce facile riconoscere il falso pepe in grana, mettendolo nell'aqua, che allora i falsi grani vanno prontamente al fondo e si sciolgono in poltiglia. Il pepe è un'aroma potente e popolare che condisce la minestra del povero e rende pizzicanti gli intingoli del ricco. Eccita la salivazione, favorisce la digestione, ma irrita preso, smodatamente, gli intestini delicati. È veleno per gli emorroidarj, gli erpetici, conviene ai flemmatici. Da Aristotile, Egineta, Dioscoride, Serapione, era tenuto avente benefici effetti sulla vista e nei giramenti di capo. Se non rinfresca, scioglie ed abbassa molti umori e non è del tutto stramba la lezione della scuola Salernitana:
'aqua e così reputano renderla stomatica. Ne mettono pure in conserva i racemi immaturi nella salamoja e serve loro a tavola e nelle insalate. Venne
Scegliete funghi morecci, o porcini, che siano piccoli e sani; puliteli bene stropicciandoli con una salvietta, onde toglierne tutta la terra che può aderirvi: intanto mettete al fuoco una pentola con acqua ed aceto (due terzi dell'una ed un terzo dell'altro); aggiungete un poco di sale, e quando il miscuglio comincia a bollire, unitevi i funghi già puliti. Dopo un bollore ritirateli, fateli sgocciolare, metteteli in vaso adattato, accomodando veli a suoli ben compatti, ed allorchè li avrete tutti così disposti, versatevi sopra una salamoja composta nella proporzione di 300 grammi di sale per ogni litro d'acqua, avvertendo di farla prima bollire a parte e indi raffreddare. In fine collocato sui funghi, entro il vaso, un testo con sopra un peso di pietra, per tenerli compressi ed immersi, e turate il vaso stesso col suo coperchio.
veli a suoli ben compatti, ed allorchè li avrete tutti così disposti, versatevi sopra una salamoja composta nella proporzione di 300 grammi di sale per
Chiamasi saurkraut, con vocabolo tedesco, il cavolo preparato colla salamoja, e significa cavolo acido. Si adopra a quest'uso il cavolo cappuccio, scegliendolo bello bianco, con le foglie ben serrate e compatte. Il recipiente più adatto alla preparazione del saurkraut è un barilotto, di cui uno dei fondi sia movibile a guisa di coperchio: se esso avrà già servito per il vino o per liquori alcoolici riescirà migliore. Si può servirsi anche di grandi vasi di terra verniciati, ma ad ogni modo occorre avere una rotella o disco di legno di quercia, che entri con facilità nel recipiente, e che abbia parecchi centimetri di spessezza, onde sia pesante e possa bastare a comprimere.
Chiamasi saurkraut, con vocabolo tedesco, il cavolo preparato colla salamoja, e significa cavolo acido. Si adopra a quest'uso il cavolo cappuccio
Questa pietanza, tutta speciale della Germania, e che consiste colà in una preparazione del cavolo cappuccio colla salamoja (vedi al num. 12), si suol fare nelle nostre cucine in un modo più semplice, cioè con cavoli freschi invece che preparati. Eccone la ricetta: Prendete due cavoli cappucci; mondateli togliendo loro il torso e le foglie esterne più verdi; tagliateli a listerelle, lavateli in acqua fresca, e dopo averli fatti sgocciolare un poco, poneteli al fuoco in una casseruola con sale abbondante. Quando sono a mezza cottura, gettate via l'acqua che avranno prodotta, la quale è acre; aggiungete mezzo bicchiere d'aceto, altettranto olio e due spicchi d'aglio trinciati, e fate cuocere per un'altra mezz'ora o poco più, rimestando più volte.
Questa pietanza, tutta speciale della Germania, e che consiste colà in una preparazione del cavolo cappuccio colla salamoja (vedi al num. 12), si
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, esiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: Asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fa un estratto, un'acquavita di ginepro detta gin, molto in uso in Inghilterra; da noi se ne fa della buona sul bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname e intarsiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diaforetiche, antierpetiche. Ne fa una infusione col vino e coll'acqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, e il cotone e le lane ben imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe, ridotto all'ultima miseria si lamenta che vien deriso anche da quelli che, miserabili alla lor volta, si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap. 30, 4).
, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le
Fu nel Medio Evo e in Italia che si incominciò a impiegarvi il porco. Il Platina, del secolo XVI, nel suo libro De honesta uoluptate dice, che niente raggiunge l'istinto della scrofa di Norcia per scoprire i tartufi sotto terra. Dall'Italia questo modo passò in Francia dove il porco venne chiamato, con stile poetico, porc de course, couchon levrier, e il porco è ancora il principale agente di questa caccia. Un altro ausiliario del ricercatore dei tartufi è il cane. L'uso del cane è antichissimo, e naque pure in Italia. L'Inghilterra, dove il tartufo è poco comune, la Germania stessa, la Francia, ànno avuto da noi i barbini, come maestri modelli nell'arte. Nel 1724 il conte di Wakkerbart li portò in Sassonia a farne la caccia a Sedlitz. Augusto II re di Polonia, nel 1720 ne fece venire dall'Italia dieci che costarono cento talleri ciascuno. Fu pure un italiano, Bernardo Vanini, che ottenne il monopolio dei tartufi nel Brandeburgo, coll'obbligo di fornirne la cucina di Corte. Anche il Würtenberg ebbe due barboni dalla corte di Torino e in Germania vennero di moda e si chiamavano truffel-hunde, e canes tuberario venatici. Anche altre razze di cani sono suscettibili di questa educazione. L'uomo pure, di fine odorato, può fare questa caccia. La terra sollevata in certi punti, o presentante una fenditura, tradisce la presenza del tartufo più vicino al suolo e più precoce. Provatevi, e se non troverete il tubero, troverete certamente.... un sasso. Altra spia del tartufo è una certa specie di mosca detta helomyza (da helmius, verme) tuberivora, più lunga delle mosche comuni, d'un colore giallo-rosso, colle ali color fumo e macchiate di nero e che à il volo lento e permette di seguirla. La si vede quasi sempre solitaria sorvolare sul punto che cela il tartufo maturo, e del quale è ghiotta. È questa mosca, ed altre sue parenti prossime, che diedero ad intendere per molto tempo, essere i tartufi una particolare loro produzione, mentre invece ne erano le divoratrici. Fra questi segnali, il più conosciuto è l'ingiallimento, lo stato morboso ed anche la morte delle piante erbacee e dei piccoli arboscelli che vegetano sul luogo del tartufo. L'epoca della raccolta del tartufo in Francia è da novembre a marzo, ma sopratutto nel periodo di Natale. Ne sono ricche la Provenza, la Linguadoca, il Querey, il Pèrigord ed il Poitu. Il tartufo nero, o la melanospora è comune in Italia, Francia, Spagna, va fino in Inghilterra, a Rudloe nel Wiltshire, nella Sassonia e nell'Austria. Ne sono abbondanti da noi le montagne della Sabina e sopratutto Norcia. Il sapore, l'aroma ed il colore variano a seconda dei paesi. Quella di Piemonte è bianca e sarebbe il tuber hyemalbum. Pare che la bianca sia più propria dei paesi del Nord, o per lo meno la vi si trova più frequente. Avvi anche il tartufo rosso (tuber rufum) che in Provenza si chiama mourre de chin (muso di cane) che per il suo odore speciale è rigettato dal commercio. Vi à il falso tartufo, la genea verrucosa detta in Piemonte cappello di prete, il melanogaster variagatus, o muscato, la balsamia vulgaris, detta rosetta da noi. Si mangiano dai pochi intelligenti. Il solo tartufo falso che sempre si mangiò e si mangia ancora dagli Arabi è la terfezia leonis, o tartufo del deserto e delle sabbie. Dev'essere di quest'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gulae. Gli Ateniesi concedettero ai figli di Cherippo la cittadinanza, per avere introdotto un nuovo modo di cucinare i tartufi. L'Archistrato, o capo-cuoco in Atene, faceva servire alla fine del pranzo dei tartufi cotti col grasso, sale, ginepro e canella, e spruzzati di vino del Chjo. Cecilio Apicio, il celebre cuoco che viveva sotto Trajano, ci à lasciato varie ricette dei tartufi nella sua De re culinaria. Avicenna, oracolo della medicina d'allora, raccomanda di pelare i tartufi e di tagliarli a pezzi, farli bollire con aqua e sale, poi farli cocere con erbe aromatiche e servirli colla carne salata. Marziale antepone i funghi ai tartufi dicendo:
'ultima specie il tartufo cucinato dai Romani che serviva a dar sapore alla salamoja e ad altre irritamenta gulae. Gli Ateniesi concedettero ai figli di
Salatura a secco. A misura che si tagliano i quarti, vengono aspersi di sale e fregati in tutta la superficie con sale greggio, che bisogna però scegliere perfettamente asciutto; quindi si dispongono i pezzi nel vaso di salamoja, il quale abitualmente consiste in un barile di quercia o di legno bianco, sfondato, la cui parte superiore, che fa l'ufficio di coperchio è munita di un manico. Il fondo si guernisce di un grosso strato di sale o diversi aromi, come per esempio, foglie di alloro e di salvia, alcuni rami di timo, e una piccola quantità di grani interi di pepe. Su quello strato si depongono le coscie o presciutti, disponendoli in modo che rimanga fra essi il meno spazio possibile; i prosciutti si spalmano con uno strato di sale e di aromi, sui quali si colloca un altro pezzo di carne, e si continua in tal modo, strato per istrato, fino a che il barile sia pieno, serbando i più piccoli pezzi per ultimi: al di sopra, e quasi in immediato contatto col coperchio, si pone la testa fessa in due nel senso della sua lunghezza, e tutti gli altri pezzi dove c'è più ossa che carne; questi debbono essere ritirati per primi onde essere consumati. Quando si giudica che li prosciutti sieno penetrati abbastanza di sale, in capo ad un tempo, che varia secondo i gusti e le abitudini locali, si ritirano per esporli alla fumigazione. Dapprima si soffregano bene, onde levare dalla loro superficie e staccarne il sale, con cenere ben vagliata, poi ravviluppati in una carta coperta di tela, e appesi al caminetto , ad una sufficiente altezza perchè non troppo risentano il calore del fuoco. Se si può, intanto che i prosciutti sono esposti al fuoco, facciasi ardere di tratto in tratto nel camino qualche fascio di ginepro verde, perchè il fumo di quell'arbusto aromatico contribuisce a dare ai prosciutti un sapore gradevole. Dopo dieci o dodici giorni di esposizione al fumo i prosciutti si staccano e si conservano in un luogo bene asciutto, fuori degli assalti dei sorci che ne sono ghiottissmi.
scegliere perfettamente asciutto; quindi si dispongono i pezzi nel vaso di salamoja, il quale abitualmente consiste in un barile di quercia o di legno
Cavoli salati (Crauti). Si apparecchiano i cavoli salati con qualunque specie di cavoli cappucci, ma specialmente con quelli bianchi. Dopo aver tagliato in sottilissime striscie tutti i cavoli che si vogliono adoperare, si pone nel fondo di un gran vaso di terra o di un piccolo barile sfondato da una parte, uno strato di sale, poi uno di cappucci di 15 centimetri di spessore, e si comprimono mediante un pestello di legno, fino a che si riducono quasi a metà di altezza; si spalma un secondo strato di sale, poi un altro di cappucci da comprimersi come il primo, e così si continua fino a che il vaso sia ripieno, a qualche centimetro dall'orlo, avendo cura di mescolare ad ogni strato di cappuccio pepe in grani e semi di cardi o di ginepro. L'ultimo strato dev'essere di sale; sopra si collocano alcune foglie fresche intere, poi il coperchio o il fondo del barile, e su questo pesi, o alcune grosse pietre che impediscano ai cappucci di sollevarsi durante la fermentazione. Tosto che questa incomincia, formasi un'acqua verdastra e fetida che sornuota, e che bisogna gettar via ogni quattro o cinque giorni nei primi momenti, per sostituirla con una quantità di nuova salamoja, in maniera che i cappucci ne sieno sempre coperti per qualche centimetro. I cappucci devono essere conservati in luogo dove non penetri il gelo, e sono buoni da mangiarsi in capo a sei settimane o due mesi. Quando si estrae dal barile la quantità che si vuol adoperare, non bisogna dimenticare di ricuoprire il barile col suo coperchio, e riporvi sopra il medesimo peso.
sornuota, e che bisogna gettar via ogni quattro o cinque giorni nei primi momenti, per sostituirla con una quantità di nuova salamoja, in maniera che
Si pigli una lingua o un pezzo di carne magra di manzo: si stropicci con sale comune e con un pochetto di salnitro ben pesto e mescolato insieme, e si ponga in un mastello; meglio sarà, se si potranno unire molte lingue o molti pezzi di carne insieme. Sopra ogni pezzo cogiti lingua, si spruzza ancora del sale comune e del nitro polverizzato, e vi sì aggiungono coriandri, fogli d'alloro odoroso, pepe, ginepro, un poco di rosmarino ed un poco di rafano rusticano o di cren grattugiato. Chiudesi quindi la mastella o bigoncia, e su la carne si fa poggiare una tavola compressa con peso assai grave, affinchè la salimoja sopravanzi al disopra della carne. I pezzi di carne assai grossi debbono rimanere nella salamoja almeno per quattordici giorni; le lingue per minor tempo. Allorchè queste si vogliono mangiare debbono cuocersi nell'acqua, ben involte in una salvietta, unendovi qualche erba aromatica; e la cottura si continua sinchè sieno ben tenere. Sulla mensa si servono fredde.
, affinchè la salimoja sopravanzi al disopra della carne. I pezzi di carne assai grossi debbono rimanere nella salamoja almeno per quattordici giorni