Moltissimi fanno distinzione dalla, Pollarda, alla Pollanca, perchè suppongano, che la prima abbia principiato a far l'uovo, e che la seconda non l'abbia fatto ancora. Io però credo, che il nome di Pollarda sia derivato dal Francese; mentre nel nostro idioma il suo vero nome è Pollanca; onde descriverò questo genere di pollo, col nome di Pollanca, e non di Pollarda. Per conoscere dunque una Pollanca giovane, che ordinariamente principia nel mese d'Aprile, bisogna che le zampe siano di un bigio chiaro, molto liscie, e unite, e la punta del petto non indurita, ovvero ossata, ma bensì tenera, e flessibile, la pelle fina, e bianca; sul finire della stagione le Pollanche divengono vecchie ciò che rende la loro carne rossastra, e bigia. Si conosce facilmente quando vogliono abbioccare, osservandole sull'ano, allora la loro carne è coriacea, e secca. Le galline, che s'impiegano per i brodi devono essere freschissime, quelle poi che si vogliono mangiare, devono essere infrollite al loro punto, come tutti gli altri Polli. Si può far uso dei petti delle galline del brodo, per fare dei Culì alla Rena, ed altre cose simili. Le Pollanche in molte Città d'Italia s'ingrassano con riso cotto con latte, o farina d'orzo impastata con latte, ciò che le rende di un sapore, o di un gusto squisito, assai delicato, e di una bianchezza sorprendente. Anche in molte cucine d'Ambasciatori, e Principi grandi si tiene un uomo espresso per ingrassare i Polli. Le picciole uovette nonnate delle Galline, sono molto utile nella buona cucina, per fare Guarnizioni, e Ragù; i Galli li credono ottimi per mettere nel Consomè.
flessibile, la pelle fina, e bianca; sul finire della stagione le Pollanche divengono vecchie ciò che rende la loro carne rossastra, e bigia. Si
I Francesi appellano Pernice rossa, e Pernice bigia, ciò che noi chiamiamo ordinariamente Pernice, e Starna. La prima è un poco più grossa della seconda, e credesi di un miglior sapore Le primizie di questi Uccelli principiano ad essere buone per servirle sulle Mense nel mese di Luglio,e di Agosto, allorchè hanno acquistato una certa grossezza. Per distinguere i Perniciotti, e Starnotti, allorchè sono divenuti grossi, dalle Starne, e Pernici quando sono divenute vecchie, osservate che lo Starnotto deve avere l'ultima penna dell'ala puntuta, le zampe bigie, ed il becco nero. Il Perniciotto si conosce alla medesima penna puntuta, nell'estremità della quale evvi un poco di franco. La Pernice l'ha rotonda, e priva di detto bianco. Veggasi la gran corelazione che passa fra questi Uccelli, le loro qualità, e proprietà, nel Dizionario degli Alimenti, Vini, e Liquori, che verrà alla luce alla fine di quest'opera.
quando sono divenute vecchie, osservate che lo Starnotto deve avere l'ultima penna dell'ala puntuta, le zampe bigie, ed il becco nero. Il Perniciotto si
Antrè = Si possano servire i Perniciotti come le Pernici, allorchè queste ultime sono giovani e tenere; mentre quando sono divenute vecchie non sono buone che in Pasticcio rifreddo, in Adobbo, e per Brodi. Alcuni le fanno cuocere alla Bresa per indi servirle con qualche Salsa; ma oltre che bisogna farle bollire cinque o sei ore, alla fine non vagliono niente. Le Pernici giovani e tenere ed anche i Perniciotti, li potete cuocere alla Bresa o lardati per traverso di lardelli di prosciutto, o lardo e prosciutto, ovvero senza; ripiene di un Ragù di animelle, tartufi, il loro fegato, erbe fine, lardo rapato, butirro etc. oppure senza ripieno, con fette di lardo sotto e sopra, un pezzo di prosciutto, mezzo bicchiere di vino di Sciampagna bollente, o altro vino bianco, un mazzetto d'erbe diverse, poco brodo, due scalogne, fette di cipolla, di carota, e di panè, sale, pepe sano, coprite con un foglio di carta; fate cuocere con fuoco sotto e sopra. Quando saranno cotte, scolatele, e servitele con qualunque Ragù, Salsa, o Guarnizione. Le Salse le trovarete nel Tom. IV. Cap. I. I Ragù, e Guarnizioni nel Tom. I. Cap. I. All'articolo delle Terrine Cap. IV. averò occasione di parlare ancora delle Pernici.
Antrè = Si possano servire i Perniciotti come le Pernici, allorchè queste ultime sono giovani e tenere; mentre quando sono divenute vecchie non sono
Antremè Rifreddo = Abbiate delle Pernici, o Starne, la quantità che vi bisognano; le vecchie saranno ottime da mettere in Pasticcio, sventratele, trussatele colle coscie nel corpo, battetegli il petto, fatele rinvenire sopra un fornello ardente, spilluccatele bene, nettatele, e rompetegli le coscie, acciò non torpischino nel Pasticcio, lardatele di lardelli di lardo conditi con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere, farsitele con i loro fegati triti, mescolati con lardo rapato, sale, e spezie fine. Dirizzate il Pasticcio, metteteci nel fondo circa due dita di lardo pestato e condito come per il Pasticcio di Manzo pag. 67., poneteci negli angoli de' tartufi freschi interi e mondati, e de' pezzi di mongara lardati egualmente; condite sopra con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere; ovvero in luogo de' pezzi di mongana, copritele con fette sottili di mongana, e condite nello stesso modo; coprite con fette di lardo, e pezzi di butirro; finite il Pasticcio, fatelo cuocere cinque in sei ore, e servitelo di bel colore rifreddo.
Antremè Rifreddo = Abbiate delle Pernici, o Starne, la quantità che vi bisognano; le vecchie saranno ottime da mettere in Pasticcio, sventratele
Moltissimi fanno distinzione dalla, Pollarda, alla Pollanca, perchè suppongano, che la prima abbia principiato a far l'uovo, e che la seconda non l'abbia fatto ancora. Io però credo, che il nome di Pollarda sia derivato dal Francese; mentre nel nostro idioma il suo vero nome è pollanca; onde descriverò questo genere di pollo, col nome di Pollo, col nome di pollanca, e non di pollarda. Per conoscere dunque una pollanca giovane, che ordinariamente principia nel mese d'Aprile, bisogna che le zampe siano di un bigio chiaro, molto liscie, e unite, e la punta del petto non indurita, ovvero ossata, ma bensì tenera, e flessibile, la pelle fina, e bianca.Si conoscono ancora dalla cresta quando è tenera, e che si lacera con facilità; sul finire della stagione le Pollanche divengono vecchie ciò che rende la loro carne rossastra, e bigia. Si conosce facilmente quando vogliono abbioccare, osservandole sull'ano, allora la loro carne è coriacea, e secca. Le galline, che s'impiegano per i brodi devono essere freschissime, quelle poi che si vogliono mangiare, devono essere infrollite al loro punto, come tutti gli altri Polli. Si può far uso dei petti delle galline del brodo, per fare dei Culì alla Rena, ed altre cose simili. Le Pollanche in molte Città d'Italia, come si è osservato nel principio della Polleria, s'ingrassano con riso cotto con latte, o farina d'orzo impastata con latte, ciò che le rende di un sapore, o di un gusto squisito, assai delicato, e di una bianchezza sorprendente. Anche in molte cucine d'Ambasciatori, e Principi grandi si tiene un uomo espresso per ingrassare i Polli, o colla Plomba, o senza. Vedete pag. 109. Le picciole uovette nonnate delle Galline, sono molto utile nella buona cucina, per fare Guarnizioni, e Ragù; i Galli li credono ottimi per metterenel Consomè.
della stagione le Pollanche divengono vecchie ciò che rende la loro carne rossastra, e bigia. Si conosce facilmente quando vogliono abbioccare
Antrè = Si possano servire i Perniciotti come le Pernici, allorchè queste ultime sono giovani e tenere; mentre quando sono divenute vecchie non sono buone che in Pasticcio rifreddo, in Adobbo, e per Brodi. Alcuni le fanno cuocere alla Bresa per indi servirle con qualche Salsa; ma oltre che bisogna farle bollire cinque o sei ore, alla fine non vagliono niente. Le Pernici giovani e tenere ed anche i Perniciotti, li potete cuocere alla Bresa o lardati per traverso di lardelli di prosciutto, o lardo e prosciutto, ovvero senza; ripiene di un Ragù di animelle, tartufi, il loro fegato, erbe fine, lardo rapato, butirro ec. oppure senza ripieno, con fette di lardo sotto e sopra, un pezzo di prosciutto, mezzo bicchiere di vino di Sciampagna bollente, o altro vino bianco, un mazzetto d'erbe diverse, poco brodo, due scalogne, fette di cipolla, di carota, e di panè, sale, pepe sano, tre garofani, coprite con un foglio di carta; fate cuocere con fuoco sotto e sopra. Quando saranno cotte, scolatele, e servitele con qualunque Ragù, Salsa, o Guarnizione. Le Salse le trovarete nel Tom. I. pag. 64. I Ragù, e Guarnizioni nel Tom. IV. Cap. I. All'articolo delle Terrine Cap. IV. averò occasione di parlare ancora delle Pernici.
Antrè = Si possano servire i Perniciotti come le Pernici, allorchè queste ultime sono giovani e tenere; mentre quando sono divenute vecchie non sono
Antremè Rifreddo = Abbiate delle Pernici, o Starne, la quantità che vi bisognano; le vecchie saranno ottime da mettere in Pasticcio, sventratele, trussatele colle coscie nel corpo, battetegli il petto, fatele rinvenire sopra un fornello ardente, spilluccatele bene, nettatele, e rompetegli le coscie, acciò non torpischino nel Pasticcio, lardatele di lardelli di lardo conditi con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere, farsitele con i loro fegati triti, mescolati con lardo rapato, sale, e spezie fine. Dirizzate il Pasticcio, metteteci nel fondo circa due dita di lardo pestato e condito come per il Pasticcio di Manzo pag. 75., poneteci negli angoli de' tartufi freschi interi e mondati, e de' pezzi di mongara lardati egualmente; condite sopra con sale, spezie fine, ed erbe odorifere in polvere; ovvero in luogo de' pezzi di mongana, copritele con fette sottili di mongana, e condite nello stesso modo; coprite con fette di lardo, e pezzi di butirro; finite il Pasticcio, fatelo cuocere cinque in sei ore, e servitelo di bel colore rifreddo.
Antremè Rifreddo = Abbiate delle Pernici, o Starne, la quantità che vi bisognano; le vecchie saranno ottime da mettere in Pasticcio, sventratele
L'anguilla comune abita le acque dolci; ma per generare ha bisogno di scendere in mare. Questa discesa, che chiamasi la calata, ha luogo nelle notti oscure e principalmente nelle burrascose dei mesi di ottobre, novembre e dicembre, e n'è allora più facile ed abbondante la pesca. Le anguille neonate lasciano il mare ed entrano nelle paludi o nei fiumi verso la fine di gennaio e in febbraio, e in questo ingresso, che dicesi la montata, vengono pescate alla foce de' fiumi in gran quantità col nome di cieche e la piscicoltura se ne giova per ripopolare con esse gli stagni ed i laghi, nei quali, se manca la comunicazione con le acque salse del mare, non si possono riprodurre. Recenti studi nello stretto di Messina hanno rilevato che questo pesce, e i murenoidi congeneri, hanno bisogno di deporre le uova negli abissi del mare a una profondità non minore di 500 metri, e che, a similitudine delle rane, subiscono una metamorfosi. Il Leptocephalus brevirostris che ha l'aspetto di una foglia di oleandro, trasparente come il vetro, ritenuto finora una specie a sè, non è che il primo periodo di vita, la larva di questo essere, che poi si trasforma in anguilla capillare, le così dette cieche le quali quando rimontano i fiumi in cerca delle acque dolci, non sono lunghe mai meno di cinquanta millimetri. Delle vecchie anguille poi, che sono scese al mare, non si sa che ne avvenga; forse restando nella profonda oscurità degli abissi marini, muoiono sotto a quella enorme pressione, o si modificano per adattarsi all'ambiente in cui si trovano. Un'altra singolarità dei murenoidi in genere è quella del loro sangue, che iniettato nel torrente della circolazione dell'uomo è velenoso e mortale, mentre cotto e mangiato è innocuo.
quali quando rimontano i fiumi in cerca delle acque dolci, non sono lunghe mai meno di cinquanta millimetri. Delle vecchie anguille poi, che sono
Da beef-steak parola inglese che vale costola di bue, è derivato il nome della nostra bistecca, la quale non è altro che una braciuola col suo osso, grossa un dito o un dito e mezzo, tagliata dalla lombata di vitella. I macellari di Firenze chiamano vitella il sopranno non che le altre bestie bovine di due anni all'incirca; ma, se potessero parlare, molte di esse vi direbbero non soltanto che non sono più fanciulle, ma che hanno avuto marito e qualche figliuolo. L'uso di questo piatto eccellente, perchè sano, gustoso e ricostituente, non si è ancora generalizzato in Italia, forse a motivo che in molte delle sue provincie si macellano quasi esclusivamente bestie vecchie e da lavoro. In tal caso colà si servono del filetto, che è la parte più tenera, ed impropriamente chiamano bistecca una rotella del medesimo cotta in gratella.
in molte delle sue provincie si macellano quasi esclusivamente bestie vecchie e da lavoro. In tal caso colà si servono del filetto, che è la parte
Mettete al fuoco una caldaja con 15 litri d'acqua, 2 chilogr. di zampe di vitello, 3 chilogr. di manzo nella coscia, due vecchie galline spezzate, una cipolla abbrustolita prima sulla brace, ed un poco di sedano, senza sale. Lasciate bollire a moderato calore per circa 6 ore, schiumando sul principio il brodo, e colate poi questo a traverso un pannolino, nel quale avvolgerete le carni a fine di farne uscire tutto il succo spremendole con forza. Lasciato poscia raffreddare il liquido, toglietene il grasso che si sarà rappigliato alla superficie, e rimettetelo al fuoco con giusta dose di sale, onde farlo nuovamente bollire finchè sia ridotto alla consistenza d'un denso sciroppo, avvertendo intanto di chiarificarlo coll'aggiunta di alcune chiare d'uova, che poi ritirerete colla schiumarola. Allora travasate il brodo in un altro recipiente di rame stagnato o di latta, collocato a bagnomaria, e lasciate consumare per evaporazione sino alla densità d'una conserva. A questo punto versate il contenuto in piccole forme di latta quadrilunghe, unte prima con olio fine, od anco su d'una tavola di marmo levigata, egualmente unta, e lasciate raffreddare: dopo di ciò levate dalle forme il vostro brodo, che avrà preso l'aspetto d'una gelatina alquanto consistente, ovvero tagliatelo in pezzi quadrati se lo avrete versato sul marmo, e fatelo infine disseccare completamente esponendo le tavolette così ottenute al calore di stufa disposte su di una rete metallica intelajata. Quando le vostre tavolette di brodo saranno divenute secche e dure come colla in lastre, mettetele in vasi di vetro ben chiusi, e serbate pei bisogni tenendo i recipienti in luogo asciutto e fresco.
Mettete al fuoco una caldaja con 15 litri d'acqua, 2 chilogr. di zampe di vitello, 3 chilogr. di manzo nella coscia, due vecchie galline spezzate
Il suo nome dall'arabo Kabar, che significa capo, perchè i bottoni dei fiori ànno la figura di piccole teste. Arboscello ramosissimo perenne, originario dall'Asia e venne per primo a Marsiglia, importato da quella colonia greca che la fondò. Dà in maggio e luglio moltissimi e grandissimi fiori bianchi. Il frutto è una bacca uniloculare di forma elittica, lunga un pollice. Da noi vegeta benissimo sulle vecchie mura e tra le rupi dei colli esposte a mezzodì ed anche a settentrione, purchè riparate dai venti. Nel linguaggio dei fiori: Solitudine beata. Nei vasi riesce a stento. Meglio che coi semi, si propaga con rami radicati, mettendoli in qualche crepaccio di muro vecchio e adattandovelo alla meglio con un poco di terra. Rivegeta ogni anno, se si avrà cura di tagliarne i rami al giungere dell'inverno sin presso le radici. Sonvi circa 30 specie di capperi conosciute, molte delle quali coltivate. In Arabia avvene una che cresce fino all'altezza di un albero. In Barbería, nei contorni di Tunisi e nella Provenza, tra Marsiglia e Tolone, se ne fa la coltivazione in grande. Anzi, nelle vicinanze di quest'ultima città, al principio di questo secolo se ne vedevano dei campi interi, e queste pianticelle si chiamavano tapèniers, ed il frutto tapène. Il càpparo di Provenza è superiore a quello di Tunisi. Il càpparo piccolo è il migliore. Tutti conoscono l'uso dei capperi che sono i bottoni dei fiori, ed anche i frutti acerbi, che si lasciano appassire all'ombra per qualche giorno e si mettono nell'aceto poi o nell'acqua salata per condire alcune vivande o farne salse speciali.
bianchi. Il frutto è una bacca uniloculare di forma elittica, lunga un pollice. Da noi vegeta benissimo sulle vecchie mura e tra le rupi dei colli esposte
I libri di cucina pubblicati fino ad oggi ammontano, senza dubbio, ad alcune centinaia. Ma chi volesse tra questa sovrabbondanza di pubblicazioni cercare il «vero» libro di cucina forse non lo troverebbe. Una sola grande eccezione: la «Guide culinaire», di Augusto Escoffier. Il Maestro ha edificato con questa opera un insigne monumento all'arte gastronomica, raccogliendone le più pure tradizioni e coordinandole con grandiosità di linee, demolendo inesorabilmente tutto il vecchiume per gettare le basi di una tecnica moderna perfetta, armoniosa e rispondente alla evoluzione del tempo e alle conquiste che, anche nel vastissimo campo avente con la cucina immediati o mediati riferimenti, si sono verificate. Questa mirabile opera è in lingua francese; ma se la questione della lingua può essere cosa trascurabile, un'altra e più seria difficoltà è presentata dal fatto che la «Guide culinaire» è scritta esclusivamente per i professionisti; e quindi in forma sintetica e con la speciale terminologia tecnica dell'alta cucina. Cosicchè questo trattato, di una preziosa utilità per chi è iniziato alla grande scuola non potrebbe essere consultato con eguale profitto ai fini della cucina domestica. Tra i libri italiani moderni sarebbe vano ricercare qualcosa di simile — un tentativo in grande stile fatto anni addietro dal dott. Cougnet con la collaborazione di professionisti ebbe esito infelicissimo — e d'altra parte è risaputo che i trattati professionali hanno sempre un interesse assai relativo per la limitata cerchia di persone alle quali necessariamente si rivolgono. Una vera pletora c'è invece in quel che riguarda la letteratura gastronomica ad uso delle famiglie. Se volessimo semplicemente enumerare i libri italiani di cucina antichi e moderni del genere, potremmo comporre un interminabile indice bibliografico. Non lo faremo, che è nostra consuetudine non perdere del tempo nè farlo perdere ad altri. Dai librai di lusso alle più modeste cartolerie, dai chioschi delle stazioni ferroviarie ai banchetti volanti che nelle strade o nelle piazze offrono libri d'occasione, troverete volumetti e volumi di cucina dai titoli più promettenti: Re dei cuochi, vero Re dei cuochi, Re dei Re dei cuochi, ecc.: una tale dovizia di cuochi coronati da permettere di estendere il regime monarchico su tutta la superficie di questo nostro vecchio pianeta. Ebbene, in così lussureggiante fiorire di pubblicazioni, non una che insegni a cucinare, perchè o compilate a scopo di bassa speculazione da empirici, che si sono accontentati di ritagliare con le forbici delle ricette senza avere la capacità di esercitare su esse il minimo controllo — vediamo infatti che questo genere di libri non porta quasi mai il nome dell'autore — o, nella migliore delle ipotesi, dovute a professionisti, i quali però avendo non solamente poca pratica con la grammatica e la sintassi, ma nessuna comunicativa, non sono riusciti a farsi comprendere e hanno avvolto le loro ricette in una fitta rete di spropositata nebulosità. Facendo un'accurata selezione di tutta la letteratura gastronomica italiana, rimangono quattro autori degni di considerazione: due antichi e due più vicini ai nostri tempi. I grandi trattati che portano ancora attorno la loro decrepita fastosità sono quelli del Vialardi, cuoco di Carlo Alberto e di Vittorio Emanuele II, e l'altro, di cui fu principale collaboratore il Nelli. Ambedue di ampia mole e dovuti a persone di indiscutibile competenza, poterono forse rappresentare al loro tempo una notevole affermazione. Ma purtroppo essi non rispondono più sia alla evoluzione della cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si parla di petti di fagiani o di pernici, di salse a base di tartufi, di leccornie d'ogni specie presentate su zoccoli monumentali o con difficoltose e dispendiosissime decorazioni, non si può a meno di sorridere, pensando che una sola di queste pietanze assorbirebbe tutto ciò che una famiglia di media fortuna spende in una settimana ed anche più. Rimangono dunque, questi trattati, semplice documentazione di un ciclo culinario esageratamente fastoso, ma oramai conchiuso per sempre. In tempi più recenti, gli autori che si sono divisi principalmente il favore del pubblico sono: Adolfo Giaquinto e Pellegrino Artusi. Il Giaquinto, reputato gastronomo, ha portato con le sue varie pubblicazioni un salutare risveglio nella pratica culinaria, ed è stato un fecondo volgarizzatore della gaia scienza nelle famiglie. Queste pubblicazioni però non sono recentissime, e risalgono ad epoche se non troppo lontane certo più fortunate, quando le famiglie non erano assillate dal problema del caro viveri; ed anche allora, dagli stessi suoi ammiratori, fu rimproverato all'autore una sensibile ed evidente tendenza alla ricchezza di preparazioni che caratterizzava appunto quella cucina di cui il Giaquinto è stato, senza dubbio, apprezzato campione. L'autore che riuscì invece a vendere stracci e orpelli per sete rare e oro fu Pellegrino Artusi, nume custode di tutte le famiglie dove non si sa cucinare. Per taluni tutto ciò che dice l'Artusi è vangelo, anche quando questo ineffabile autore scrive con olimpica indifferenza le sciocchezze più madornali. Anzitutto egli dichiara di essere un dilettante e di aver provato le sue ricette alla sazietà, fino a che gli riuscirono bene, o meglio sembrò a lui che riuscissero tali. Egli fa un edificante preambolo che suona presso a poco così: Guardate, io non so cucinare, tanto vero che i cuochi preparano le ricette che io insegno in un modo completamente diverso. Però dopo una serie di tentativi sono riuscito ad ottenere qualche risultato, ed anche voi, un po' con la mia guida (!), un po' con la vostra pazienza, può darsi che riusciate «ad annaspar qualche cosa». Ed allora vien voglia di chiedere a questo signor Artusi perchè mai, stan[...]
cucina, sia a quei principi di economia e di semplicità che, per forza di cose, si sono imposti alla mensa famigliare. Scorrendo le vecchie pagine, dove si
Il suo nome dall'arabo Kappar. Arboscello ramosissimo, perenne, originario dall'Asia che da Maggio a Luglio dà moltissimi e grandissimi fiori bianchi. Il frutto è una bacca uniloculare di forma elittica, lunga un pollice. Da noi vegeta benissimo sulle vecchie mura e tra le rupi dei colli esposte a mezzodì ed anche a settentrione, purché riparate dai venti. Nel linguaggio dei fiori: Solitudine beata. Nei vasi riesce a stento. Meglio che coi semi, si propaga con rami radicati, mettendoli in qualche crepaccio di muro vecchio e adattandovelo alla meglio con un poco di terra. Rivegeta ogni anno, se si avrà cura di tagliarne i rami al giungere dell'inverno sin presso le radici. Sonvi circa 30 specie di capperi conosciute, molte delle quali coltivate. In Arabia avvene una che cresce fino all'altezza di un'albero. Tutti conoscono l'uso dei capperi, che sono i bottoni dei fiori, ed anche i frutti acerbi che si lasciano appassire all'ombra per qualche giorno e si mettono nell'aceto poi o nell'acqua salata per condire alcune vivande o farne salse speciali. Ai primi freddi si possono raccogliere anche le frondi, farle bollire alquanto all'acqua, acciò perdano l'amaro e ben asciutte accomodarle con aceto e sale e serbarle, come il frutto, per le insalate. Il cappero è rammentato dalla Bibbia nell'Ecclesiaste. Gli antichi gli assegnavano molte virtù e ne usavano per cucina gli Egiziani ed i Romani testi Dioscoride e Plinio. È stimolante e facilita la digestione. In medicina si usa la corteccia della radice e godette già riputazione specialmente nei mali di milza. In Algeria viene usato in decotto contro l'ischiade. Forse là il capparo vi è più attivo che da noi; aveva però già notato Dioscoride che bibitur utilissime in coxarum doloribus. Esternamente la radice contusa e cotta si applica come antisettica, cicatrizzante e stomachica. La scuola di Salerno ci raccomanda: Sit tibi cappàrus solidus rubeus subamarus.
. Il frutto è una bacca uniloculare di forma elittica, lunga un pollice. Da noi vegeta benissimo sulle vecchie mura e tra le rupi dei colli esposte a
La Pastinacca, dal latino pastus, nutrimento, per le sue qualità alimentari è una radice che somiglia la carota, carnosa, bianchiccia, aromatica, biennale. Si semina in Marzo, Aprile, Maggio, in terreno sostanzioso e lavorato profondamente. Ama essere inaffiata d'estate. Si conserva benissimo anche in terra, non teme il gelo. Fiorisce nel Luglio ed Agosto del secondo anno che è stata seminata. Cresce naturalmente nei prati, nei pascoli e tappeti erbosi. Si coltiva negli orti ad alimento. In Italia è poco coltivata. La radice grossa della pastinacca coltivata è saporitissima, si usa cotta in minestra, accomodata col burro ed in insalata. Oltre le radici che sono molto nutritive si mangiano pure le foglie che sono assai buone ed aromatiche. Mérat dice: C' est a notre avis la racine la plus nourissante, celle qui approche le plus de la substance animale sous ce rapport. - Gli Inglesi vogliono che le pastinacche troppo vecchie cagionino il delirio e la follia, onde le chiamano allora Pastinacche matte. Questa gustosissima radice è appunto quella che tagliata a piccoli pezzetti, comunica quel gusto così particolare ed aggradevole che à la Julienne, miscela di vari legumi e verdure disseccate per uso di zuppa che proviene dalla Francia. Se ne fà in Francia una marmellata, che inzuccherata eccita l'appetito, ed è assai propria per i convalescenti. L'imperatore Tiberio amava la pastinacca ed ogni anno ne faceva venire dalla Germania, precisamente da Gelder località renana ove era prelibata, e dove la si pagava come tributo ed imposta. Dioscoride la dichiarò delicata - origratam, ed eccitante l'appetito. Così Plinio ed altri eruditi, la dichiararono utile ai convalescenti e agli ubbriachi - ad vinum transeuntibus. È buon foraggio per le mucche ed il bestiame, ma indebolisce i cavalli e gli asini e fà perdere la vista ai muli.
vogliono che le pastinacche troppo vecchie cagionino il delirio e la follia, onde le chiamano allora Pastinacche matte. Questa gustosissima radice è
a) «I futuristi dichiarandosi contro la pastasciutta e indicando nuovi sviluppi della cucina italiana, non seguono soltanto il lato importante del risparmio nazionale, ma intendono rinnovare il gusto e le abitudini degli italiani. Non si tratta cioè semplicemente di supplire la pasta con il riso, o di preferire un piatto all'altro, ma di inventare nuove vivande. Vi furono nella vita pratica dell'uomo tali modificazioni meccaniche e scientifiche da poter arrivare anche ad un perfezionamento cucinario, ad un'organizzazione di sapori, odori e valori diversi che fino a ieri sarebbero sembrati assurdi, perchè diverse erano anche le condizioni generali dell'esistenza. Si deve cioè, variando continuamente genere di nutrimento e di accordi, uccidere le vecchie radicate abitudini del palato, per preparare gli uomini ai futuri alimenti chimici e forse alla non lontana possibilità di realizzare, per mezzo della radio, una diffusione di onde nutrienti».
, uccidere le vecchie radicate abitudini del palato, per preparare gli uomini ai futuri alimenti chimici e forse alla non lontana possibilità di realizzare
Le vespe cercano di preferenza sopra qualsiasi nutrimento gli alimenti inzuccherati, e fra questi, le frutta mature. Quando si vedono le vespe in gran numero in un giardino fruttifero, si può esser certi che il vespajo non è troppo lontano, e basta fare qualche indagine nei dintorni, nelle sponde dei fossati, nelle screpolature delle vecchie muraglie che sono esposte a mezzodì, che si giunge tosto a scuoprirnelo. Si distruggono però le vespe versando sul vespajo dell'acqua bollente, ovvero introducendovi una miccia di zolfo acceso. Non bisogna però procedere a questa operazione che la sera, un poco innanzi l'annottare, precisamente quando le vespe sono rientrate. Se il nido è in un buco o fessura del muro, un mezzo semplicissimo è quello di impastare gesso o calce e versarli liquidi nel buco; il gesso indurandosi non solo distrugge le vespe, le loro larve ed uova, ma previene, otturando il foro, il ristabilirsi di una nuova colonia.
dei fossati, nelle screpolature delle vecchie muraglie che sono esposte a mezzodì, che si giunge tosto a scuoprirnelo. Si distruggono però le vespe
Le patate lavate vengono messe fino all'orlo in una pentola, che si riempie a metà con acqua fredda, perchè, cotte sotto l'azione del vapore (e a questo scopo s'adoperano degli appositi fondi bucherellati (Fig. 15) Fig. 15. pentola per cuocere patate a vapore , valgono meglio che lessate; vi si mette del sale e comino (Kümmel) e si chiude la pentola con un coperchio addattato. Si lasciano cuocere finchè comincino ad essere tenere (cioè un quarto d'ora per le patate nuove, più di mezz'ora per le patate vecchie) e che od una o l'altra crepoli. Si lascia infine consumare tutta l'acqua ponendo la pentola coperta a parte sul focolaio acciò ne svapori l'umidità. Per alcune pietanze vengono anche pelate crude, raschiandone però soltanto la pelle. Per arrostirle si mettono nel fornello del focolaio economico o in montura sotto la cenere calda.
d'ora per le patate nuove, più di mezz'ora per le patate vecchie) e che od una o l'altra crepoli. Si lascia infine consumare tutta l'acqua ponendo la