E proseguendo nel saggio criterio di economia che deve guidare la donna nella preparazione quotidiana dei cibi, diremo che si screma troppo il brodo, senza pensare che quello che si getta è albumina coagulata col calore, si spreca la crosta del brodo stesso raffreddato, pur sapendo che essa è formata per intero da sostanze grasse nutritive, si spreca l'acqua che ha servito per bollire la pasta asciutta, la quale contiene ancora qualche briciolo di resto alimentare stemperato, e soprattutto si spreca inutilmente il latte, che è un alimento prezioso e di alto costo. Si disperde nel bollirlo quando esso non è contenuto in un adatto recipiente a coperchio forato, o quando viene dimenticato spensieratamente sul fornello. Si consuma inutilmente quando si aggiunge a molte pietanze, per le quali sarebbe sufficiente l'acqua e un po' di farina; il latte oggi è un alimento quasi di lusso (il suo prezzo è di L. 2,10 il litro) e deve perciò essere riservato ai vecchi, ai bambini ed anche agli adulti, ma non addizionato qua e là come complemento alimentare di sostanze che possono essere preparate anche senza di esso e riuscire ugualmente gustose.
prezzo è di L. 2,10 il litro) e deve perciò essere riservato ai vecchi, ai bambini ed anche agli adulti, ma non addizionato qua e là come complemento
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, resiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in Maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I Botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fà un estratto, un'aquavita di ginepro detto gin molto in uso in Inghilterra — da noi se ne fà della buona sul Bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname ed intersiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diafaretiche, antierpetiche. Ne fà un infusione col vino e coli' aqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, ed il cotone e le lane imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe ridotto all'ultima miseria, si lamenta che vien deriso anche da quelli che miserabili alla lor volta si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap.30,4).
ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota
Il Pesco è pianta a foglia caduca, indigena, originaria dall'Asia e più propriamente, come lo indica il suo nome, della Persia. Cresce in terreni buoni, caldi, ad esposizioni meridionali, difese dai venti. Vive anche nei climi freddi, ma non dà frutti. Si moltiplica per seme ed innesto sul Mandorlo, sul Pruno e sul Cotogno. Vuolsi che dia frutti migliori e più belli piantando la pesca intera colla sua polpa. Cresce rapidamente, dopo due o tre anni dà frutto, ma presto invecchia e deperisce — pochi peschi passano i 20 anni. Si allunga la loro vita innestandoli sul mandorlo. A fiori rosei prima delle foglie, che sono distrutti facilmente dalle brine e dalle forti pioggie primaverili. Dà frutti maturi da Luglio ad Ottobre, a seconda delle varietà, che sono numerose assai. I botanici dividono il pesco in due famiglie, quello a frutto coperto di pelurie, e quelle a frutto liscio — ambedue suddividonsi alla lor volta, in frutto a polpa e carne succosa, spiccaciola, che facilmente abbandona il nocciolo, e in frutto a polpa consistente duracina, che non si stacca dal nocciolo. La pesca è matura, quando dal lato dell'ombra od a tramontana mostra la pelle gialla — in tal momento tramanda la sua fragranza e profumo particolare. Non fatene la prova col tatto, perchè la minima contusione forma una macchia, che in breve tempo la guasta e fà marcire. L'Erera, botanico spagnolo, dice che se si adaqueranno i persici, con latte di capra per tre sere continue quando sono in fiore — vi nasceranno pesche grossissime. In China il pesco è l'albero a - frutta più importante e che per la sua fioritura jemale, ne à fatto il simbolo dell'amore e della fedeltà. La pesca colà si crede procuri l'immortalità al felice che ne mangia. Nel linguaggio delle piante presso noi significa: Contento, vita beata, non cercar troppo. Il suo raccolto deve farsi a mano. Quelle destinate al commercio si devono cogliere qualche giorno prima della sua completa maturanza, onde siano più resistenti. La pesca, è frutto giocondo che ricorda le guancie paffute e rosee dei bimbi e delle bimbe. È squisitissimo, salubre, profumato di facile digestione, si mangia fresco e si fà seccare per l'inverno, e allora si chiamano da noi veggitt. I cuochi ne fanno fritture, polpettine, persicata, sorbetti, marmellate. Il loro delicato aroma è sì sfuggevole che invano si tenta fissarlo completamente nelle conserve, nei liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell'osso: Malum quod implicuit persicum nucleus explicat. Diceva un antico proverbio latino, il che vuol dire che bisogna mangiarne anche l'amanda. Certe signorine troppo schifiltose non possono soffrire la lanuggine della sua pelle ed è precisamente nella sua pelle che si conserva il massimo tesoro della sua fragranza, come è nella pellicola dalla sua amanda che maggiormente si raccoglie l'amaro che possiede. Si ricordino del proverbio: all'amico pela il fico, al nemico il persico. Per saporire la pesca va mangiata senza pelarla e senza tagliarla. Le foglie ed i fiori del pesco sono velenosi, contenendo acido idrocianico, tuttavia in medicina se ne fà uso qualche volta come contro stimolanti e vermifughi. I fiori e le foglie recenti, ànno inoltre una virtù purgativa, se ne fà infusione e sciroppo, perdono molto coll'essicazione. In caso di avvelenamento coi fiori, foglie o mandorle de' suoi frutti, si soccorre con etere al quale s'aggiungono una ventina di goccie di laudano. Coi frutti ben maturi, che passano facilmente alla fermentazione, se ne può ricavare un vino leggero, assai piacevole a bersi. La gomma che scorre dal suo tronco e da' suoi rami può adoperarsi invece della gomma arabica. La Scuola Salernitana sentenzia:
liquori. In America, dove molto abbonda, se ne fa eccellente aquavita. I nostri vecchi dicevano che del persico tutto va mangiato fuorchè il duro dell
N. 1. — Mettete al fuoco nell'acqua fredda un pezzo di carne ben pulita dal grasso, che impiegherete altrove, dalle pelletiche e dagli ossi che farete bollire con dell'acqua a parte. Per la carne vi regolerete a piacimento. Essa può essere tanto di manzo, come di vitello, o di castrato, o di maiale fresca o salata. Possono servire allo scopo anche una vecchia gallina o un paio di vecchi piccioni. Unitevi a poco a poco, a norma della loro morbidezza, quelle verdure di cui potete disporre, se svariate tanto meglio, seguendo l'ordine qui indicato a ciò non le troviate sfatte nel cuocere: cavoli, verze, pastinache, carote, lattuga, porri, cipolle, sedano, patate. S'intende che tutte queste verdure vanno ben lavate e, ove occorra, mondate e affettate. Cuocete schiumando il composto 2-3 ore finchè la carne è morbida. Ricordatevi il sale e il pepe, poi levate la carne, tagliatela a pezzetti, mettetela in una larga insalatiera, circondatela colle verdure che avrete pestate nella pentola con un mestolo forato, poi con fette di pane o fresche, o arrostite nel burro, o tostate al forno, da ultimo digrassate il brodo, e versateglielo sopra passandolo da un colino. Al brodo della pentola unirete quello degli ossi che avrete pure bene schiumato e digrassato. Se volete aggiungere al composto fagioli o castagne secche vi converrà lessarli a parte.
fresca o salata. Possono servire allo scopo anche una vecchia gallina o un paio di vecchi piccioni. Unitevi a poco a poco, a norma della loro
1. AVVISO NECESSARIO A SAPERSI. — Il montone è un ottimo alimento che si confà a tutte le età e temperamenti: nutrito nelle alpi colle abbondanti erbe aromatiche ed all'aria pura, ucciso dai 10 mesi ai due anni, non troppo grasso né troppo magro e frollo, nell'inverno è buonissimo. La sua carne nutrisce molto e più di quella di vitello, ma è un po' riscaldante ed eccita il sudore; anche nella stagione estiva se ne fa molto uso; le parti migliori sono: la coscia, la lombata, le costolette, le spalle. Si cuoce per lo più in arrosto e stufato, non usando però nell'acconciarlo il suo grasso. Il montone vecchio non è più tanto buono a mangiare, poichè sente di sego, perciò volendosene servire bisogna disgrassarlo bene e marinarlo per 2 o 3 ore con olio, aceto, cipolle, prezzemolo, sedano, sale, pepe e lauro, il tutto mescolato, oppure, per chi non ama le droghe e aceto, bagnarlo con acqua bollente; ma questo si fa quando la carne vuolsi lessare o stufare — La capra ed il caprone hanno la carne molto inferiore a quella del montone; essa si cuoce allo stesso modo di quella di quest'ultimo. Se sono vecchi la loro carne ha un odore di sego ripugnante e può solo convenire agli uomini robusti che faticano all'aria aperta.
cuoce allo stesso modo di quella di quest'ultimo. Se sono vecchi la loro carne ha un odore di sego ripugnante e può solo convenire agli uomini
Il Carciofo, della famiglia dei cardoni, è un caule di 5 o 6 piedi, biennale, indigeno. Vuole esposizione meridionale, essere difeso dai freddi, terreno lavorato, asciutto, ricco. Ama molt'acqua, il gelo l'uccide. Si propaga per semi, getti, o meglio per polloni dei vecchi carciofi, in marzo ed aprile ed anche in maggio, in luna vecchia. Nel linguaggio delle piante: Sei noioso. Il seme conserva la sua virtù produttiva fino a sei anni e più. È una verdura delle più delicate, sana, saporita e ghiotta. Quello che si mangia è il fiore immaturo, che è fatto a scaglie ed à la figura d'una pigna. Sono rinomati quelli di Genova, migliori quelli di Sardegna. Si mangiano tenerelli crudi con pepe ed olio, per antipasto, cotti all'olio, al burro, si lessano, si friggono impannati alla padella, alla grata, si accoppiano ad ogni piatto, ai quali servono anche di elegante e saporito ornamento. Sono nutrienti e contengono molto tannino. Se il carciofo è giunto alla sua perfetta maturanza e grossezza normale, lasciatelo riposare due giorni prima di mangiarlo, sarebbe troppo irritante. Va lavato in grand'acqua, e messo a cocere in acqua bollente e salata, coperto solo per tre quarti, non lasciarlo stracocere. Il carciofo cotto all'acqua, freddo che sia, è eccellente coll'olio. Dei ricettacoli del carciofo cavasi amido.
, terreno lavorato, asciutto, ricco. Ama molt'acqua, il gelo l'uccide. Si propaga per semi, getti, o meglio per polloni dei vecchi carciofi, in marzo ed
Il Ginepro è un arboscello che diventa anche albero dell'altezza di cinque, sei metri, sempre verde, indigeno, ama esposizione poco soleggiata, terreno leggero, esiste a qualunque freddo. Non vegeta bene in luogo umido, anzi vi perisce, vuol vivere e crescere nelle più aride ed alte montagne, fra ciottoli e pietre. Dà fiori giallicci in maggio cui seguono, sugli arboscelli femmine, frutti sferici piccoli di un azzurro nericcio, che maturano l'anno susseguente. Si propaga per seme ed innesto. I botanici ne contano 85 varietà, fra le quali il comunis che è quella dei nostri monti. Il suo nome dalla radicale celtica nup, che significa aspro, ruvido. Nel linguaggio delle piante: Asilo, soccorso. Le sue bacche o frutti ànno un gusto aromatico, dolce-amaretto e contengono della vera tiberintina. Si usano in cucina per aromatizzare le carni, principalmente quelle che si vogliono conservare, come lingue, coppe, ecc. Si mettono nella salamoja, in salse e conce, e servono a dar gusto ai selvatici, e a far diventare tordi i merli. I tordi e le grive ne sono ghiottissimi e la loro carne à sapore di ginepro. Il liquorista ne usa per aromatizzare liquori, vini, birra. Se ne fa un estratto, un'acquavita di ginepro detta gin, molto in uso in Inghilterra; da noi se ne fa della buona sul bergamasco. Il ginepro dà un olio essenziale, di cui è ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota sotto il nome di sandracca, la quale viene adoperata anche per fare una vernice liquida. Il legno, tenace assai e durevole, quasi incorruttibile, serve per molti lavori da falegname e intarsiatore. La medicina assegna alle sue bacche virtù toniche, stimolanti, diuretiche, diaforetiche, antierpetiche. Ne fa una infusione col vino e coll'acqua e le distilla, ne compone un rob attivissimo nelle inappetenze e flatulenze. Fanno parte di molti composti e segreti polifarmaci e costituiscono la base principale del vino diuretico Trousseau. Si usano le frizioni coll'olio contro i dolori reumatici e le contusioni. Bruciato il suo legno insieme alle foglie ed alle bacche dà una fiamma viva allegrissima, sparge una grata fragranza, serve a disinfettare camere e locali, ad allontanare le zanzare, e il cotone e le lane ben imbevute del suo fumo si applicano con frutto a doglie reumatiche e gottose. I montanari bruciano il ginepro alla vigilia di Natale per allegria. Le ceneri ànno pure virtù diuretica, dovuta ai sali che contengono. Giobbe, ridotto all'ultima miseria si lamenta che vien deriso anche da quelli che, miserabili alla lor volta, si cibavano perfino delle radici di ginepro. (Cap. 30, 4).
ricchissimo, adoperato in distilleria e farmacia. Dai vecchi tronchi del ginepro geme una resina secca e trasparente, di odor soave che si brucia, nota
. Tutti gli scrittori greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama addirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri. Nelle regioni cocenti dell'Africa e nelle meridionali d'Italia, principalmente nelle Puglie e nelle Calabrie, dal tronco dei vecchi alberi cola un succo addensato che si chiama Gomma d'olivo o Gomma di Lecce; è una resina balsamica che, soffregata, dà odore di vaniglia e, bruciata, di acido benzoico. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio come profumo e rimedio balsamico, tonico, oftalmico. Il legno, durissimo, serve per i tornitori. L'olivo fu portato nell'Arca dalla colomba, simbolo di pace tra il cielo e la terra. Il Redentore si ritirava sul monte degli Olivi a pregare dal suo divin Padre il ritorno di questa pace, e la Chiesa nel suo rito, benedice l'olivo e lo distribuisce ancor oggi segnale di pace a' suoi fedeli. Sulla fede di Plinio moltissimi pretendono che l'olivo sia originario dell'Asia, e non sia stato portato in Italia che sotto Tarquinio Prisco, verso il 180 dalla fondazione di Roma. Ma come nota il Bortoloni, forse allora solo, s'incominciò a coltivarlo, ma l'olivo selvatico è assolutamente indigeno di tutti i climi caldi e temperati d' Europa. Presso noi, quattordici secoli fa, il poeta Claudiano già ne scriveva:
, principalmente nelle Puglie e nelle Calabrie, dal tronco dei vecchi alberi cola un succo addensato che si chiama Gomma d'olivo o Gomma di Lecce; è una resina
Il rapunzolo o rapenzolo, è una radice erbacea bisannuale della grossezza del mignolo, perenne, indigena, bianca, fragile, carnosa e tenera. Dà fiori, da maggio a settembre, di un turchino pallido in pannocchie terminali: à seme minutissimo. Il suo nome dalla sua somiglianza colle rape. Nel linguaggio delle piante: Delizia campestre. I semi germinano per 5 anni. Si propaga meglio dividendo gli stelloni o la sua radice. Vuole terra leggera e alquanto sabbiosa, esposizione fresca e ombrosa. Cresce naturalmente intorno alle roccie, ai vecchi muri e nei prati di campagna. Codesta radice è mangereccia, saporita e di bon gusto, ad alcuni riesce un po' indigesta. E fiori e radici forniscono una delle più delicate insalate. Si usa molto in Toscana e massime a Firenze. Si mangia tanto cruda che cotta e anche fritta. Merita di essere coltivata negli orti per la sua bontà. Il raccolto si fa da gennaio a febbraio e si continua fino a che le piantine non emettano il fusto seminale. Coltivata diviene più grossa. A virtù alquanto tonica. Plinio la chiama Rapa sylvestre. I Francesi: Petite raiponce de Carème. Un giornale francese raccontava che Bèranger era ghiotto di questa radice e ch'era la delizia delle sue dinettes primaverili.
alquanto sabbiosa, esposizione fresca e ombrosa. Cresce naturalmente intorno alle roccie, ai vecchi muri e nei prati di campagna. Codesta radice è
La cosa non è facile a dirsi poichè i pareri di famosi ghiottoni sono stati, in tutti i tempi, discordi. Un celebre buongustaio si accontentava di spruzzare sulla testa dello sparagio qualche granello di sale. «Non c'è bisogno di salsa — diceva — per accompagnare lo sparagio: è un fondant». E a proposito di discordi pareri sulla migliore salsa per gli sparagi è famoso l'aneddoto degli sparagi di Fontenelle, l'illustre e irriducibile ghiottone, il quale smentì eloquentemente il vecchio adagio: «Ne uccide più la gola che la spada», perchè, in barba alle sue quotidiane incursioni nei regni della golosità, morì all'età rispettabilissima di cento anni. Del resto la fama di ghiottone dell'illustre segretario dell'Accademia delle Scienze non era un mistero: la duchessa di Grammont affermava che egli sarebbe stato capace di appiccare il fuoco al castello di Versailles per arrostire un'allodola. Una mattina un vecchio amico di Fontenelle, l'abate Garcin, altro buongustaio emerito, viene a chiedergli da colazione. Quale ispirazione quel Garcin! Proprio quella mattina, Fontenelle ha ricevuto in dono dall'Ambasciatore di Napoli un magnifico mazzo di sparagi. Aggiungete che si è in inverno, in pieno gennaio. Con quale salsa dovranno essere conditi questi rari, questi meravigliosi sparagi ? Fontenelle è propenso per l'olio e il limone, Garcin propone senz'altro la salsa bianca. Quale scegliere? Ognuno difende energicamente la sua salsa prediletta. I due vecchi discutono, si accalorano, alzano la voce. Ed ecco sopraggiungere Teresa, la valentissima cuoca di Fontenelle, la quale riesce a mettere facilmente d'accordo i due contendenti mediante la più saggia delle decisioni: una metà degli sparagi all'olio per Fontenelle, l'altra metà alla salsa bianca per l'abate. Lieti di questa soluzione così semplice, alla quale nondimeno non avevano pensato, i due vecchi amici, in attesa della colazione si siedono davanti al fuoco che scoppietta nell'alto camino. All'improvviso l'abate Garcin, una specie di botte vivente, leva le mani al cielo, straluna gli occhi, tenta d'alzarsi e rotola in terra fulminato da un colpo apoplettico. Allora Fontenelle, scavalca con giovanile vigore il monumentale corpo del suo vecchio amico, e, slanciandosi verso la cucina, grida con voce trionfante:
, Garcin propone senz'altro la salsa bianca. Quale scegliere? Ognuno difende energicamente la sua salsa prediletta. I due vecchi discutono, si accalorano
Tra le massaie parecchi sono i sistemi di conservare il pomodoro per l'inverno: asciugandolo al sole, e mettendolo in vasi con sale e olio, o condensandolo a fuoco per poi finirlo al sole, e farne dei piccoli pani o dei rotoli, ecc., ecc. Ma il miglior metodo di conservazione casalinga è, senza dubbio, quello delle bottiglie, col quale si riesce ad avere per tutto l'anno del pomodoro ottimo che non differisce menomamente da quello fresco. Durante il mese di agosto in cui il pomodoro raggiunge la sua perfetta maturità, vi consigliamo di arricchire la vostra dispensa di molte di queste bottiglie. Fatene tre o quattro ogni giorno, e così, senza nessuna fatica, e pochissima spesa, vi troverete, alla fine del mese, ad averne messe insieme una quantità considerevole. Si scelgono delle bottiglie da Champagne, che sono le più adattate, si nettano bene e si lasciano sgocciolare. Si tagliano i pomodori a pezzi, e si raccolgono in un tegame di terraglia o in una insalatiera di porcellana — bisogna evitare possibilmente il rame e lo stagno. — Quindi si fanno entrare i vari pezzi nelle bottiglie, avvertendo di non riempirle troppo, arrivando appena al principio del collo. La parte liquida che rimarrà non va gettata via, ma distribuita un po' per bottiglia poichè da recenti studi fatti sembra che quel che dà il maggior sapore alla salsa è appunto la parte acquosa del pomodoro. Si fanno intanto bollire dei sugheri nuovi, ciò che ha il duplice scopo di ammorbidirli e di sterilizzarli, e per mezzo della macchina, o, in mancanza di questa, con una di quelle macchinette di legno che costano pochi soldi, tappate le bottiglie, badando che il sughero penetri bene; e quindi legatele solidamente con una legatura in croce fatta sul collo della bottiglia e passante sul turacciolo. Avvolgete poi le bottiglie con carta, o paglia, o strofinacci vecchi, e mettetele in un piccolo caldaio con acqua fredda, la quale deve arrivare fino al collo delle bottiglie. Portate l'acqua adagio adagio all'ebollizione, che farete, continuare per un'ora. Guardate che le bottiglie, dopo chiuse, siano messe subito a fuoco, perchè il pomodoro facilmente fermenta. Le bottiglie potrebbero anche bollire un po' meno di un'ora, ma è meglio eccedere in precauzioni, ed essere sicuri della riuscita, anzichè poi trovare le bottiglie fermentate. Del resto, quando il fuoco è acceso e l'acqua del caldaio bolle, tenere le bottiglie al fuoco qualche minuto di più non costa proprio nulla. Quando le bottiglie avranno bollito il tempo stabilito si lasciano freddare nella loro acqua; poi si estraggono dal caldaio, si asciugano, si chiudono col mastice o con la paraffina e si ripongono al fresco. Quando vorrete servirvi di una bottiglia non dovrete fare altro che aprirla, versarne il contenuto su un setaccio, con un recipiente sotto, passarlo e servirvene come se il pomodoro fosse fresco. In ogni bottiglia entra circa un chilogrammo di pomodoro.
le bottiglie con carta, o paglia, o strofinacci vecchi, e mettetele in un piccolo caldaio con acqua fredda, la quale deve arrivare fino al collo
Il Carciofo della famiglia dei cardoni è un caule di 5 o 6 piedi indigeno. Vuole esposizione meridionale, essere difeso dai freddi, terreno lavorato, asciutto, ricco. Ama molt' acqua, il gelo l'uccide. Si propaga per semi, getti, o meglio per polloni dei vecchi carciofi, in Marzo ed Aprile ed anche in Maggio, in luna vecchia. È una verdura delle più delicate, sana, saporita e ghiotta. Quello che si mangia è il fiore immaturo, che è fatto a scaglie ed à la figura d'una pigna. Sono rinomati quelli di Genova e come migliori quelli di Sardegna. Si mangiano tenerelli crudi coll'olio d'olivo sale e pepe - e cotti all'olio ed al burro. Si digeriscono meglio cotti che crudi, sono più saporiti al burro che all'olio. Dai ricettacoli del carciofo cavasi amido. Dumas nel suo Dizionario di Cucina insegna sedici maniere di cucinare i carciofi. Galeno li calunniava come cibo bilioso: pravi succi est edulium, e Brillant-Savarin, come afrodisiaco. Il sugo del carciofo, fù tenuto da Guitteau e Copermann come succedaneo all'aloe e drastico ad alta dose. Fu usato contro i reumatismi, le sciatiche, l'itterizia e come diuretico nelle idropi. Charrier, Otterbourg, Homolle ed altri lo consigliano nella cura della diarea cronica, e suggeriscono di mangiarne crudi con olio, sale e pepe quattro o sei al giorno. Giova la decozione del carciofo a coloro che patiscono fetore sotto le ascelle, lavandosi con esso. Le foglie del carciofo fresco allontanano le cimici. Varrone insegna che a macerare la semente in sugo di rose, gigli, alloro si à carciofi del sapore di questi. Un cronista napoletano ci tramanda che celebre per cucinare i carciofi fu Cleope da Varafro. Vogliono che il nome di CINARA fosse quello di una bellissima ragazza che Giove quand'era lui al potere mutò in articiocco e cardone, nome che ancor rimase a questi.
, asciutto, ricco. Ama molt' acqua, il gelo l'uccide. Si propaga per semi, getti, o meglio per polloni dei vecchi carciofi, in Marzo ed Aprile ed anche
Il Rapunzolo o rapenzolo è una radice erbacea della grossezza del mignolo, perenne, indigena, bianca, fragile, carnosa e tenera. Dà fiori da Maggio a Settembre di un turchino pallido in pannocchia terminali: à seme minutissimo. Il suo nome dalla sua somiglianza colle rape. Si propaga meglio dividendo gli stelloni o la sua radice. Vuole terra leggera e alquanto sabbiosa, esposizione fresca ed ombrosa. Cresce naturalmente intorno alle roccie, ai vecchi muri e nei prati di montagna. Codesta radice è mangereccia, saporita e di bon gusto, ad alcuni riesce un pò indigesta. E fiori e radici forniscono una delle più delicate insalate. Si usa molto in Toscana e massime a Firenze. Si mangia tanto cruda che cotta ed anche fritta. Merita di essere coltivata negli orti per la sua bontà. Il raccolto si fa da Gennajo a Febbrajo e si continua fino a che le piantine non emettano il fusto seminale. Coltivata diviene più grossa. À virtù alquanto tonica. Plinio la chiama Rapa Sylvestre. I Francesi: Petite raiponce de Carême. Un giornale francese raccontava che Béranger era ghiotto di questa radice e ch'era la delizia delle sue dinettes primaverili.
vecchi muri e nei prati di montagna. Codesta radice è mangereccia, saporita e di bon gusto, ad alcuni riesce un pò indigesta. E fiori e radici
Questi sughi ed estratti di carne servono a migliorare il brodo, ad ammollire salse e pietanze fine di carne. Per preparare questi sughi s'adopera una casserola, coprendo questa col grasso del rognone, cipolla tagliata a liste grosse, 1 chilo di carne magra di manzo e 1/2 chilo di vitello, ambedue di coscetto e tagliate a filetti, aggiungendovi poi alcuni cucchiai di brodo semplice, cuocendo il tutto in stufato su fuoco moderato, finchè il sugo avrà preso un colore bruno-chiaro; si versano poi 3 litri di brodo lasciando bollir lentamente, fino a tanto che si leva la schiuma. Si mettono poi un paio di carote, del prezzemolo, un po' di sedano e del porro; si copre bene la casserola, si lascia bollire la carne finchè diventi tenerissima; indi si ritira la casserola dal fuoco e dopo qualche tempo viene disgrassato il brodo e colato per una salvietta distesa, lasciandolo poi freddare. Un brodo ancor più sostanzioso (Consommé od essenza) s'ottiene, cuocendo col sopradetto un pollo vecchio o un paio di vecchi piccioni arrostiti, o delle pernici, lasciando il tutto concentrarsi più a lungo. 1)
brodo ancor più sostanzioso (Consommé od essenza) s'ottiene, cuocendo col sopradetto un pollo vecchio o un paio di vecchi piccioni arrostiti, o delle
Brodo comune. I migliori pezzi di carne per far del buon brodo e del buon bollito sono dalla parte posteriore del bue. Per un buon lesso è da preferirsi la carne stagionata, per la preparazione di brodo invece la carne macellata da poco. La buona carne è scura e grassa; quella chiara proviene da animali giovani e non dà mai un brodo saporito. Dopo che si è pestata la carne e sciaquata nell'acqua fredda, la si mette a cuocere in una pentola: 1 chilo in 2 a 3 litri d'acqua, lasciandola bollire 2 ore, più a lungo però la carne di manzi vecchi o pezzi più grossi. Se vuolsi ottenere di preferenza una zuppa corroborante, si mette la carne al fuoco con acqua fredda, estraendosi in questo modo maggiormente sughi alimentari; se però la carne deve servire qual principale nutrimento, la si porrà al fuoco nell'acqua bollente, in cui già prima s'avrà messo a cuocere delle ossa con altri pezzi di carne di qualità inferiore, avendo cura che cominci presto a bollire onde non perda tutta la sua sostanza; dopo che avrà bollito fortemente alcuni minuti, la si continua a cuocere adagio a fuoco moderato. Si usa schiumare il brodo acciò divenga chiaro, però guadagnerà in sostanza se lo si lascia bollire tranquillamente, essendochè la schiuma cade da sè in fondo. Quando questa non monta più si aggiunge al brodo 1 cucchiaio da tavola di sale e radici (1 carota, 1 prezzemolo e del poro) raschiate, lavate e tagliate per metà. Queste si possono, tagliate a fette insieme a della cipolla e ad un po' di fegato, anche disfriggere in una piccola casserola nel grasso di brodo oppure nella grascia di bue, per poi aggiungerle al brodo, nel quale si possono mettere ancora della radice di sedano e del cavolo-crespo, però vale meglio escludere quest'ultimi per persone nervose. Per rendere chiaro il brodo s'aggiunge alla fine un poco di acqua fredda, e mettendo in disparte la pentola lo si digrassa e cola per uno staccio fino. Per cuocervi la minestra si versa il brodo in una pentola più piccola e lo si fa ribollire; la carne col grasso e il rimanente del brodo si lasciano coperti in disparte fino al momento di servire.
chilo in 2 a 3 litri d'acqua, lasciandola bollire 2 ore, più a lungo però la carne di manzi vecchi o pezzi più grossi. Se vuolsi ottenere di preferenza
Prendi in circa dodici libbre di carne di manzo ben succosa, ma non molto grassa, il midollo di alcune ossa, la carne di un pajo di vecchi polli, le ossa di questi pestati nel mortajo, due piedi di vitello, noce moscata, un po'di zenzero e pepe. Tutto questo porrai con l'acqua necessaria in una pentola di terra, che esporrai ben coperta per dodici ore all'azione del fuoco del fornello, non trascurando però di sommuovere il tutto spesse volte, come pure di levarne replicatamente la schiuma. Dopo il termine stabilito, passerai il brodo per setaccio, lo purgherai diligentemente dal grasso e lo lascerai raffreddare. La gelatina che col raffreddamento otterrai, farai poi addensare, mantenendovi un fuoco leggiero; ottenuta che avrà la medesima la consistenza necessaria, la porrai in tavolette di latta, e queste farai quindi asciugare perfettamente in un forno dal quale sia stato levato di fresco il pane, onde trarne partito al bisogno. Nel caso di visite inaspettate, di viaggio, ecc. riescono queste tavolette d'indicibile vantaggio.
Prendi in circa dodici libbre di carne di manzo ben succosa, ma non molto grassa, il midollo di alcune ossa, la carne di un pajo di vecchi polli, le