Lampreda. — Pesce molto simile nella forma, nel gusto e nella digeribilità all'anguilla. Gli antichi Romani ne facevano uso grandissimo, e non meno di loro anche i papi e i prelati di Roma medioevale. Si dice anzi che questi lo pagassero perfino venti monete d'oro ciascuno e che lo facessero morire affogandolo nel vino di Cipro con una noce moscata in bocca e un fiore di garofano in ogni foro branchiale, dopo di che erano messe in una casseruola con mandorle soppeste ed ogni maniera di aromi. Non era di certo morte evangelica nè cibo atto a sostenere la virtù. Dicesi che in Inghilterra la città di Glocester faccia dono ogni anno nella vigilia del Natale alla regina di un pasticcio di lamprede.
Lampreda. — Pesce molto simile nella forma, nel gusto e nella digeribilità all'anguilla. Gli antichi Romani ne facevano uso grandissimo, e non meno
Il Fagiano è uno de' migliori bocconi, tanto per la delicatezza della sua carne, quanto per che è di un'ottimo, e sano alimento, destinguesi in maschio ed in femina, il maschio è più grosso, più bello, e di un sapore più grato che la femina; devesi sciegliere giovane, grasso, e di buon odore, nè tanto fresco, nò tanto frollo. L'Autunno specialmente è la migliore stagione di mangiarlo, essendo allora più grasso, che in alcun altro tempo. Molti vogliono, che non siavi uccello che abbia un gusto più esquesito del Fagiano, e perciò viene servito sulle migliori mense. Gli antichi Romani ne facevano anche essi gran stima, per la sua delicatezza. Osservasi tutte le prerogative di questo uccello nel Dizionario degli alimenti, Vini e Liquori, che verrà alla luce dopo quest'opera.
facevano anche essi gran stima, per la sua delicatezza. Osservasi tutte le prerogative di questo uccello nel Dizionario degli alimenti, Vini e Liquori, che
Le Gelatine sono egualmente che le Creme di un grande ornamento sulle buone mense, e nel tempo stesso leggiere, rinfrescative, e delicatissime. Nella vecchia cucina si facevano le Gelatine col brodo de' piedi di vitella, o altri brodi di carne; ovvero con corno di Cervo; ma al presente grazie ai progressi della Professione si è trovato che la colla di pesce è assai superiore, si per la sua limpidezza, e leggierezza, quanto che non ha alcun sapore sensibile agli organi del gusto, onde è stata abbracciata da tutti i maestri dell'arte, ed inoltre da chi brama di mangiar bene. In Francia, Inghilterra, e tutti i paesi del Settentrione, fassi un consumo prodigioso di colla di pesce per le Gelatine, che amano con una specie di trasporto specialmente le donne. Chi vorrà per altro servirsi del brodo de piedi, o corno di Cervo, ciò dipenderà dalla volontà.
vecchia cucina si facevano le Gelatine col brodo de' piedi di vitella, o altri brodi di carne; ovvero con corno di Cervo; ma al presente grazie ai
In Roma non si fa grand'uso delle Lamprede, benchè fossero molto stimate in tempo degli antichi Romani, i quali le facevano nutrire nelle vivaje con grandissime spese.
In Roma non si fa grand'uso delle Lamprede, benchè fossero molto stimate in tempo degli antichi Romani, i quali le facevano nutrire nelle vivaje con
Il Fagiano è uno de' migliori bocconi, tanto per la delicatezza della sua carne, quanto perchè è di un ottimo, e sano alimento, destinguesi in maschio ed in femmina, il maschio è più grosso, più bello, e di un sapore più grato che la femina; devesi sciegliere giovane, grasso, e di buon odore, nè tanto fresco, nè tanto frollo. L'Autunno specialmente è la migliore stagione di mangiarlo, essendo allora più grasso, che in alcun altro tempo. Molti vogliono, che non siavi uccello che abbia un gusto più esquesito del Fagiano, e perciò viene servito sulle migliori mense. Gli antichi Romani ne facevano anche essi gran stima, per la sua delicatezza. Fagiano alla Spagnuola.
facevano anche essi gran stima, per la sua delicatezza. Fagiano alla Spagnuola.
Le Gelatine sono egualmente che le Creme di un grande ornamento sulle buone mense, e nel tempo stesso leggiere, rinfrescative, e delicatissime. Nella vecchia cucina si facevano le Gelatine col brodo de' piedi di vitella, o altri brodi di carne; ovvero con corno di Cervo; ma ai presente grazie ai progressi della Professione si è trovato che la colla di pesce è assai superiore, si per la sua limpidezza, e leggierezza, quanto che non ha alcun sapore sensibile agli organi del gusto, onde è stata abbracciata da tutti i maestri dell'arte, ed inoltre da chi brama di mangiar bene. In Francia, Inghilterra, e tutti i paesi del Settentrione, fassi un consumo prodigioso di colla di pesce per le Gelatine, che amano con una specie di trasporto specialmente le donne. Chi vorrà per altro servirsi del brodo de piedi, o corno di Cervo, ciò dipenderà dalla volontà.
vecchia cucina si facevano le Gelatine col brodo de' piedi di vitella, o altri brodi di carne; ovvero con corno di Cervo; ma ai presente grazie ai
In Roma non si fa grand'uso delle Lamprede, benchè fossero molto stimate in tempo degli antichi Romani, i quali le facevano nutrire nelle vivaje con grandissime spese.
In Roma non si fa grand'uso delle Lamprede, benchè fossero molto stimate in tempo degli antichi Romani, i quali le facevano nutrire nelle vivaje con
Agli avventori che capitarono dopo, la prima offerta che in aria di trionfo facevano quei camerieri, era: — Vuol ella oggi un bellissimo tordo? — e qui a raccontar la loro bella prodezza, come fu narrata a me da uno che li aveva mangiati.
Agli avventori che capitarono dopo, la prima offerta che in aria di trionfo facevano quei camerieri, era: — Vuol ella oggi un bellissimo tordo? — e
Raccontavano i nostri nonni che quando, sullo scorcio del XVIII secolo, i Tedeschi invasero l'Italia, avevano nei loro costumi qualche cosa del bruto; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d'acqua a bollore, strizzandone i lucignoli; ma quando nel 1849 sfortunatamente ci ricascarono addosso, furono trovati assai rinciviliti e il sego non era visibile che ne' grandi baffi delle milizie croate col quale li inzafardavano, facendoli spuntare di qua e di là dalle gote, lunghi un dito e ritti interiti. Però, a quanto dicono i viaggiatori, una predilezione al sego predomina ancora nella loro cucina, la quale dagl'Italiani è trovata di pessimo gusto e nauseabonda per untumi di grasso d'ogni specie e per certe minestre sbrodolone che non sanno di nulla. Al contrario tutti convengono che i dolci in Germania si sanno fare squisiti e voi stessi potrete, così alto alto, giudicare del vero, da questo che vi descrivo e dagli altri del presente trattato che portano il battesimo di quella nazione.
; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d'acqua a bollore, strizzandone i
L'illustre poeta dott. Olindo Guerrini, essendo bibliotecario dell'Università di Bologna, ha modo di prendersi il gusto istruttivo, a quanto pare, di andare scavando le ossa dei Paladini dell'arte culinaria antica per trarne forse delle illazioni strabilianti a far ridere i cuochi moderni. Si è compiaciuto perciò di favorirmi la seguente ricetta tolta da un libriccino a stampa, intitolato: L'arte di ben cucinare, del signor Bartolomeo Stefani bolognese, cuoco del Serenissimo Duca di Mantova alla metà del 1600, epoca nella quale si faceva in cucina grande uso ed abuso di tutti gli odori e sapori, e lo zucchero e la cannella si mettevano nel brodo, nel lesso e nell'arrosto. Derogando per questa zuppa dai suoi precetti io mi limiterò, in quanto a odori, a un poco di prezzemolo e di basilico; e se l'antico cuoco bolognese, incontrandomi all'altro mondo, me ne facesse rimprovero, mi difenderò col dirgli che i gusti sono cangiati in meglio; ma che, come avviene in tutte le cose, si passa da un estremo all'altro e si comincia anche in questa ad esagerare fino al punto di volere escludere gli aromi e gli odori anche dove sarebbero più opportuni e necessari. E gli dirò altresì che delle signore alla mia tavola, per un poco di odore di noce moscata, facevano boccacce da spaventare. Ecco la
signore alla mia tavola, per un poco di odore di noce moscata, facevano boccacce da spaventare. Ecco la
I romani, ch'erano ghiotti all'eccesso, facevano soffrire a questi animali le torture più barbare. L'infilzavano con lame infuocate acciocchè il sangue si perdesse nella carne e la rendesse più tenera e delicata. A tavola li servivano spesso per intiero ripieni d'altri animali come tordi, pollami ecc. e tuorli d'uova, carne trita condita col pepe.
I romani, ch'erano ghiotti all'eccesso, facevano soffrire a questi animali le torture più barbare. L'infilzavano con lame infuocate acciocchè il
Potremo moltiplicare all'infinito gli esempi che su i cavoli ci sommistrano le storie, ma ci limiteremo, per amore di brevità ad accennare che al dire di Catone, non vi è malattia in cui i cavoli non riescanno di vantaggio, e conclude che se i Romani hanno potuto per seicento e più anni far senza medici, se hanno potuto sfidare tutti i disagi e le fatiche, se hanno finalmente potuto vivere fra gli stenti, per essere stati scacciati dal loro territorio, dalle loro case, egli è in grazia dell'uso frequente, quasi quotidiano ch'essi facevano dei cavoli.
territorio, dalle loro case, egli è in grazia dell'uso frequente, quasi quotidiano ch'essi facevano dei cavoli.
I forni si cominciarono ad adoperare prima in Oriente, poi man mano si propagarono tanto tanto che nella metà del primo secolo i romani avevano al loro seguito degli schiavi che altro non facevano che impastare ed infornare.
loro seguito degli schiavi che altro non facevano che impastare ed infornare.
Un erudito nelle cose egiziane raccontò in un suo articolo, stampato nel 1898 nella Revue des Revues, che gli Arabi antichi, nomadi come i moderni quando lo possono, prediligevano manicaretti preparati con le carni di cane; cani giovani, tenermi, ben inteso, ma pur sempre cani. E, afferma, lo scienziato moderno, che gli Arabi antichi trovavano quelle vivande squisite, come noi troviamo eccellente un bel cappone grasso. Alle carni di cane facevano seguito quelle di gatto nero, capaci di paralizzare gli effetti del sortilegio; ma un fritto di locuste, o di scorpioni, ed un arrostino di serpenti non temevano rivali. Ma, perchè in taluno non sorga il dubbio, che egli, lo scienziato, ce ne racconti delle marchiane, nel suo articolo chiama a testimone di quanto afferma un naturalista francese del decimo secolo, al quale fa narrare qualche cosa di raccapricciante... Udite! Il naturalista, dunque, erborizzando, capitò un giorno presso la tenda del poeta arabo Roobah e, fattosi innanzi, lo sorprese tutto intento ad assaporare un abbondante arrosto di topi, al quale tenne dietro un intingolo di lucertole.
facevano seguito quelle di gatto nero, capaci di paralizzare gli effetti del sortilegio; ma un fritto di locuste, o di scorpioni, ed un arrostino di serpenti
FEDERICA. — Voi conoscete certamente le opere di Stendhal: Rosso e Nero, La Badessa di Castro, Ricordi di Egotismo, Amicizia amorosa, etc. etc. Era, indubbiamente, il Beyle (perchè si chiamava Enrico Beyle), un uomo di grande ingegno, e di finissima sensibilità. Pure, una scrittrice francese, l'Angelot, racconta che egli, che al tempo in cui era brillantissimo ufficiale di Napoleone, aveva avuto a Roma grandi successi fra le signore dell'alta società del mondo diplomatico, etc., ritornato 30 anni dopo nella Città Eterna trovò che «i tempi eran cambiati»: le donne giovani erano «altere e facevano le virtuose»: le loro madri — diceva Stendhal — erano «molto più simpatiche e accoglienti e cortesi».
facevano le virtuose»: le loro madri — diceva Stendhal — erano «molto più simpatiche e accoglienti e cortesi».
Diconsi forti in dialetto veneto, nel senso cioè, di duri. A Roma diconsi straccaganasse; è un dolce popolarissimo ed antico quanto i bucellati. Si facevano nelle famiglie usando del miele scadente e delle droghe in quantità. I moderni moderano le specie ed usono a preferenza il residuo della chiarificazione dello zucchero (melassa). È un dolce molto igienico e antifermentativo, mancando il zucchero: è indicato oltremodo per i bambini al tempo della dentizione, e per le signore bisognose d'alimentazione frequente nella giornata. Non guastano i denti come gli altri dolci; ma di essi si può veramente dire, che raggiungono... l'utile col dilettevole.
facevano nelle famiglie usando del miele scadente e delle droghe in quantità. I moderni moderano le specie ed usono a preferenza il residuo della
Il Susino o Pruno è una pianta indigena a foglie caduche, originaria dell'Asia. Le qualità migliori seguono il clima della vite. Da noi resiste ovunque all'aperto e sui monti fino a 400 m. Fiorisce a metà Aprile e matura, a seconda delle varietà e posizioni, dal Luglio a tutto Ottobre. Soffre l'ombra, ama terreno fresco, non umido. Si propaga per polloni, ma meglio per nocciolo e per innesto. Infinite le sue varietà, alcune delle quali si consumano verdi ed altre meglio si prestano ad essere essicate. Noto la Mirabella (brugna gialda) che matura alla fine di Luglio. La Damascena, originaria di Damasco portata dal duca d'Anjou al tempo delle Crociate, nome che si corruppe poi in d'amoscina, moscina e volgarmente massina, e da noi per eccellenza la nera (Prunus domestica ungarica). — La Regina Claudia, (brugna Sanclò) grossa e piccola, che matura in Agosto, e la Settembrina ecc. Nel linguaggio delle piante significa: Promessa. Il raccolto delle susine da conservarsi deve farsi delicatamente, a mano, quando sono asciutte dalla rugiada e dalla pioggia. La susina è nutriente quanto il fico, è di facile digestione e costituisce un cibo grato, sì fresca la state, che essicata nel verno. Sotto questa forma ne fanno attivo e proficuo commercio diversi paesi meridionali d'Italia e di Francia. Quelle di Palermo e di Provenza sono le più stimate. Si conciano al giulebbe, servono nei ragouts e nei ripieni delle pollerie, massime del pollo d'India, al quale levano quella certa ruvidezza e selvatichezza di sapore che possiede la sua carne. Si conservano nello spirito, aromatizzato e confettate. In Germania, nella Lorena e nella Svizzera se ne fabbrica alcool, i tedeschi lo chiamano Zwetschker-wasser. Gli Ungheresi Sligowitz e in Transilvania Raki. In farmacia, massime della qualità damascena, se ne fa conserva e polpa, che viene spesso a surrogare, con innocente falsificazione quella dei tamarindi e cassia e che non è meno rinfrescante e lassativa. Serve pure a preparare come ingrediente principale l'elettuario lenitivo, giova agli stitici. Ario morì d'una scorpacciata di susine. Il legno è durissimo e serve agli intarsiatori. La scuola Salernitana, dice: Frigida sunt, laxant, multumque prosunt tibi pruna. Virgilio nell'Egl. 2 le decanta così: Addam cerea pruna et honos erit huic quoque pomo. Dioscoride e Galeno ne magnificano le virtù. Si facevano essicare anche dagli antichi. Fu sempre celebre presso tutti la Damascena.
. 2 le decanta così: Addam cerea pruna et honos erit huic quoque pomo. Dioscoride e Galeno ne magnificano le virtù. Si facevano essicare anche dagli
La Cioccolatta. — (Mil. Ciccolatt. - Fr. Chocolat. - Ted. Schokolate. - Ingl. Chocolate). — Deve il suo nome a Sciocolatl, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta, drogata è più saporita e sana di quella che, ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, oli, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita non si rompe senza naturale sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fà bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte dà un eccellente mistura assai sostanziosa, ma non addatta a tutti gli stomachi e che da noi, si chiama barbajada. dal suo inventore Barbaja, impresario della Scala al principio del secolo. Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice che Antonio Carletti fiorentino fù uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il Padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il Gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù, (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè pro e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa se la facevano servire perfino in Chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il R. Padre Escobar sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè liquida non frangunt. Fu importata nella Spagna verso il 17° secolo e mercè le donne e i frati l'uso ne divenne popolare. Anche oggi in tutta la Penisola si offre la cioccolatta come da noi il caffè. Passa i monti con Giovanna d'Austria. I frati spagnuoli la fecero conoscere a' loro confratelli di Francia e al tempo della Reggenza anche in Francia era più in uso del caffè. Madama d'Arestrel superiora del convento delle Visitandines a Belley raccomandava al celebre gastronomo suo compatriota, Brillat-Savarin questa maniera di far la cioccolatta: «Quand vous vou» drez prendre du bon chocolat, faitez-le faire dès » la veille, dans une cafetière de faïence, et laissez-le » là. Le repos de la nuit concentre et lui donne » un veloutè qui le rend meilleur. Le bon Dieu » ne peut pas s'offenser de ce petite raffinement, » car il est lui-même tout excellence. » Il medesimo Brillat-Savarin suggerisce che una tazza di cioccolatta dopo il pranzo, invece del caffè è cosa che à il suo merito — e quel gastronomo la sapeva alla lunga. Non sò darmi pace, al pensare, come il fabbricante cioccolatta da noi sia stato preso come tipo di scempiaggine, sicchè ne rimase il proverbio: Fà una figura de ciccolattee, e come la parola ciccolatt serva al nostro popolo quale sinonimo di rabbuffo. La cioccolatta da noi è considerata come bevanda esclusivamente clericale.
, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa se la facevano servire perfino in Chiesa. I vescovi
Il Nespolo è pianta indigena europea, a foglia caduca. Cresce spontaneo allo stato selvatico nei boschi anche dei climi freddi, ama però quello temperato, esposizione poco soleggiata. In qualunque terreno si propaga per innesto sul lazzeruolo, spino bianco, castagno e pero. Nel linguaggio delle piante: Selvatichezza. Il frutto è malinconico, aspro, acidulo, color grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed aquista un sapore gradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japonica. Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio, e però pare che quello che la nespola aquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina, che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japonica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fà una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta. «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vin rosso e fate consumare il tutto fino a consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli e vuolsi che al tempo di Catone non vi fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa
E che sia duro il legno di nocciolo, lo attesta anche Virgilio nella 2ª Georgica: «Plantis et durœ coryli nascuntar.» I Greci chiamavano la nocciola: nux pontica per essere stata portata, al dir di Plinio, in Asia e in Grecia da Ponto, come pure si chiamava a Roma nux prœnestina, perchè, secondo Macrobio, la nocciola abbondava a Preneste, l'attuale Palestrina su quel di Roma, sì che assediata da Annibale gli abitanti furono salvati dalla fame, dalle nocciole. E dai Latini furono poi dette avellane, od abellinœ da Abella, città della Campania, l'attuale Avellino, dove maturavano saporissime e assai rinomate. I nostri vecchi facevano un certo, decotto, colle foglie del nocciolo, che dicevano assai buono contro il morso degli scorpioni. In alcuni luoghi della Francia le nocciole erano buttate via dagli sposi come oggi da noi i confetti in segno d'allegria. Morte vita e miracoli della nocciola si leggono in questi versi barocchi di frate Giromino da Varese.
assai rinomate. I nostri vecchi facevano un certo, decotto, colle foglie del nocciolo, che dicevano assai buono contro il morso degli scorpioni. In
È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo a condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono, lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27. 20) e nel Levitico (cap. 24. 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumastro chiamato omphacium gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come rimedio preziosissimo contro un'infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e coll'olio di fuori.» Intus mulso, foris oleo. L'olio d'olivo è adoperato in varie cerimonie della Chiesa. Anche il frutto dell'olivo è mangiabile. Nella Bibbia è chiamato fruges. — Si fruges collegeris olivarum (Deut. 24. 20). Galeno insegnava a mangiare le olive col pane, e fino dal tempo di Paolo Egineta mettevano appetito e si mangiavano per antipasto. Erano molto ricercate e ghiotte quelle condite con aceto od oximele che era una salsetta piccante fatta di aceto, miele e acqua marina. Celebri una volta quelle di Spagna e da noi quelle di Ascoli. Le grosse, spogliate prima, mediante liscivio, del principio amaro, si conservano in salamoja e si usano ancora a stuzzicare l'appetito per antipasto e condimenti diversi. Sono migliori se appena colte verdi si schiacciano, si toglie loro il nocciolo, si pongono in bagno di aqua per tre giorni, cambiando ogni giorno l'aqua, e finalmente si coprono con forte salamoja aromatizzata. Queste ulive non durano più di un mese, ma sono ghiottissime e si mangiano tali e quali sono, o si condiscono a foggia d'insalata. Orazio, in uno de' suoi accessi d'amore per l'aurea mediocrità, non desiderava altra cosa per essere felice, che un po' di olive, di cicoria, e di malva: Me pascant ulivœ, me cicorea, levesque malvœ. Tutti gli scrittori Greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama adirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri.
antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'Imperatore Augusto domandò a Romolo Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi
Nelle regioni cocenti dell'Africa e nelle meridionali d'Italia, principalmente nelle Puglie e nelle Calabrie, dal tronco dei vecchi alberi cola un succo addensato che si chiama Gomma d'olivo o Gomma di Lecce: è una resina balsamica che, soffregata dà odore di vaniglia e bruciata di acido benzoico. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio come profumo e rimedio balsamico, tonico, oftalmico. Il legno, durissimo, serve per i tornitori. L'olivo fu portato nell'Arca dalla colomba, simbolo di pace tra il cielo e la terra. Il Redentore si ritirava sul monte degli Olivi a pregare dal suo divin Padre il ritorno di questa pace, e la Chiesa nel suo rito, benedice l'olivo e lo distribuisce ancor oggi segnale di pace a' suoi fedeli.
. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio come profumo e rimedio balsamico, tonico, oftalmico. Il legno, durissimo
Albero dell'Europa Meridionale, che erge la sua cima fino a 30 metri a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centim., di un bel verde. Fiorisce in Maggio e produce coni grossi durissimi contenenti mandorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità. Quei coni si rompono, o si mettono al fuoco e allora s'aprono e lasciano la mandorla, aromatica e di grato sapore. Tale mandorla è molto in uso fra noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla Pineta di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle signore che se le lasciavano venire. Sono nutrienti, stimolanti, indigesti. È pasto graditissimo dei canarini che li fà cantare. Molti devono ricordarsi dei maestri che facevano fare i pigneu cioè unire insieme la punta delle cinque dita per batterle colla bacchetta — e pensare che si stava là mogi ad aspettare quel regalo.
di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per
Il Pomo, o Mela, è albero indigeno europeo, a foglia caduca, ama clima temperato — preferisce terreno sabbioso-argilloso. È fecondissimo. Si propaga per semi, barbatelle, innesto. À vita lunga, resiste al freddo, fiorisce tardi, chè soffre la brina pe' suoi frutti. Se ne contano più di 2000 varietà; fra queste le più apprezzate sono l'Azzeruola (pomm pomell), la Pupina (popin), od Appia — la Ruggine toscana, o Borda. Da noi tranne la varietà S. Peder e l'altra detta Pomm ravas, il pomo è frutto d'inverno. Nel linguaggio delle piante: Golosità. Può considerarsi maturo, quando incomincia a tingersi in giallo, mandare un po' della sua fragranza, e a cadere spontaneamente — indizio più sicuro è il colore nero de' suoi acini. Il raccolto è da farsi in giorno sereno, quando sia scomparsa la rugiada. Quelli che cadono avanti tempo, bisogna consumarli subito, facendoli cocere. Per conservarli freschi importa raccoglierli a mano, senza strapparli. Importa pure separare i frutti, che casualmente cadessero sul terreno, perchè presto si guasterebbero e guasterebbero gli altri. Nell'inverno gelano facilmente. Se le disgelate al fuoco, perdono: lasciate che disgelino con comodo o ponetele nell'acqua molto fredda, ma non ghiacciata; facendola intepidire a poco a poco anche il gelo della mela si rimette senza danno dell'organizzazione, così pure d'ogni altro frutto e delle ova. La mela, quando sia matura, è il più digeribile dei frutti, è simpatica, profumata, saporita, durevole, è l'amore dei bambini. Si mangia cruda, cotta, secca e confettata. I cuochi ne fanno fritture, charlottes, marmellate, la uniscono alle paste (lacciadin). In alcune contrade settentrionali, meno predilette dal Cielo, dove il sole non matura i pampini, la mela aquista molta importanza economica per la fabbricazione del Sidro, celebre quello di Normandia. È bevanda che può supplire il vino, e, al pari di questo, contiene dell'alcool, ma giammai del tartaro. Se ne fabbrica anche da noi a sofisticare o simulare il vino bianco, massime quello d'Asti. Riesce meno spiritoso e spesso incomodo, perchè genera flatulenze. Il sugo delle mele agre, serve a far aceto, che si conserva molto tempo. Le agre fanno perdere la memoria, dice il Pisanelli. Galeno parla pure di un succo liquore, delle mele, che sarebbe il sidro, che si vuole inventato da Publio Negro, che lo fabbricavano pure i Mormoni e lo trasportavano in Brittannia. In medicina, sono rinfrescative, lassative, pettorali. Se ne fa decozione e sciroppo nelle tossi catarrali. La polpa cotta, onde il nome di pomata, fu usata come emolliente nelle flogosi oculari, e fa parte della pomata del Rosenstein, contro le regadi delle labbra e de' capezzoli. La poma selvatica à virtù astringenti, detersive. Il legno del pomo è di grana fina, prende facilmente la pulitura, è uno dei migliori da fuoco. Il pomo è frutto cosmopolita e vanta la più antica delle prosapie. Iddio dopo aver creato la luce e divise le acque dalla terra, creò il pomo. Eva lo trovò bello e saporito e lo mangiò e lo fece mangiare ad Adamo, e da quel pomo l'origine e la serie d'ogni disgrazia. Mala mali malo mala contulit omnia mundo. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori designarono le frutta in genere, ma se ciò avvenne era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, così il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma il Dio del pomo, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno: — Uvas triennio servavit, hyeme summa, melones exibuit: mustum quemadmodum toto anno haberetur docuit: ficos virides et poma ex arboribus recentia semper alienis mensibus prœbuit (Plinio, lib. 14). I Greci raccontano del pomo cose orribili. Giove unì in nozze un bel giorno la dea dei mari, Teti, con Peleo, dal quale matrimonio nacque poi il bollente Achille. Quelle nozze furono celebrate con gran pompa e alla presenza di tutto l'olimpo au complet. Tutte le divinità infernali, aquatiche e terrestri ebbero, non solo il faire-part, ma officiale invito d'intervenire. Una Dea sola fu esclusa: la Dea Discordia. E questa per vendicarsi, al momento dei brindisi, comparve nella sala del banchetto e buttò sulla tavola un bellissimo pomo dicendo: «Alla più bella di voi» e sparì. Giunone, Pallade e Venere, ch' erano diffatti le più belle, si guardarono per traverso, e ognuna di loro pretendeva quel pomo. Giove, che in quel giorno non voleva seccature, mandò a chiamare Paride, un bel giovinotto, e lo fece arbitro della bellezza di quelle concorrenti. Tutte e tre fecero gli occhietti a quel giovinotto, ma egli consegnò il pomo a Venere, lasciando le altre due con tanto di naso. Venere ebbe il pomo, ma Giunone e Pallade lo conciarono poi per le feste, e tanto fecero che andò a finir male. Rubò Elena, fu assediato e vinto a Troja, e ferito da Pirro, andò a morire sul monte Ida. Tutto per quel pomo che dappoi fu chiamato il pomo della Discordia. Nè qui finisce la storia di quel pomo. Venere in quel giorno, almeno per galanteria, doveva cederlo a Teti, che sedeva in capo tavola, sposa festeggiata, ma fe' la sorda e se la mise in saccoccia. Naturalmente Teti l'ebbe a male alla sua volta, e se la legò anch'essa al dito. Avvenne, che Venere discese un giorno sulle rive delle Gallie a raccogliere perle e un tritone le rubò il pomo, che aveva deposto su di un sasso e lo portò a Teti. Questa lo prese, lo mangiò e buttò i semi in quella campagna a perpetuare il ricordo della sua vendetta e del suo trionfo. Ecco perchè, dicono i Galli-celti, sono tante mele nel nostro paese, e perchè le nostre fanciulle sono così belle! Questa seconda parte l'aggiunge Bernardin de S. Pierre, magnificando le bellissime mele della Normandia. Al pomo i nostri fratelli Svizzeri attaccano la storiella di Guglielmo Tell, e al pomo che cadde sul naso a Newton mentre riposava in giardino dobbiamo la scoperta dell'attrazione. Il nostro popolo prende il pomo come il tipo della rotondità (rotond come un pomm), della somiglianza (vess un pomm tajaa in duu), del vino fatto colle mani (vin de pomm), della paura (pomm-pomm), degli avvenimenti necessarii (el pomm quand l'è madur, bisogna ch'el croda); infine dell'arma più pacifica per sbarazzarsi da un seccatore (fà côrr a pomm).
, era detto Falacer e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I romani li facevano cocere nel vapore dell'acqua o sotto la cenere. L
La Cioccolata — (Mil.: Ciccolatt. — Franc.: Chocolat. — Ted.: Schokolate. — Ingl.: (Chocolate. — Spagnuolo: Chocolate), deve il suo nome a Sciocolatt, col quale vocabolo, al Messico, si chiamava una mistura di cacao, di farina di maiz, vaniglia e pepe. Tale pasta era ridotta in tavolette che si stemperavano all'uopo, in acqua calda. La cioccolatta è squisitissima e nutriente cibo, benchè non digeribile per tutti gli stomachi. Si ottiene impastando il cacao torrefatto collo zuccaro e coll'aggiunta per lo più di canella, chiodi di garofano e vaniglia. La cioccolatta drogata è più saporita e sana di quella che ipocritamente vien detta alla santè e che è la più indigesta. Si mangia cruda e cotta nell'acqua. È dannosa ai plettorici e ai troppo pingui e a chi soffre emorroidi e affezioni erpetiche. La cioccolatta si falsifica in mille modi, con farine, gomme, olii, grassi, materie minerali, ecc. I più onesti falsificatori si accontentano della fecola. Si mascherano le falsificazioni con molti aromatici, ond'è che la cioccolatta del commercio più aromatizzata, è la più sospetta di alterazione. La buona cioccolatta, è untuosa, di un odore deciso di cacao, la sua frattura è a grana fina, unita, non si rompe senza sforzo. Cotta nell'acqua o nel latte non ispessisce molto. La cattiva cioccolatta, à frattura ineguale, aspetto sabbioso, colore grigio-giallastro e irrancidisce rapidamente. Toccata colle dita perde la propria lucentezza, e quando si fa bollire esala un odore di colla. La cioccolatta assorbe facilmente gli odori stranieri, e perciò non si deve metterla a contatto di sostanze odorose. Esposta all'aria viene attaccata dagli insetti che la riducono in polvere. Va conservata in luogo secco e freddo, altrimenti si altera con rapidità, ammuffa e contrae un sapore sgradevole. La cioccolatta mista e bollita col latte, dà un'eccellente mistura assai sostanziosa, ma non adatta a tutti gli stomachi e che da noi si chiama barbajada, dal suo inventore Barbaja, impresario alla Scala al principio del secolo (1). Primi i Gesuiti, avvertendone la delicatezza e la facoltà nutritiva, insegnarono quella bevanda che divenne la colazione dei giorni di digiuno. Redi nel Bacco ci dice, che Antonio Carletti fiorentino, fu uno dei primi a far conoscere la cioccolatta in Europa e la Corte Toscana ad introdurla. Il padre Labat, al principio del secolo scorso, se ne fece l'apostolo, e il gesuita Tommaso Strozzi ne cantò, in poemetto latino, le lodi. Chi abbia letto il Roberti, dice Cesare Cantù (St. Un., T. XIV, p. 391) noterà questa predilezione delle muse gesuitiche per la prelibata mistura. Tutto il secolo XVII si combattè prò e contro la cioccolatta, il caffè ed il tè. Le dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa, se la facevano servire perfino in chiesa. I vescovi censurarono bensì tale pratica di ghiottoneria, ma finirono col chiudere gli occhi, e il rev. padre Escobar, sottilissimo in metafisica, quanto di manica larga in morale, dichiarò formalmente che la cioccolatta, coll'acqua non rompeva il digiuno, perchè
dame spagnuole in America, amavano la cioccolatta al punto che non contente di prenderne molte volte al giorno in casa, se la facevano servire perfino
I Fenici ne facevano pane e furono i primi che lo introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far pane (Ezech.). Gli scrittori greci e latini la raccomandavano come cibo gratissimo ai giumenti. Varone e Columella ne parlarono, ma mai come di cosa idonea al cibo dell'uomo. I Latini presero il nome di Faba dai Falisci, popolo dell'Etruria, abitanti a Falerio, oggi Montefiasco. Essi la chiamavano Haba e poi, per corruzione, i Latini Faba. Da faba venne pure la parola fabula, ad indicare una cosa gonfiata, onde fabula, una piccola balae fabarii i cantori, perchè questi mangiavano le fave ad irrobustire la voce, e cantavano delle frottole. Ermolao Barbaro scrive che a' suoi tempi nell'Insubria e nella Liguria i venditori di fava andavano gridando per le strade: bajana, bajana! donde forse derivò a noi il nome di bagiana. Nel Veneto, ai Milanesi si dava l'epiteto di bagiani, che da noi significa babbei. Fino dalla antichità la fava serviva nei comizi per la votazione. La bianca era segno di assoluzione, la nera di dannazione, teste Plutarco. Da qui, ne venne che la parola fava servisse per dire suffragio, voto ed anche favore. Pitagora diceva essere proibito mangiar le fave — cioè vendere i voti. Oh! quante fave mangiano i deputati! Vogliono inoltre che Pitagora proibisse la fava, perchè insegnando che le anime dei trapassati trasmigrano nei corpi degli animali, e come nella fava trovandosi spesso dei vermi, temeva che i suoi scolari mangiassero i parenti o gli amici loro. Ed era tanta la sua eloquente filosofia, che la storia ci tramanda, che il suddetto Pitagora, persuase perfino un bue a sortire da un campo di fave. Il che però, secondo i mormoratori di quei tempo, non impedì a Pitagora di cibarsene lui e di dover morire appunto in un campo di fave.
I Fenici ne facevano pane e furono i primi che lo introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani
grigio ferro, non profumato. Non matura mai sui rami. Raccolto e posto sulla paglia matura lentamente, divien morbido ed acquista un sapore sgradevole. La nespola è fornita internamente di cinque noccioli, o semi, durissimi a forma di mezza palla, onde il suo nome dal greco. Diverse varietà, fra le quali la hortensis, a frutto voluminoso, e l'abortiva, a frutto senza noccioli — quella coltivata comunemente è la varietà japónica. «Col tempo e colla paglia maturano le nespole, dice il proverbio,» e però pare che quello che la nespola acquista sulla paglia, non sia la vera maturanza, ma piuttosto un principio di fermentazione zuccherina che la rende molle, succosa, dolce, da dura ed agra e non affatto mangiabile qual era appena colta. Coi semi della japónica uniti ad alcool e zuccaro si fabbrica un liquore spiritoso da tavola. La nespola non costituisce mai un boccone molto ricercato, e non gli si tributa la deferenza che si à per le altre frutta. Il legno del nespolo è durissimo, serve a diversi usi, ed è prezioso se in pezzi grossi. Questo frutto à virtù astringente ed è a consigliarsi nelle diarree semplici. In Francia se ne fa una speciale confettura della quale il Mantegazza ci dà la seguente ricetta: «Ripulite le nespole e gettatele in burro fresco e, reso rossiccio dalla cottura, lasciatele bollire. Quando saranno cotte, versatevi un quarto di vino rosso e fate consumare il tutto fino a una consistenza sciropposa. Ritirate le nespole e spolverate di zucchero.» Ricetta, che d'altronde trovo scritta ed usata fino dal 1560 e raccolta dal Campegio. Pare che il nespolo sia stato portato in Italia dai Galli, e vuolsi, al tempo di Catone non fosse conosciuto. Gli antichi gli assegnavano virtù d'arrestare il vomito, di preservare dall'ubbriachezza, e fu sempre tenuta come medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
medicina, piuttosto che frutta alimentare. I Romani ne facevano del vino, ce ne informa Virgilio:
I Greci chiamavano la nocciola: nux pontica, per essere stata portata, al dir di Plinio, in Asia e in Grecia da Ponto, come pure si chiamava a Roma nux praenestina, perchè, secondo Macrobio, la nocciola abbondava a Preneste, l'attuale Palestrina, su quel di Roma, sì che assediata da Annibale, gli abitanti furono salvati dalla fame dalle nocciole. E dai Latini furono poi dette avellane od abellinae, da Abella, città della Campania, l'attuale Avellino, dove maturavano saporitissime e assai rinomate. I nostri vecchi facevano un certo decotto, colle foglie del nocciolo, che dicevano assai buono contro il morso degli scorpioni. In alcuni luoghi della Francia le nocciole erano buttate via dagli sposi, come oggi da noi i confetti, in segno d'allegria. Morte, vita e miracoli della nocciola si leggono in questi versi barocchi di frate Giromino da Varese:
Avellino, dove maturavano saporitissime e assai rinomate. I nostri vecchi facevano un certo decotto, colle foglie del nocciolo, che dicevano assai buono
L'olivo è pianta indigena sempre verde. Ama esposizione asciutta, soleggiata, difesa dai venti, terreno buono, sabbioso, concimato. Teme il gelo (resiste fino a 7 gradi) e la grande siccità. Fiorisce lentamente, si moltiplica per semi, talee, polloni ed innesto. Comincia a produrre verso il quindicesimo anno di vita, e aumenta fino ai cinquanta — à vita secolare. Molte le varietà a seconda dei paesi. In Italia è coltivato lungo le costiere marittime. Abbonda nel Lucchese e nella Romagna, lo si trova sulle rive bene esposte del Lago Maggiore, di Garda, di Como. Era coltivato nel resto della Lombardia, ma il forte disboscamento delle Alpi lo distrusse. Nel linguaggio delle piante: Pace, Riposo, Sicurezza. I frutti dell'olivo non sarebbero perfettamente maturi che nel maggio seguente alla fioritura, quando ànno acquistato un color rosso nerastro, ma si colgono in novembre e dicembre, perchè non maturando tutti alla medesima epoca, il raccolto andrebbe perduto. Raccolte le olive si mettono in casse o tini perchè non vi penetri aria o succeda fermentazione e si coprono a garantirle dal freddo. Cosi si può ritardare l'estrazione dell'olio fino a primavera e ottenerne una maggior quantità. Appartiene alla famiglia dell'olivo, l'olea fragrans, che dà i fiorellini cosi soavemente profumati. L'olio che si cava dalle bache è vergine quando è fatto col frutto maturo a pressione e si distingue dall'altro che si ottiene colla bollitura. Il primo è assai migliore. L'olio, d'oliva fino dev'essere insaporo. Gode del primato in Italia quello di Lucca. È facilmente adulterato con quello di semi di cotone, di sesamo (vedi in Sesamo), di arachide e d'altri semi. È alimentare per eccellenza, e venne sempre usato come condimento alle carni, agli ortaggi e persino alle frutta. Nè solo condire, ma serve pure a conservare in vari modi le vivande e a bruciare. L'olio d'olivo è il più antico dei rimedi che si conoscono; lo si adopera internamente ed esternamente, freddo e caldo: è la base della maggior parte degli unguenti e degli oli medicinali. L'olio cotto non gela. L'arte di cavar olio dall'oliva è antichissima. La si trova citata nell'Esodo (cap. 27, 20) e nel Levitico (cap. 24, 2). Dal frutto verde immaturo i Romani estraevano un olio viscoso, brumasto, chiamato omphacium. Gli atleti se ne ungevano il corpo, poi, dopo la lotta, misto al sudore ed al sangue, lo si raschiava dal corpo con una specie di coltello detto strigili, e lo si conservava come preziosissimo contro una infinità di malattie, principalmente la scabbia e l'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'imperatore Augusto domandò a Pollione come avesse saputo toccare i cento anni, e questi rispose: «curandomi col vino di dentro e con l'olio di fuori.»
'alopacia (caduta dei capelli). Gli antichi ne facevano molto uso igienico per frizioni. L'imperatore Augusto domandò a Pollione come avesse saputo
. Tutti gli scrittori greci e latini ne parlano, magnificandone i benefici. Columella lo chiama addirittura: Olea omnium arborum prima. Le foglie e le scorze ànno sapore amaro e danno un succedaneo al chinino nelle febbri. Nelle regioni cocenti dell'Africa e nelle meridionali d'Italia, principalmente nelle Puglie e nelle Calabrie, dal tronco dei vecchi alberi cola un succo addensato che si chiama Gomma d'olivo o Gomma di Lecce; è una resina balsamica che, soffregata, dà odore di vaniglia e, bruciata, di acido benzoico. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio come profumo e rimedio balsamico, tonico, oftalmico. Il legno, durissimo, serve per i tornitori. L'olivo fu portato nell'Arca dalla colomba, simbolo di pace tra il cielo e la terra. Il Redentore si ritirava sul monte degli Olivi a pregare dal suo divin Padre il ritorno di questa pace, e la Chiesa nel suo rito, benedice l'olivo e lo distribuisce ancor oggi segnale di pace a' suoi fedeli. Sulla fede di Plinio moltissimi pretendono che l'olivo sia originario dell'Asia, e non sia stato portato in Italia che sotto Tarquinio Prisco, verso il 180 dalla fondazione di Roma. Ma come nota il Bortoloni, forse allora solo, s'incominciò a coltivarlo, ma l'olivo selvatico è assolutamente indigeno di tutti i climi caldi e temperati d' Europa. Presso noi, quattordici secoli fa, il poeta Claudiano già ne scriveva:
balsamica che, soffregata, dà odore di vaniglia e, bruciata, di acido benzoico. Gli antichi la facevano venire dall'Etiopia e l'avevano molto in pregio
di orzo. Nella Grecia era celebre l'orzo di Atene dove era in antichissimo uso di cibo, al dire di Meandro e pare che fosse pure l'alimento più omogeneo dei gladiatori, i quali forse per ciò venivano chiamati Hordearii. Presso i Romani non godette molta fama. Es hordearium, veniva chiamato il foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominia; causa. Marcello diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano il pane d'orzo diventavano imbecilli. Nella Sacra Scrittura l'orzo è pure ritenuto come cibo ignominioso e da poco. L'orzo, il miglio e la veccia sono pressochè sempre messi insieme (Isaia). Ezechiele, parlando dei falsi profeti dice:
, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano il pane d'orzo diventavano imbecilli. Nella Sacra
Il pignòlo, o pinocchio, è il frutto del pinus pinea, detto volgarmente pino domestico, pino d'Italia. Albero dell'Europa meridionale, che erge la sua cima fino a 30 metri, a forma di ombrello. Porta foglie numerose lunghe da 10 a 15 centimetri, di un bel verde. Fiorisce in maggio e produce coni grossi, durissimi, contenenti màndorle triangolari lunghe due centimetri. Nel linguaggio delle piante: Tenacità. Quei coni si rompono, o si mettono al fuoco e allora s'aprono e lasciano la màndorla, aromatica e di grato sapore. Tale màndorla è molto in uso fra noi, serve ai cuochi per salse, ripieni, condimento a certe vivande e verdure, ai pasticcieri per torte, paste, ecc. In Italia l'abbiamo dalla pineta di Ravenna. Il pino era consacrato a Cibele, la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle signore che se le lasciavano venire. Sono nutrienti, stimolanti, indigesti. È pasto graditissimo dei canarini, che li fa cantare. Molti devono ricordarsi dei maestri che facevano fare i pignoeu, cioè unire insieme la punta delle cinque dita per batterle colla bacchetta; e pensare che si stava là mogi ad aspettare quel regalo!
Cibele, la quale cangiò Atys in pino. Dai Greci i pinocchi erano chiamati Pityides. Se ne facevano un unguento per togliere le rughe della faccia a quelle
. Vero è che col nome di pomo, non solo la Bibbia, ma tutti gli scrittori, designarono le frutta in genere, ma, se ciò avvenne, era perchè il pomo era il re, il capostipite di tutti i frutti e si prese il nome suo ad indicare tutto ciò che il regno vegetale produceva di bello e di bono a mangiarsi. Così tutti i barbari che calavano da noi, chiamavano l'Italia la terra delle dolci poma, cosi il frutteto fu chiamato pomarium. A Roma, il Dio del pomo, era detto Falacer, e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I Romani li facevano cocere nel vapore dell'aqua o sotto la cenere. L'arte di conservare le poma, era all'apogeo presso i Romani. Pollione dice di Gallieno:
pomo, era detto Falacer, e vi aveva un apposito sacerdote col relativo santuario. I Romani li facevano cocere nel vapore dell'aqua o sotto la cenere. L
Plinio però anteponeva a questi, quelli d'Egitto. E difatti gli Ebrei, tolti alla schiavitù da Mose, rammentavano sospirando i cocumeri, i meloni, i porri, le cipolle e l'aglio d'Egitto! (Num. 2). Acrone, medico agrigentino, amico di Empedocle, li faceva cocere sotto la brace. Nerone li mangiava spesso, perchè diceva che i porri lo facevano cantar bene. Taddeo, medico fiorentino insignissimo, che li mangiava crudi con sale, dice che purgano lo stomaco e provocano l'appetito. Marziale condannava i porri tarentini pel cattivo odore che lasciavano in bocca:
spesso, perchè diceva che i porri lo facevano cantar bene. Taddeo, medico fiorentino insignissimo, che li mangiava crudi con sale, dice che purgano lo
Salvia è dal latino salvare per le grandi virtù che possiede. Salvia salva, diceva un proverbio romano. È pianta erbacea perenne, indigena, originaria dell'Armenia, si moltiplica per getti, per divisione di radici ed anche per semi: questi germinano fino a tre anni. Brama terra sostanziosa ma piuttosto leggera, vuol essere di preferenza addossata al muro, ama il sole, porta fiori dal giugno al luglio. Nel linguaggio dei fiori: ambizione, stima. Ve ne sono più di 80 varietà, gran parte delle quali si distinguono pel loro grato odore e per l'eleganza. L'officinalis, che è quella comunemente conosciuta, si coltiva negli orti per la cucina e la medicina. La parte usata sono le foglie e le cime fiorite, à forte odore aromatico, sapore caldo amaro piccante. La salvia mescolata con cipolla in insalata eccita l'appetito, massime posta sopra le alici. Se ne veste ogni arrosto, in ispecial modo gli uccelletti e i pesci, ai quali dà bonissimo odore e sapore. Pesta e stemperata con aceto, mista con zucchero ed aglio fa una salsa non isgradevole. Le minestre di legumi (e più quella di ceci) prendono sapore dalla salvia. Involta nelle frittelle, massime se di farina di castagne, dicono sia ghiotta. Cotta con aceto, olio, zafferano e poco zuccaro fa un ottimo marinato per il pesce. Friggesi la salvia con olio, burro, strutto, se ne regalano tutti i fritti. La salvia sta bene per tutto, fuori che nei lessi, a' quali non s' addice per la sua amarezza. Attiva le funzioni digerenti e circolatorie, aumenta il calore animale, modifica l'influenza nervosa. La farmacia ne estrae un olio essenziale e ne fa una infusione della quale la medicina si serve ad eccitare i sudori e a rianimare le forze vitali, perchè la salvia è tenuta come un bon stimolante. Il decotto di salvia è giudicato volgarmente come un febbrifugo e in primavera come un depurativo del sangue. Gli antichi ne facevano molto uso. Tutti l'ànno lodata. Da Agrippa veniva chiamata herba nobilis, herba sacra. Era tanto comune il suo uso presso i latini che inventarono perfino il verbo salutare, dare una porzione di salvia, condire con la salvia. E la Salernitana si meraviglia come possa morire un uomo che abbia nel suo orto la salvia:
volgarmente come un febbrifugo e in primavera come un depurativo del sangue. Gli antichi ne facevano molto uso. Tutti l'ànno lodata. Da Agrippa veniva
così eccellente e che trovano preferibile al medesimo. E gli Olandesi facevano incetta in Europa della salvia per venderla carissima ai Chinesi e Giapponesi. La specie sclarea si adopera per dare il sapore moscato agresto ai gelati e ad alcuni vini. Un proverbio popolare dice: Se vuoi molto campare la salvia ài da mangiare.
così eccellente e che trovano preferibile al medesimo. E gli Olandesi facevano incetta in Europa della salvia per venderla carissima ai Chinesi e
Raccontasi che Cinea di Tessaglia, filosofo ed oratore, discepolo di Demostene e ambasciatore di Pirro, colui che à fatto dire a Pirro di aver preso più città coll'eloquenza di Cinea che egli colle armi (Plutarco in Pyrrho), raccontasi dunque che Cinea, ammirando le estensioni delle viti in Aricia, dicesse motteggiando sul vin brusco che facevano «essere sì triste il figlio che ben meritava la madre di essere appiccata tanto alto.»
, dicesse motteggiando sul vin brusco che facevano «essere sì triste il figlio che ben meritava la madre di essere appiccata tanto alto.»
Purtroppo il bisogno costringe chi ha pochi centesimi da spendere, a bollire le ossa invece della carne, per ricavarne un liquido che paia brodo. Nella prima metà del passato secolo era in uso negli spedali parigini e, con le ossa si facevano gelatine. Alfonso Karr, nelle Guêpes protestò contro il poco o nullo valore nutritivo dell'estratto; ed ora, credo, sia andato in disuso. Molti però, nelle famiglie, mettono in pentola anche l'osso che il beccaio dà per giunta, il che non nuoce e contribuisce, se non in gran parte, alla virtù nutritiva del brodo, oggi da molti fisiologi messa in dubbio. Ma le ossa, non sono, così usate, un avanzo di cucina, bensì un avanzo del macellaio. Tuttavia, tornando in tema di veri avanzi, ecco una ricetta che può esser utile, almeno come espediente.... di guerra.
. Nella prima metà del passato secolo era in uso negli spedali parigini e, con le ossa si facevano gelatine. Alfonso Karr, nelle Guêpes protestò contro il
Ah, quell'inverno passato a Genova lo gustai come uno spicchio di Paradiso terrestre e mi sembrò di ringiovanire ! La Biblioteca ed il mio appartamento erano un po' alti sul livello del mare. Contavo 300 scalini precisi ed io li salivo e li scendevo due volte al giorno (600 in salita e altrettanti in discesa, quanti sono?) disinvolto, fiero e dimentico de' miei settantun'anni. Aggiungete le salite e le discese di cui Genova non è avara e vedete se avevo ragione di vantarmi. Ed ero ringiovanito quando, prima dell'apertura dell'Ufficio andavo colla figliola a spendere o in Pescheria o nel Mercato degli ortaggi, comprando bestie od erbe a noi sconosciute e causa di disillusioni che a tavola ci facevano ridere di buon cuore. Infatti godevo la più serena pace. Ero occupato come desideravo, in mezzo ai libri e nella stanzetta lassù in alto, se c'era un raggio di sole, mi si posava sul tavolo. Finito l'orario d'Ufficio, scendevo per un vicoletto in faccia all'Università, quello appunto dove il Goldoni s'innamorò della sua Nicoletta, come ricorda un'epigrafe e, traversata via Prè, calavo al porto, bighellonando, osservando e fumando senza un pensiero al mondo. Gli impiegati erano brave persone che non avevano bisogno di stimoli per lavorare, uniti e d'accordo come una buona famiglia, e i Professori non stimavano la Biblioteca pubblica come res mancipi, nè il Bibliotecario un Davo da comandare loco servi. (Oh stelle ! Parlo come un chiarissimo!)
Mercato degli ortaggi, comprando bestie od erbe a noi sconosciute e causa di disillusioni che a tavola ci facevano ridere di buon cuore. Infatti godevo la
Vicia da Vincia, che si attorciglia. Legume annuale, originario del mar Caspio e della Persia. Vuol terreno argilloso, sostanzioso, a mezzodì. Si semina d'autunno a Febbraio. Due varietà: la invernenga e la marzuola detta Cavallina più piccola. Celebre la fava di Nizza. Nel linguaggio dei fiori: Corbellare. La fava fresca che da noi si chiama Bagiana , si mangia in minestra. Secca si macina e serve anche pel bestiame. La fava è feculenta e flattulenta, deve essere mangiata di rado e tenera. La fava specialmente secca è cibo da carettiere. È il più grosso dei nostri legumi mangerecci. I Fenici ne facevano pane e furono i primi che la introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far pane (Ezech.). Gli scrittori greci e latini la raccomandavano come cibo gratissimo ai giumenti. Varone e Columella ne parlarono, ma mai come cosa idonea al cibo dell'uomo. I Latini presero il nome di Faba dai Falisci, popolo dell'Etruria, abitanti a Falerio, oggi Montefiasco. Essi la chiamavano Haba e poi per corruzione i Latini Faba. Da faba venne pure la parola fabula, ad indicare una cosa gonfiata, onde fabula, una piccola bala — e fabarii i cantori, perchè questi mangiavano le fave ad irrobustire la voce. La fava diede il nome alla famiglia dei Fabi. Ermolao Barbaro scrive che a' suoi tempi nell'Insubria e nella Liguria i venditori di fave andavano gridando per le strade : bajana, bajana! donde forse derivò a noi il nome di bagiana. Nel Veneto ai Milanesi si dava l'epiteto di bagiani, che da noi significa babbei. Fino dalla antichità la fava serviva nei comizi per la votazione. La bianca era segno di assoluzione, la nera di dannazione , teste Plutarco. Da qui ne venne che la parola fava servisse per dire suffragio, voto ed anche favore. Pittagora diceva, essere proibito mangiar le fave — cioè vendere i voti. Oh! quante fave mangiano i deputati! Le galline che mangiano le fave, fanno l' ovo col guscio molto fragile.
ne facevano pane e furono i primi che la introdussero da noi. Nella Bibbia troviamo che la fava dava la farina da mischiarsi con altri grani a far
L'Orzo dopo il frumento ed il riso è il cereale che serve più d'ogni altro all'alimentazione dell'uomo. Si crede originario della Palestina e della Siria - si afferma però che fu trovato indigeno in Sicilia. Il suo nome da horreo, per le reste ruvide al tatto. Viene in quasi tutti i terreni, ama però meglio quello sciolto. Sopporta il freddo più della segale, nella Svizzera si coltiva a m. 1900 sul livello del mare. Seminasi in primavera ed autunno. Ve ne sono diverse varietà; se ne coltivano due specie: il volgare e lo scandella, questo per pascolo al bestiame. Del volgare migliore quello di Germania e della Siberia. Colla farina del grano d'orzo se ne fà pane, la si mescola con quella del frumento. Coll'orzo se ne fanno eccellenti, saporite e sanissime minestre. L'orzo mondo, di scelta qualità, precedentemente con meccanico sfregamento arrotondato, chiamasi perlato, e viene preferito a farne pappine alimentari e cataplasmi. Un principio di germinazione altera i principi costitutivi dell'orzo, sì che, mentre aumenta la proporzione dell'amido e zuccaro, diminuisce quello del glutine e dell'ordeina. In questo stato chiamasi orzo tallito, o germinato, che è preferito negli ospedali come base al decotto pettorale. L'orzo è il principale ingrediente e la base della birra. Gli antichi lo chiamano frumento nobilissimo. Gli Etiopi e gli Indi non conobbero altro pane che quello di miglio e di orzo. Nella Grecia era celebre l'orzo di Atene dove era in antichissimo uso di cibo, al dire di Meandro e pare che fosse pure l'alimento più omogeneo dei gladiatori, i quali forse per ciò venivano chiamati Hordearii. Presso i Romani non godette molta fama. Es hordearium, veniva chiamato il foraggio dei cavalli, lo si dava al bestiame e ai soldati vigliacchi, ignominiæ causa. Marcello diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano il pane d'orzo diventavano imbecilli. Nella Sacra Scrittura l'orzo è pure ritenuto come cibo ignominioso e da poco. L'orzo, il miglio e la veccia sono pressochè sempre messi insieme (Isaia). Ezechiele parlando dei falsi profeti dice: Et violabant me (cioè Iddio) ad populum meum propter pugillum hordei etfragmen panis. (Ezech.). Di tale opinione è pure S. Gerolamo, vedi In Isaiam. Lo stesso S. Gerolamo asserisce aver visto in Siria un'eremita che visse trent'anni con orzo ed acqua sporca. Galeno ne scrisse lungamente in un libro tutto dedicato al decotto: De Phtisana hordacea.
diede alle sue legioni dell'orzo invece del frumento, perchè si erano lasciate battere da Annibale. Aristotele scrive che i fornai e coloro che facevano
Plinio però anteponeva a questi, quelli d'Egitto. E diffatti gli Ebrei tolti alla schiavitù da Mosè rammentavano sospirando i cocumeri , i meloni, i Porri, le cipolle e l'aglio d'Egitto! (Num. 2). Acrone, medico agrigentino, amico di Empedocle, li faceva cuocere sotto la brage. Nerone li mangiava spesso Perchè diceva che i porri lo facevano cantar bene. Taddeo, medico fiorentino insignissimo, che li mangiava crudi col sale, dice che purgano lo stomaco e provocano l'appetito. Marziale condannava i porri tarentini pel cattivo odore che lasciavano in bocca:
spesso Perchè diceva che i porri lo facevano cantar bene. Taddeo, medico fiorentino insignissimo, che li mangiava crudi col sale, dice che purgano lo
Salvia è dal latino salvare per le grandi virtù che possiede. È pianta erbacea perenne, originaria dell'Armenia, si moltiplica per getti, per divisione di radici ed anche per semi. Brama terra sostanziosa ma piuttosto leggera, vuol essere di preferenza addossata al muro, ama il sole, porta fiori dal Giugno al Luglio. Nel linguaggio dei fiori: Ambizione, stima. Ve ne sono più di 80 varietà, gran parte delle quali si distinguono, per loro grato odore e per l'eleganza. L'Officinalis che è quella comunemente conosciuta si coltiva negli orti per la cucina e la medicina. La parte usata sono le foglie e le cime fiorite, à forte odore aromatico, sapore caldo amaro piccante. La salvia cruda mescolata con cipolla in insalata eccita l'appetito, massime posta sopra le alici. Se ne veste ogni arrosto in special modo gli uccelletti e i pesci, ai quali dà bonissimo odore e sapore. Pesta e stemperata con aceto, mista con zucchero ed aglio fà una salsa non isgradevole. Le minestre di legumi (e più quella di ceci) prendono sapore dalla salvia. Involta nelle frittelle massime se di farina di castagne, dicono sia ghiotta. Cotta con aceto olio, zafferano e poco zuccaro fà un'ottimo marinato per il pesce. Friggcsi la salvia con olio, burro, strutto, se ne regalano tutti i fritti. La salvia sta bene per tutto, fuori che nei lessi a' quali non s'addice per la sua amarezza. Attiva le funzioni digerenti e circolatorie, aumenta il calore animale, modifica l'influenza nervosa. La farmacia ne estrae un'olio essenziale, e ne fa un'infusione della quale la medicina si serve ad eccitare i sudori e a rianimare le forze vitali, perchè la salvia è tenuta come un buon stimolante. Il decotto di salvia è giudicato volgarmente come un febbrifugo e in primavera come un depurativo del sangue. Gli antichi ne facevano molto caso. Tutti l'ànno lodata. Da Agrippa veniva chiamata herba nobilis, herba sacra. Era tanto comune il suo uso presso i latini che inventarono perfino il verbo salviare, dare una porzione di salvia, condire colla salvia. E la Salernitana si meraviglia come possa morire un'uomo che abbia nel suo orto la salvia: - Cur moriatur homo cui salvia crescit in horto? - I medici francesi la battezzarono Teriaca naturale. La salvia veniva creduta donare l'immortalità e serviva per imbalsamare i corpi e si portava addosso e si mangiava nelle battaglie. Servio ci tramanda che il cuoco di Mecenate, faceva arrostire gli uccelletti colla salvia. La salvia è un cibo graditissimo alle api che dai di lei fiori cavano un miele saporito. Le sue foglie servono a pulire i denti. Frate Anselmo da Busto suggeriva ai predicatori e agli avvocati, di tenere una foglia verde di salvia sotto la lingua, che la rende più agile e sciolta. Guardatevi dal suggerire tale segreto alla vostra domestica. Coi fiori della salvia si prepara una conserva deliziosa. Le foglie secche si fumano come tabacco, quale rimedio antispasmodico contro la cefalalgia nervosa e l'asma. I Chinesi ne sono ghiottissimi e si stupiscono come gli Europei vadino a cercare il the nei loro paesi, mentre possedono una pianta così eccellente e che trovano preferibile al medesimo. E gli Olandesi facevano incetta in Europa della salvia per venderla carissima ai Chinesi e Giapponesi. La specie sclarea si adopera per dare il sapore moscato agresto ai gelati e ad alcuni vini.
facevano molto caso. Tutti l'ànno lodata. Da Agrippa veniva chiamata herba nobilis, herba sacra. Era tanto comune il suo uso presso i latini che
Ed ecco apparire i camerieri con grandi vassoi recanti il «servovolatine di prateria» consistente in un impasto discretamente diabolico dove fette di barbabietola e fette di arancio facevano comunella insieme alleate da olio ed aceto e pizzichi di sale. Molti dei pranzanti avevano già, a questo punto, il loro apparato digerente in condizioni non del tutto normali, cosicché non si possono rimproverare se non seppero reprimere un istintivo gesto di terrore allorché apparve la guantiera sorreggente la «cibarie conclusiva». Cibarie che si gloriava d'un nome oltremodo dinamico: «Elettricità atmosferiche candite». Queste care ed indimenticabili «elettricità» avevano la forma di coloritissime saponette di finto marmo, contenenti nel loro interno una pasta dolciastra formata con ingredienti che solo sarebbe possibile precisare con una paziente analisi chimica. Dobbiamo dire, per scrupolo di cronisti, che solo una minima parte dei banchettanti osò recare queste saponette alla bocca: di coloro che osarono non si conoscono sventuratamente i nomi. Diciamo sventuratamente perchè un simile manipolo di eroi meriterebbe di vedersi, per lo meno, eternato in una lapide di bronzo.
barbabietola e fette di arancio facevano comunella insieme alleate da olio ed aceto e pizzichi di sale. Molti dei pranzanti avevano già, a questo
Una volta furono regalati sei tordi a un signore il quale, avendo in quei giorni la famiglia in campagna, pensò di mangiarseli arrostiti a una trattoria. Erano belli, freschi e grassi come i beccafichi e però, stando in timore non glieli barattassero, li contrassegnò tagliando loro la lingua. I camerieri entrati in sospetto cominciarono ad esaminarli se segno alcuno apparisse e, guarda guarda, aiutati dalla loro scaltrezza, lo ritrovarono. Per non la cedere a furberia o forse perchè con essi quel signore si mostrava soltanto largo in cintura, — Gliela vogliamo fare — gridarono ad una voce; e, tagliata la lingua a sei tordi de' più magri che fossero in cucina, gli prepararono quelli serbando i suoi per gli avventori che più premevano. Venuto l'amico coll'ansietà di fare in quel giorno un ghiotto mangiare e vedutili secchi allampanati, cominciò a stralunare gli occhi e voltandoli e rivoltandoli fra sè diceva: — Io resto! ma che sono proprio i miei tordi questi? — Poi, riscontrato che la lingua mancava, tutto dolente, si dette a credere che avessero operata la metamorfosi lo spiedo e il fuoco. Agli avventori che capitarono dopo, la prima offerta che in aria di trionfo facevano quei camerieri, era: — Vuol ella oggi un bellissimo tordo? — e qui a raccontare la loro bella prodezza, come fu narrata a me da uno che gli aveva mangiati.
che avessero operata la metamorfosi lo spiedo e il fuoco. Agli avventori che capitarono dopo, la prima offerta che in aria di trionfo facevano quei
Raccontavano i nostri nonni che quando, sullo scorcio del secolo passato, i Tedeschi invasero l'Italia avevano nei loro costumi qualche cosa del bruto; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d'acqua a bollore, strizzandone i lucignoli; ma quando nel 1849 sfortunatamente ci ricascarono addosso, furono trovati assai rinciviliti e il sego non era visibile che ne' grandi baffi delle milizie Croate col quale li inzafardavano, facendoli spuntare di qua e di là dalle gote, lunghi un dito e ritti interiti. Però, a quanto dicono i viaggiatori, una predilezione al sego predomina ancora nella loro cucina, la quale dagl'Italiani è trovata di pessimo gusto e nauseabonda per untumi di grasso d'ogni specie e per certe minestre sbrodolone che non sanno di nulla. Al contrario tutti convengono che i dolci in Germania si sanno fare squisiti e voi stessi potrete, così alto alto, giudicare del vero, da questo che vi descrivo e dagli altri del presente trattato che portano il battesimo di quella nazione.
bruto; e facevano inorridire a vederli preparare, ad esempio, un brodo colle candele di sego che tuffavano in una pentola d'acqua a bollore, strizzandone