Pepe. – Aroma potente e popolare, che venutoci dalle regioni ardenti del tropico orientale condisce la zuppa del povero operaio senza sdegnare di rendere pizzicanti anche gli intingoli del re. È un brutto scherzo il dire che il pepe rinfresca: sarebbe come dire che la lattuga ci infiamma e una bella donna ci fortifica. Il pepe eccita ghiandole salivari, ghiandole gastriche e ogni cosa, irrita gli intestini delicati, ed è un veleno per gli emorroidarii, gli erpetici e l'immenso stuolo degli irritabili: conviene invece alle persone di temperamento malvaceo e fatti di carne di zucca. Il pepe bianco non è che il pepe nero privato della sua buccia ed è meno forte di questo. Il proverbio caro come il pepe è un antico ricordo storico del valore che si dava un tempo al pepe. Basti dire, che ebbe l'onore di servire di riscatto a Roma e che nel medio evo si pagavano ancora molti tributi e molte imposte col pepe.
che si dava un tempo al pepe. Basti dire, che ebbe l'onore di servire di riscatto a Roma e che nel medio evo si pagavano ancora molti tributi e molte
Come avrete notato in questa e in molte altre ricette della presente raccolta, la mia cucina inclina al semplice e al delicato, sfuggendo io quanto più posso quelle vivande che, troppo complicate e composte di elementi eterogenei, recano imbarazzo allo stomaco. Ciò non ostante un mio buon amico, per iscambio, la calunniava. Essendo egli stato colpito da paralisi progressiva, che lo tenne infermo per oltre tre anni, non trovava altro conforto alla sua disgrazia che quello di mangiar bene, e quando ordinava il pranzo alla sua figliuola non mancava di dirle: — Bada di non darmi gl'intrugli dell'Artusi. — Questa signorina, che era la massaia di casa, avendo ricevuta la sua educazione in un collegio svizzero del cantone francese, si era colà provveduta del trattato di cucina di Madame Roubinet; e volgendo a questo tutta la sua simpatia, poco o punto si curava del mio. Gl'intrugli lamentati dal padre erano dunque di questa madama dal rubinetto, la quale, si vede, dava con questo la via, più che non farei io, alle acque torbe della cucina.
dal padre erano dunque di questa madama dal rubinetto, la quale, si vede, dava con questo la via, più che non farei io, alle acque torbe della cucina.
Ora, tornando al bucchero, vi fu un tempo che, come ora la Francia, era la Spagna che dava il tòno alle mode, e però ad imitazione del gusto suo, al declinare del secolo XVII e al principio del XVIII, vennero in gran voga i profumi e le essenze odorose. Fra gli odori, il bucchero infanatichiva e tanto se ne estese l'uso che perfino gli speziali e i credenzieri, come si farebbe oggi della vainiglia, lo cacciavano nelle pasticche e nelle vivande. Donde si estraeva questo famoso odore e di che sapeva? Stupite in udirlo e giudicate della stravaganza dei gusti e degli uomini! Era polvere di cocci rotti e il suo profumo rassomigliava a quello che la pioggia d'estate fa esalare dal terreno riarso dal sole; odor di terra, infine, che tramandavano certi vasi detti buccheri, sottili e fragili, senza vernice, dai quali forse ha preso nome il color rosso cupo; ma i più apprezzati erano di un nero lucente. Codesti vasi furono portati in Europa dall'America meridionale la prima volta dai Portoghesi e servivano per bervi entro e per farvi bollir profumi e acque odorose, poi se ne utilizzavano i frantumi nel modo descritto.
Ora, tornando al bucchero, vi fu un tempo che, come ora la Francia, era la Spagna che dava il tòno alle mode, e però ad imitazione del gusto suo, al
Vi raccomando molto la conserva di pomodoro fatta in questa maniera, perchè vi sarà di gran vantaggio nella cucina; però meglio di questo è il sistema detto preparazione nel vuoto, mediante il quale si conservano freschi ed interi i pomodori in vasi di latta. A questa piccola industria, che dava saggio di buona riuscita in Forlì, ove erasi iniziata, auguravo prospera sorte; ma ohimè che nacque un guaio! Il Fisco le saltò subito addosso con una tassa, e il povero industriale mi disse che pensava di smettere.
sistema detto preparazione nel vuoto, mediante il quale si conservano freschi ed interi i pomodori in vasi di latta. A questa piccola industria, che dava
Mi ricordo che viaggiai una volta con certi Fiorentini (un vecchietto sdentato, un uomo di mezza età e un giovine avvocato) che andavano a prender possesso di una eredità a Modigliana. Smontammo a una locanda che si può immaginare qual fosse, in quel luogo, quaranta e più anni sono. L'oste non ci dava per minestra che tagliatelle, e per principio della coppa di maiale, la quale, benchè dura assai ed ingrata, bisognava vedere come il vecchietto si affaticava per roderla. Era però tale l'appetito di lui e degli altri che quella e tutto il resto pareva molto buono, anzi eccellente; e li sentii più volte esclamare: — Oh se potessimo portarci con noi di quest'aria a Firenze! Poichè siamo in questi paraggi, permettetemi vi racconti che dimorava a Firenze, al tempo che correvano i francesconi, un conte di Romagna, il quale, facendo il paio col marchese di Forlimpopoli del Goldoni, aveva molta boria, pochi quattrini e uno stomaco a prova di bomba. Eran tempi in cui si viveva con poco a Firenze, che fra le città capitali, andava famosa per buon mercato. C'erano parecchie trattorie coll'ordinario di minestra, tre piatti a scelta, frutta o dolce, pane e vino per una lira toscana (84 centesimi). Quelle porzioni, benchè piccole, pure sfamavano chiunque non fosse allupato, e frequentavano tali trattorie anche i signori; ma il conte in queste non si degnava. Che industria credete ch'egli avesse trovato per figurare e spender poco? Andava un giorno sì e un giorno no alla tavola rotonda di uno de' principali alberghi ove con mezzo francescone (lire 2,80) il trattamento era lautissimo, e là, tirando giù a strame, s'impinzava lo stomaco per due giorni facendo dieta in casa, il secondo, con pane, cacio ed affettato. Siavi di esempio e di ricetta.
dava per minestra che tagliatelle, e per principio della coppa di maiale, la quale, benchè dura assai ed ingrata, bisognava vedere come il vecchietto
Preparazione — Si spremono in un pannolino di bucato, raccogliendone il succo, e gettando via i granelli che rimangono addietro. Per ogni libbra da gr. 12, di succo, occorrono gr. 14 di zucchero in pane ridotto a pezzetti. Tutt'assieme si pone in vaso di rame ben stagnato, e si mette a fuoco ardente di carboni sopra fornello, avvertendo di schiumare la miscela prima che bollisca. Si continuerà il bollore per mezzo quarto d'ora; indi ritirata dal fuoco la casseruola si dimena il composto con un cucchiaio d'argento o di legno sinchè abbia acquistato la temperatura del latte appena munto. Allora si mette in una bottiglia di vetro netta e bene asciutta, la quale poi si tura bene, e si conserva in luogo fresco ed asciutto. Esperimentato da me con'ottimo esito, eccone alcuni ulteriori dettagli per opportuna norma. Lamponi libbre grosse 4 da gr. 28, diedero libbre grosse due ed un quarto di succo limpido passato per pannolini, sicchè oncie 63. Calcolai dunque 5 libbre di succo, e vi posi libbre 6. di zucchero in pane a pezzetti il che dava approssimativamente la proporzione indicata di gr. 14 di succo per ogni oncie 12, di zucchero. In una zuppiera di terraglia lasciai la mistura sino all'indomani. Allora lo zucchero era soltanto nella maggior parte disciolto. Nondimeno posi la mistura in una casseruola ben pulita e stagnata, sopra fornello con fuoco vivo di carboni. Rimenando sempre, cominciò ad alzarsi una schiuma rossa, che levai di mano in mano con una schiumarola.
succo limpido passato per pannolini, sicchè oncie 63. Calcolai dunque 5 libbre di succo, e vi posi libbre 6. di zucchero in pane a pezzetti il che dava
Gli antichi abitatori della terra, nel grano non vedevano che un alimento simile agli altri frutti che abbondantemente loro dava la terra, ma coll'andar del tempo trovarono il modo di ridurlo in farina e questa mangiavano disciolte nell'acqua.
Gli antichi abitatori della terra, nel grano non vedevano che un alimento simile agli altri frutti che abbondantemente loro dava la terra, ma coll
Il Tartufo è il tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon' ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui camelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Le conquiste, le emigrazioni ed il comercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinaro la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, ch'egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un'escremento della terra, vitium terrœ. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gênègès, ossia figli della terra e degli Dei. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di alcune radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa — chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo 2000 anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia la notizia, e Micheli pochi anni dopo ne dava il disegno. Ammessi i semi, naque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale, fu sostenuta tra gli altri dal Milanese Vittadini (Monographia tuberculorum. Milano 1831). «Se volete dei tartufi seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo dal Conte de Gasparin riassume l'esperienza di oltre 60 anni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers, il fatto allora paradossale della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta ad un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare, che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'Ilex, la Peduncolata, la Ruber (rovere).
Micheli pochi anni dopo ne dava il disegno. Ammessi i semi, naque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero
Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne colla fermentazione un liquore inebriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. II calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma lavorati si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica, chiamata perciò delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Zenofonte nel 2° libro della spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d'allora si candivano perchè i freschi eran fin d'allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca.
, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. E questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie
Il Cotogno è pianta indigena, a foglia caduca, originaria dalla Grecia. Vuol terreno sciolto, fresco, clima caldo, teme il vento. Si propaga per barbatelle, semi, tallee. Conta poche varietà: il comune, o cotogno di China (Cydonia Sinensis) a frutto piriforme ed oblungo molto grosso — ed il cotogno di Portogallo (C. lusitania) che è il migliore. In Aprile e Maggio, dà grandi fiori bianchi o di un rosso pallido. Frutti gialli in Ottobre. Nel linguaggio delle piante: Fastidioso. La cotogna, è frutto grosso come una mela ordinaria, carnoso, giallo anche nella polpa, di odore penetrante, che facilmente comunica agli oggetti vicini e sì forte che non si può, senza incomodo, tenerlo nelle camere d'abitazione. À sapore sì astringente ed agro, che è impossibile mangiarlo crudo, lo perde però colla stagionatura, coll'essicazione, colla cottura ed allora aquista un gusto molto aggradevole. Cotonea cocta soaviora, disse Plinio. Questo frutto non dura molto. Si condisce, se ne fa sciroppo, ed una pasta nota sotto il nome di cotognata, chiamata dal Palladio Cydonitem, e di uso volgare nelle affezioni cattarali di petto. Entra nella mostarda. Un buon credenziere li serve in mille maniere, li coce nell'aqua, nel vino, li abbrustolisce sotto le ceneri, ne fa torte pasticci ed offelle. À virtù astringente. Da' suoi semi ovali, accuminati, se ne cava una mucilagine, che Pareira chiamò cidonina, che la medicina adopera internamente a mitigare i dolori delle fauci e dell'esofago prodotti da qualche acre corrodente sostanza — esternamente a modo di collirio nelle infiammazioni delle palpebre congiuntive — questa mucilagine à virtù analoghe alla glicerina. I parucchieri la vendono molto cara, sotto il nome di bandoline per lisciare e fissare i capelli. Il suo nome Cydonia da Cydon città dell'Isola di Creta, fondata da Cidone, figlio di Apolline. Venne in Italia dalla Grecia, dove era celebre per la grossezza, e Catone fu il primo che la chiamò cotonea. Teofrasto e Plinio ne parlano coll'aquolina in bocca, anzi Plinio insegna a cocerli nel miele. Galeno e Paolo Egineta lo magnificano come migliore delle poma, e non solo gli decretano summam auctoritatem in mensis, et culinis , ma anche come medicamentum. Al tempo di Galeno erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato, si dava alla cotogna, il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla
L'orto è quello spazio di terreno chiuso, in campagna od in città, ove nascono e crescono le piante fruttifere, ma più propriamente le verdure e le civaje. Il suo nome, pervenutoci dal greco orthos, o dal latino orior, è dal nascervi dentro i semi e dalla sue posizione preferita ad oriente. Si vuole, che il primo che costrusse l'orto, fosse Epicuro in Atene, dove, come nota Laerzio, teneva scola ed insegnava con molta licenza, rimproveratagli da Cicerone nel trattato De natura Deorum. Ma è a notarsi, che fin dalla più remota età, era il costume de' grandi orti nelle città celebratissimi. Tali gli Esperidi, gli Alcinoi, quelli di Jerone, Adone, Attalo, quelli pensili, di meravigliosa arditezza a Babilonia, attribuiti a Semiramide, ed a Siro, re degli assiri. Simili orti erano chiamati dai greci paradisi, dal vocabolo caldeo pardes, e pomaria e viridaria dai latini. La Bibbia ci parla del paradiso terrestre, ove il Creatore pose i nostri primi parenti, il quale, e per bellezza dei frutti e per lusso di vegetazione era appunto un orto. Vi vengono ricordati gli orti di Salomone, del re Accab, Ocozia, Manasse, che vi volle essere se sepolto (Reg., c. 21, v. 18), di Assuero, che nell'orto dava i suoi famosi conviti. Nel Nuovo Testamento è pure menzionato l'orto degli Ulivi, e il Redentore che comparì la prima volta, resuscitato, a Maddalena, in figura d'ortolano. E, passando alla storia profana, Epicuro filosofava nell'orto, Teofrasto legò il suo orto, perchè servisse di scola, Apollonio Teaneo, a gratificare il suo precettore Erixemo, donogli un bellissimo orto. La prima letteraria adunanza, fu nell'orto d'Accademo, dal quale Accademia fu detta, e il nome pervenne fino a noi. Nè vo' tacere dell'ortolano Abdolamino, che appunto per tale sua qualità, fu fatto re dei Sidoni. Pressoi Romani, una brava ortolana, si teneva in concetto di bona ed economa madre di famiglia.
'orto dava i suoi famosi conviti. Nel Nuovo Testamento è pure menzionato l'orto degli Ulivi, e il Redentore che comparì la prima volta, resuscitato, a
Il suo nome dal greco Daucus che vuol dire bruciare, perchè i semi della carota si ritenevano molto riscaldanti. Vuolsi originaria dalle sponde del Mar Rosso. Nel linguaggio dei fiori: bontà. È una radice indigena annuale succosa, carnosa. Oltre la selvatica, abbiamo la varietà bianca, rossa, violacea e gialla. Da noi specialmente si coltiva la rossa e la gialla, ma la più stimata di tutte è la bianca o moscatella, che sembra essere lo Staphylinos di Galeno e di Dioscoride. vuole terreno grasso e lavorato. Si semina alla fine di marzo, e il seme à virtù produttiva fino ai 5 anni e più. In ottobre e novembre si raccolgono le radici e si custodiscono entro la sabbia per gli usi domestici, oppure si lasciano nel terreno, purchè ben esposto e difeso dal gelo. Nella seguente primavera si ottiene la semente. In Inghilterra e nel napoletano si coltiva in grande anche per foraggio ai cavalli. La carota è una verdura ricca di amido e di zuccaro, che dà un cibo sano ed aromatico, che ingrassa. Piccola o grossa, fresca o conservata, la carota è sempre sana, agisce direttamente sul fegato ed è di aiuto a conservare la bella ciera. Il Tanara, vuole che la parola carota venga dal latino caro optala, o da caro radix, perchè cotta in brodo nutrisce come la carne. Si fa cuocere colle carni per dar loro sapore, si mescola in molti intingoli, allegra la busecca milanese, serve di letto alle salsiccie, è la sorella, direi quasi la gemella, del Sedano: dove va l'uno, va quasi sempre anche l'altra. Si fa cuocere in acqua e brodo, tagliata a fettuccie, si condisce col burro ed è eccellente piatto di verdura, si mangia in insalata. Colla sua polpa se ne fanno puree e torte, entra in molte salse. Le foglie verdi servono ad allontanare le cimici, mettendole nel pagliericcio o strofinando con esse le lettiere. La carota infusa nell'alcool dà un liquore nominato Olio di Venere. Se ne può cavare un'acquavite migliore di quella dei cereali. I suoi semi sono aromatici e lievemente stimolanti. In Inghilterra se ne fa un grato infuso teiforme. Nel nord della Germania sono usati nella fabbricazione della birra, le danno maggior grazia e forza. Gli Arabi li adoperano per fare buon alito e ritengono che il loro aroma rafforzi le gengive. Plinio e Dioscoride dicono che la carota mette appetito. Fin dall'antichità si dava ai convalescenti. Areteo lo consigliava nell'elefantiasi. Più tardi ne usarono i medici contro il cancro e le ulceri, nell'asma, nella bronchite, fino nella tisi. È rimedio volgare nelle scottature. Esternamente, la polpa si usa raschiata cruda: internamente, il roob, lo sciroppo. In Turchia se ne preparano col suo succo biscotti e pane in polvere per i bambini.
e Dioscoride dicono che la carota mette appetito. Fin dall'antichità si dava ai convalescenti. Areteo lo consigliava nell'elefantiasi. Più tardi ne
Il Dattero, o Dattilo, è il frutto della palma oriente, albero sempre verde della Barberia, Egitto, Giudea, Siria, America meridionale e di molte parti dell'Africa. È diritto, arriva fino ai 40 metri d'altezza, e talvolta all'età di 200 anni e può portare più di 100 chilogrammi di frutto. Il suo legno è amaro e il frutto dolce. Da noi è pianta da serra calda. Si propaga per semi, che con molto calore nascono dopo 6 settimane. Non dà frutti che dopo moltissimi anni. Il suo nome dal greco Dactulos, dito, perchè questo frutto rassomiglia l'ultima falange delle dita. Nel linguaggio delle piante significa: Riconciliazione. Le sue bacche, i frutti nocciolosi oblunghi, che danno le sue sommità, sono quelli che noi chiamiamo datteri. Si mangiano freschi e secchi — i freschi sono meno sani. A noi pervengono essicati e a bon mercato. È frutto saporito e di facile digestione, da dessert quaresimale. I migliori sono quelli d'Alessandria d'Egitto. Si condisce dai confetturieri — serve a fare uno sciroppo zuccherino e a prepararne, colla fermentazione, un liquore inebbriante, una specie di nettare o vino che una volta in Oriente era riservato ai soli sovrani. In Oriente il dattero è condimento di pane, e cibo ai quadrupedi. Coi semi torrefatti del dattero, si prepara un caffè in Francia, che per la sua innocenza può collocarsi al limbo. In medicina è adoperato come pettorale, raddolcente. Bonastre ottenne dai datteri, succilaggine, gomma, zuccaro e albumina. Il midollo della palma si mangia come un ghiotto boccone. Il calice dei fiori è adoperato come vaso da bere. I rami della palma, lavorati, si distribuiscono coll'ulivo, nella domenica chiamata delle Palme, in ricordanza dell'entrata trionfale del Salvatore in Gerusalemme. Le sue foglie servono a fabbricare corde, gomene, stuoje, cesti, ecc. In Spagna e Sicilia avvi la palma, ma in proporzioni molto modeste e i suoi frutti non riescono mai o quasi mai a maturanza. È questa la Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla Paolo Egineta e Senofonte nel 2.° libro della Spedizione di Ciro, che li cita come un cibo divino, riservato ai soli ricchi. Molti soldati di Alessandro il Grande ci avevano lasciata la pelle per averne fatto delle pelli. Fino d' allora si candivano perchè i freschi eran fin d' allora ritenuti indigesti e nocevoli ai denti — tanto che appena mangiato, si sciaquava la bocca. Dei datteri si dice:
Palma che si dava ai vincitori delle battaglie — è di questa che ancor oggi corre il detto: Avere la palma, conquistare la palma. Del dattero ne parla
I Fenici ne facevano pane e furono i primi che lo introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far pane (Ezech.). Gli scrittori greci e latini la raccomandavano come cibo gratissimo ai giumenti. Varone e Columella ne parlarono, ma mai come di cosa idonea al cibo dell'uomo. I Latini presero il nome di Faba dai Falisci, popolo dell'Etruria, abitanti a Falerio, oggi Montefiasco. Essi la chiamavano Haba e poi, per corruzione, i Latini Faba. Da faba venne pure la parola fabula, ad indicare una cosa gonfiata, onde fabula, una piccola balae fabarii i cantori, perchè questi mangiavano le fave ad irrobustire la voce, e cantavano delle frottole. Ermolao Barbaro scrive che a' suoi tempi nell'Insubria e nella Liguria i venditori di fava andavano gridando per le strade: bajana, bajana! donde forse derivò a noi il nome di bagiana. Nel Veneto, ai Milanesi si dava l'epiteto di bagiani, che da noi significa babbei. Fino dalla antichità la fava serviva nei comizi per la votazione. La bianca era segno di assoluzione, la nera di dannazione, teste Plutarco. Da qui, ne venne che la parola fava servisse per dire suffragio, voto ed anche favore. Pitagora diceva essere proibito mangiar le fave — cioè vendere i voti. Oh! quante fave mangiano i deputati! Vogliono inoltre che Pitagora proibisse la fava, perchè insegnando che le anime dei trapassati trasmigrano nei corpi degli animali, e come nella fava trovandosi spesso dei vermi, temeva che i suoi scolari mangiassero i parenti o gli amici loro. Ed era tanta la sua eloquente filosofia, che la storia ci tramanda, che il suddetto Pitagora, persuase perfino un bue a sortire da un campo di fave. Il che però, secondo i mormoratori di quei tempo, non impedì a Pitagora di cibarsene lui e di dover morire appunto in un campo di fave.
I Fenici ne facevano pane e furono i primi che lo introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani
di orzo. Nella Grecia era celebre l'orzo di Atene dove era in antichissimo uso di cibo, al dire di Meandro e pare che fosse pure l'alimento più omogeneo dei gladiatori, i quali forse per ciò venivano chiamati Hordearii. Presso i Romani non godette molta fama. Es hordearium, veniva chiamato il foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominia; causa. Marcello diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano il pane d'orzo diventavano imbecilli. Nella Sacra Scrittura l'orzo è pure ritenuto come cibo ignominioso e da poco. L'orzo, il miglio e la veccia sono pressochè sempre messi insieme (Isaia). Ezechiele, parlando dei falsi profeti dice:
foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominia; causa. Marcello diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento
Al tempo di Galeno, erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato si dava alla cotogna il privilegio di regalare figliuoli di genio, di guarir dalla scrofola, e alla sua radice di far scomparire il gozzo.
Al tempo di Galeno, erano celebri i cotogni della Soria e dell'Iberia. Nel bon tempo passato si dava alla cotogna il privilegio di regalare figliuoli
. Sviluppa fìattulenze fetide ed acri rinvii. Sono da preferirsi i piccoli e giovani, perchè più teneri e meno acri. Erano celebri i ramolacci di Delfi, ove si mangiavano anche cotti. Democrito li condannava. In Egitto, dove erano saporitissimi, suavitate praecipui, si mangiavano aspersi di nitro. Nel tempio d' Apollo, gli antichi offrivano il ravanello d'oro, cui si dava la preferenza, la bieta d'argento e la rapa di piombo. Campegio Sinforiano, uomo sapientissimo, dell'epoca delle Crociate, dice che i più grossi, al suo tempo, erano quelli di Germania. Che i ramolacci sieno indigesti, viene attestato anche da Cornelio Celso, che scrive:
. Nel tempio d' Apollo, gli antichi offrivano il ravanello d'oro, cui si dava la preferenza, la bieta d'argento e la rapa di piombo. Campegio Sinforiano
Il tartufo è un tubero dalla superficie oscura e scabra, dall'interno chiaro e scuro, a seconda della qualità, dall'odore aromatico, dal sapore superlativamente ghiotto. Nel linguaggio delle piante: Tesoro. La storia del tartufo è d'una antichità pressochè biblica. Ma, concesso pure che i Dudhaïm portati a Lia dal figlio Ruben non fossero tartufi, come pretendono Carduque e Daniel, è certo che gli Orientali, nelle loro regioni sabbiose, ànno conosciuto di bon'ora il tartufo del deserto, quello che i Siri di Damasco, al dire di Chabreus, trasportavano sui cammelli e che è ancora, per gli Arabi dell'Algeria, un cibo ricercato. Questo squisito tubercolo compariva già fra le più prelibate ghiottonerie dei Faraoni. Le conquiste, le emigrazioni ed il commercio ne estesero l'uso ai Greci e poi ai Romani. Aristotile e il suo discepolo Teofrasto, tre secoli avanti l'êra volgare, divinarono la sua natura vegetale e autonomica, anzi quest'ultimo dice, che a Mitilene crescevano per le inondazioni del Tiaris, che vi portava le sementi di queste produzioni sotterranee, eh' egli chiama mysi. Plinio, eco dei pregiudizii del suo tempo e di quelli di Plutarco, racconta che Laerzio Licinio Pretore di Spagna, in Cartagine si ruppe gli incisivi masticando un tartufo che conteneva una moneta e chiama il tartufo un bitorzolo, un escremento della terra, vitium terrae. E per molto tempo, suffragante la dottrina di Galeno, indusse l'errore, che i tartufi fossero l'effetto dell'azione combinata degli elementi e del tuono, e si chiamavano gènègès, ossia figli della terra e degli Dei. Et faciunt lautas optata tonitrua coenas, cantava dei tartufi il Poeta d'Aquino. Una serie di spropositi accompagnarono il tartufo attraverso il Medio Evo fino a noi. Chi lo chiamò un fungo, chi asserì fosse una certa tuberosità di certe radici, chi la trasudazione degli alberi, chi fosse una specie di galla, di muffa, chi infine insegnò fosse un prodotto del morso di certe mosche od insetti su organi vegetali. Non fu che dopo duemila anni e coll'aiuto del microscopio, che gli scienziati giunsero a persuadersi che il tartufo è un vegetale vivente di vita propria, e che possiede grani, o semi vitali di riproduzione. Claudio Geoffroy nel 1711, fu il primo a darne all'accademia delle scienze in Francia, la notizia, e Micheli, pochi anni dopo, ne dava il disegno. Ammessi i semi, nacque naturalmente l'idea di ottenerne la riproduzione artificiale. I primi tentativi vennero fatti nel 1756 da Brandley in Inghilterra, dal Conte di Borch nel 1780 in Piemonte, da Bornholz in Germania nel 1825 e verso il 1828 dal Conte di Noè in Francia. La teoria della riproduzione artificiale fu sostenuta tra gli altri dal milanese Vittadini (Monographia tuberculorum, Milano, 1831). «Se volete dei tartufi, seminate delle ghiande di quercia.» Questo aforismo del conte De Gasparin riassume l'esperienza di oltre sessantanni. Nel 1834 un botanico, M. Delastre, fece conoscere al Congresso scientifico di Poitiers il fatto, allora paradossale, della riproduzione artificiale dei tartufi coi semi di quercia. La scoperta è dovuta a un semplice contadino, Gaspare Talon, il cui figlio Ilarione è oggi, grazie ai tartufi, milionario. Il campo della scoperta è in Francia e precisamente la pianura detta di Scilla, vicino a Croagne, ove Scilla sbaragliò del tutto i Cimbri ed i Teutoni, dopo la grande vittoria che Mario aveva riportato su quei barbari nelle vicinanze di Aix. Tale scoperta consiste in ciò, che piantando dei semi di quercia, vale a dire rimboscando di quercie il terreno ove alligna il tartufo, se ne ottiene una periodica e certa raccolta. Del come poi i semi vengono fecondati e nutriti, del come vengono portati, dove si sviluppano, è ancora l'X incognita degli scienziati. Questo solo si sa, che il tartufo nasce, vive e prospera dovunque prospera la vite, ove il terreno è argilloso, calcareo e dove la quercia è la principale vegetazione arborescente del paese. Difficilmente lo si trova fuori del raggio degli alberi, sicchè pare che se non parassita, trovi molto comodo passare la sua vita fra le loro radici. Teme la troppa ombra e l'asciutto. Le sue simpatie sono per la Quercus Alba, la Coccifera o Kermes, l'llex, la Peduncolata, la Ruber (rovere). Ne à però di straforo anche per la noce, pel faggio, la betulla, il cedro, il ginepro, la rosa, il pino silvestre, la pescia (Abies), per il pruno, il biancospino, il sorbo, il carpine (Carpinus betula) e raramente pel castano. Due sorta di tartufi si ànno, l'oscuro ed il bianco. Il primo si vuole sia l'unico, vero tartufo, l'altro il falso tartufo delle sabbie e del deserto. Si vuole ancora che il tartufo sia sempre bianco allorchè non à raggiunto la sua maturanza, e che raggiungendola diventi oscuro. Pare invece sia questione di terreno e di alimentazione, come pure da ciò dipende l'abbondanza o deficienza del suo aroma, che da noi sono più saporiti e delicati i bianchi, degli oscuri.
darne all'accademia delle scienze in Francia, la notizia, e Micheli, pochi anni dopo, ne dava il disegno. Ammessi i semi, nacque naturalmente l'idea di
Timo, dal greco timos, animo, perchè si dava nei deliqui — altri, lo vuole da (thio, sacrificare, perchè si usava nei sacrifici agli dei. Piccolo arbusto perenne, indigeno, originario della Palestina. Nel linguaggio, dei fiori significa: Attività. Ve ne sono ben venti varietà. Si propaga per semi in primavera e meglio per divisione di radici. Il seme à virtù germinatrice per tre anni. Lo si semina per bordure nei giardini, ama bona esposizione, terreno magro ed asciutto. Il timo, detto anche Pepolino, Sermolino, Piperella (Serpyllum), dà piccoli fiori porporini e rosei nella state. Cresce naturalmente nei pascoli, nelle siepi e prati montuosi, à grato profumo, che si marita assai bene a quello delle rose. Il suo nome da Thymiama, profumo, citato in molti luoghi anche della Bibbia. Presso i Greci era l'emblema della forza e del coraggio, teste Dioscoride. Si adopera in cucina per dare aroma alle carni, agli intingoli, ai legumi. È antispasmodico, leggermente riscaldante ed eccitante. Serve nella distilleria per liquori ed aque da toilette. Contiene molta copia d'olio etereo giallo, dal quale si estrasse recentemente un acido detto acido timico, che è preferibile per disinfezioni al fenico, conservando nel suo stato di acido l'aroma della pianta. Il timo è amato dalle capre e dalle api, lo dice Virgilio nell'Egloga 3a:
Timo, dal greco timos, animo, perchè si dava nei deliqui — altri, lo vuole da (thio, sacrificare, perchè si usava nei sacrifici agli dei. Piccolo
Ci mettemmo in giro, il Dottor Ciampini ed io, alla ricerca di un luogo entro terra, ove la ghiaja e la sabbia esposte per lungo tempo al sole, e non bagnate dall'acqua di mare, per lenta combustione, avessero perduto ogni sostanza organica. Trovate in abbondanza queste due materie filtranti, ripetemmo le prove che riuscirono benissimo; il filtro non era più soggetto a putrefazione, e dava un litro di acqua per minuto.»
, ripetemmo le prove che riuscirono benissimo; il filtro non era più soggetto a putrefazione, e dava un litro di acqua per minuto.»
Il suo nome dal greco Daucus che vuol dire bruciare, perchè i semi della carota si ritenevano molto riscaldanti. Vuolsi originaria dalle sponde del Mar Rosso. È una radice indigena annuale succosa, carnosa. Oltre la selvatica, abbiamo la varietà bianca, rossa, violacea e gialla. Da noi specialmente si coltiva la rossa e la gialla, ma la più stimata di tutte è la bianca o moscatella, che sembra essere lo Staphylinos di Galeno e di Dioscoride. Vuole terreno grasso e lavorato. Si semina alla fine di Marzo. In Ottobre e Novembre si raccolgono le radici e si custodiscono entro la sabbia per gli usi domestici, oppure si lasciano nel terreno, purché ben esposto e difeso dal gelo. Nella seguente primavera si ottiene la semente. In Inghilterra e sul napoletano si coltiva in grande anche per foraggio ai cavalli. La carota è una verdura ricca di amido e di zuccaro, che dà un cibo sano ed aromatico, che ingrassa. Si fa cuocere colle carni per dar loro sapore, si mescola in molti intingoli, allegra la busecca milanese, serve di letto alle salsiccie, è la sorella direi quasi la gemella del Sedano: dove va l'uno va quasi sempre anche l'altra. Si fa cuocere in acqua e brodo, tagliata a fettuccie si condisce col burro ed è eccellente piatto di verdura, si mangia in insalata. Colla sua polpa se ne fanno purèe e torte, entra in molte salse. Le foglie verdi servono ad allontanare le cimici mettendole nel pagliericcio o strofinando con esse le lettiere. La carota infusa nell'alcool dà un liquore nominato Olio di Venere. Se ne può cavare un'acquavite migliore di quella dei cereali. I suoi semi sono aromatici e lievemente stimolanti. In Inghilterra se ne fa un grato infuso teiforme. Nel Nord della Germania sono usati nella fabbricazione della birra, le danno maggior grazia e forza. Gli Arabi l'adoperano per fare buon alito e ritengono che il loro aroma rafforzi le gengive. Plinio e Dioscoride dicono che la carota mette appetito. Fin dall'antichità si dava ai convalescenti. Areteo lo consigliava nell'elefantiasi. Più tardi ne usarono i medici contro il cancro e le ulceri, nell'asma, nella bronchite, fino nella tisi. È rimedio volgare nelle scottature. Esternamente, la polpa si usa raschiata cruda-internamente, il roob, lo sciroppo. In Turchia se ne preparano col suo succo biscotti e pane in polvere per i bambini.
'antichità si dava ai convalescenti. Areteo lo consigliava nell'elefantiasi. Più tardi ne usarono i medici contro il cancro e le ulceri, nell'asma
Vicia da Vincia, che si attorciglia. Legume annuale, originario del mar Caspio e della Persia. Vuol terreno argilloso, sostanzioso, a mezzodì. Si semina d'autunno a Febbraio. Due varietà: la invernenga e la marzuola detta Cavallina più piccola. Celebre la fava di Nizza. Nel linguaggio dei fiori: Corbellare. La fava fresca che da noi si chiama Bagiana , si mangia in minestra. Secca si macina e serve anche pel bestiame. La fava è feculenta e flattulenta, deve essere mangiata di rado e tenera. La fava specialmente secca è cibo da carettiere. È il più grosso dei nostri legumi mangerecci. I Fenici ne facevano pane e furono i primi che la introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far pane (Ezech.). Gli scrittori greci e latini la raccomandavano come cibo gratissimo ai giumenti. Varone e Columella ne parlarono, ma mai come cosa idonea al cibo dell'uomo. I Latini presero il nome di Faba dai Falisci, popolo dell'Etruria, abitanti a Falerio, oggi Montefiasco. Essi la chiamavano Haba e poi per corruzione i Latini Faba. Da faba venne pure la parola fabula, ad indicare una cosa gonfiata, onde fabula, una piccola bala — e fabarii i cantori, perchè questi mangiavano le fave ad irrobustire la voce. La fava diede il nome alla famiglia dei Fabi. Ermolao Barbaro scrive che a' suoi tempi nell'Insubria e nella Liguria i venditori di fave andavano gridando per le strade : bajana, bajana! donde forse derivò a noi il nome di bagiana. Nel Veneto ai Milanesi si dava l'epiteto di bagiani, che da noi significa babbei. Fino dalla antichità la fava serviva nei comizi per la votazione. La bianca era segno di assoluzione, la nera di dannazione , teste Plutarco. Da qui ne venne che la parola fava servisse per dire suffragio, voto ed anche favore. Pittagora diceva, essere proibito mangiar le fave — cioè vendere i voti. Oh! quante fave mangiano i deputati! Le galline che mangiano le fave, fanno l' ovo col guscio molto fragile.
ne facevano pane e furono i primi che la introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far
L'Orzo dopo il frumento ed il riso è il cereale che serve più d'ogni altro all'alimentazione dell'uomo. Si crede originario della Palestina e della Siria - si afferma però che fu trovato indigeno in Sicilia. Il suo nome da horreo, per le reste ruvide al tatto. Viene in quasi tutti i terreni, ama però meglio quello sciolto. Sopporta il freddo più della segale, nella Svizzera si coltiva a m. 1900 sul livello del mare. Seminasi in primavera ed autunno. Ve ne sono diverse varietà; se ne coltivano due specie: il volgare e lo scandella, questo per pascolo al bestiame. Del volgare migliore quello di Germania e della Siberia. Colla farina del grano d'orzo se ne fà pane, la si mescola con quella del frumento. Coll'orzo se ne fanno eccellenti, saporite e sanissime minestre. L'orzo mondo, di scelta qualità, precedentemente con meccanico sfregamento arrotondato, chiamasi perlato, e viene preferito a farne pappine alimentari e cataplasmi. Un principio di germinazione altera i principi costitutivi dell'orzo, sì che, mentre aumenta la proporzione dell'amido e zuccaro, diminuisce quello del glutine e dell'ordeina. In questo stato chiamasi orzo tallito, o germinato, che è preferito negli ospedali come base al decotto pettorale. L'orzo è il principale ingrediente e la base della birra. Gli antichi lo chiamano frumento nobilissimo. Gli Etiopi e gli Indi non conobbero altro pane che quello di miglio e di orzo. Nella Grecia era celebre l'orzo di Atene dove era in antichissimo uso di cibo, al dire di Meandro e pare che fosse pure l'alimento più omogeneo dei gladiatori, i quali forse per ciò venivano chiamati Hordearii. Presso i Romani non godette molta fama. Es hordearium, veniva chiamato il foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominiæ causa. Marcello diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano il pane d'orzo diventavano imbecilli. Nella Sacra Scrittura l'orzo è pure ritenuto come cibo ignominioso e da poco. L'orzo, il miglio e la veccia sono pressochè sempre messi insieme (Isaia). Ezechiele parlando dei falsi profeti dice: Et violabant me (cioè Iddio) ad populum meum propter pugillum hordei etfragmen panis. (Ezech.). Di tale opinione è pure S. Gerolamo, vedi In Isaiam. Lo stesso S. Gerolamo asserisce aver visto in Siria un'eremita che visse trent'anni con orzo ed acqua sporca. Galeno ne scrisse lungamente in un libro tutto dedicato al decotto: De Phtisana hordacea.
godette molta fama. Es hordearium, veniva chiamato il foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominiæ causa. Marcello
Mi ricordo che viaggiai una volta con certi Fiorentini (un vecchietto sdentato, un uomo di mezza età e un giovine avvocato) che andavano a prendere una eredità a Modigliana. Smontammo a una locanda che si può immaginare qual fosse, in quel luogo, trenta e più anni sono. L'oste non ci dava per minestra che tagliatelle, e per principio della coppa di maiale, la quale, benchè dura assai ed ingrata, bisognava vedere come il vecchietto si affaticava per roderla. Era però tale l'appetito di lui e degli altri che quella e tutto il resto pareva molto buono, anzi eccellente; e li sentii più volte esclamare: oh se potessimo portarci con noi di quest'aria a Firenze!
una eredità a Modigliana. Smontammo a una locanda che si può immaginare qual fosse, in quel luogo, trenta e più anni sono. L'oste non ci dava per
Ora, tornando al bucchero, vi fu un tempo che, come ora la Francia, era la Spagna che dava il tono alle mode, e però ad imitazione del gusto suo, al declinare del XVII secolo è al principio del XVIII, vennero in gran voga i profumi e le essenze odorose. Fra gli odori il bucchero infanatichiva e tanto se ne estese l'uso che perfino gli speziali e i credenzieri, come si farebbe oggi della vainiglia, il cacciavano nelle pasticche e nelle vivande. Donde si estraeva questo famoso odore e di che sapeva? Stupite in udirlo e giudicate della stravaganza dei gusti e degli uomini! Era polvere di cocci rotti e il suo profumo rassomigliava a quello che la pioggia d'estate fa esalar dal terreno riarso dal sole, odor di terra infine che tramandavano certi vasi detti buccheri, sottili e fragili, senza vernice, dai quali forse ha preso nome il color rosso cupo; ma i più apprezzati erano di un nero lucente. Codesti vasi furono portati in Europa dall'America meridionale la prima volta dai Portoghesi e servivano per bervi entro e per farvi bollir profumi e acque odorose, poi se ne utilizzavano i frantumi nel modo sopra descritto.
Ora, tornando al bucchero, vi fu un tempo che, come ora la Francia, era la Spagna che dava il tono alle mode, e però ad imitazione del gusto suo, al